Guerre commerciali e catene globali del valore

Quanto incidono, e come, le guerre commerciali attuali sulla complessità, la lunghezza e la solidità delle catene globali del valore? Una breve analisi di Domenico Bevere.

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, reagendo alle ritorsioni annunciate da Pechino contro 75 miliardi di dollari di importazioni americane, ha suggerito alle aziende statunitensi di iniziare immediatamente a cercare un’alternativa, riorganizzandosi abbandonando la Cina e trasferendo la produzione nel territorio nazionale. Diverse sono le aziende che, danneggiate dalla spirale di dazi, stanno affrontando una fase di riassetto organizzativo attraverso piani di riconfigurazione delle attività volte al potenziamento fuori dai confini cinesi, premiando paesi a basso costo come Messico e sud-est asiatico.

Spostare l’intera produzione fuori dalla Cina non è però così semplice dal momento in cui la maggior parte dei prodotti coinvolge una catena o una rete di fornitori. Acquistare un prodotto da un’azienda cinese vuole dire a sua volta acquistare – indirettamente – dai fornitori dell’esportatore cinese e dai fornitori dei loro fornitori. Il network in questione è chiamato catena globale del valore, ossia l’insieme delle attività economiche richieste per portare un prodotto o un servizio dalla sua ideazione al consumatore finale, attraverso fasi intermedie di produzione che aggiungono valore ad ogni passaggio. A tal riguardo, la complessità  del processo di produzione può essere misurata a seconda della lunghezza della catena del valore (Kidder e Dollar, 2018), intesa quale media ponderata dei processi di produzione all’interno della catena stessa.

Gli acquirenti internazionali preferiscono stabilire relazioni commerciali con fornitori con catene del valore lunghe che permettono loro di ridurre i costi di transazione, tra cui barriere linguistiche, differenze culturali e burocratiche nonché asimmetrie informative. Paesi con catene del valore lunghe intrattengono rapporti più profondi con i fornitori e ciò consente di produrre una varietà maggiore di progetti esteri.

Al momento, la Cina detiene le più lunghe catene del valore al mondo nel settore manifatturiero (12 su 16 attività), trainata sia dall’acquisizione di competenze industriali avanzate che dalla eccezionale espansione interna, merito anche dello sfruttamento delle economie di scala.

La Cina offre un interessante case study dato che, contrariamente a quanto spesso sostenuto, non trae un vantaggio commerciale dovuto ai salari più bassi – basti pensare che dal 2005 al 2016 il salario medio di un operaio cinese è aumentato in media del triplo – ma dalla lunghezza delle catene del valore. Studiosi come Kidder e Dollar (2018) affermano come la lunghezza delle catene influenzino la composizione delle competenze della forza lavoro: catene del lavoro più lunghe si traducono in una manodopera maggiormente qualificata e viceversa. Gli stessi compiti ed attività svolte all’interno della catena possono influire sulla partecipazione e sul posizionamento nelle CGV, nonché sulla domanda di lavoro specializzato. Attività di R&S, progettazione, branding e assistenza ai clienti, solo per citarne alcune e che costituiscono il fulcro di una intensa catena, richiedono senza dubbio elevate competenze.

La profondità di tali rapporti di fornitura garantisce alla Cina flessibilità produttiva che non può essere facilmente sostituita in altri paesi.

Ciò porta ad una sfida per quei settori in cui il design o la complessità delle componenti svolgono un ruolo fondamentale. Per esempio, l’industria automobilistica presenta le maggiori complessità essendo il risultato dell’assemblaggio di più di 15.000 componenti diversi, inclusi i componenti chiave che spesso sono specifici ed unici per design e, quindi, difficilmente sostituibili. È proprio l’elevato grado di complessità che rende il settore automotive particolarmente incline all’integrazione verticale e, in particolare, all’adozione di una catena del valore di tipo gerarchica.

Delocalizzare non sarà un processo semplice, soprattutto per quelle aziende che costantemente lanciano sul mercato un nuovo modello che implica, a sua volta, nuovi tipi di prodotti intermedi.

Da non sottovalutare vi è anche la capacità dell’industria cinese di riprodurre – e in alcuni casi plagiare – progetti stranieri, caratteristica che ha permesso loro, attraverso le catene di produzione nazionali, di acquisire e conservare il know how straniero che giunge sul territorio.

La crescente adozione dell’automazione industriale (IoT, 3D printing, AI, ecc) sta costantemente trasformando il processo di produzione, alterando il mondo del lavoro (Hallward-Driemeier e Nayymar, 2017).

Storicamente, le nuove tecnologie hanno teso ad allargare la cerchia dei paesi che beneficiano dell’espansione della produzione, facendo nascere il paradigma delle “oche volanti” (Flying Geese Paradigm, Akamatsu, 1962), secondo il quale si ritiene che un paese sviluppato possa diffondere le proprie skill a paesi meno sviluppati che diventano poi una propria area di mercato.

La Cina, a tal fine, sta automatizzando rapidamente il proprio processo produttivo attraverso la robotizzazione per arginare la riduzione della competitività salariale.

Ad oggi, l’economia cinese ha costruito una base manifatturiera che non conosce rivali al mondo in termini di lunghezza delle catene del valore, diventando il più grande mercato per alcune aziende statunitensi. La General Motors e più in generale il settore automotive ne sono un esempio. Nel 2018 le vendite in Cina di GM sono state di 3,65 milioni di auto, superando le sue vendite totali nel mercato americano. Un bacino, quello cinese, che supera il persino quello di Stati Uniti e Giappone messi insieme.

Se dovesse lasciare il mercato cinese, la GM registrerebbe un netto calo dei profitti e di conseguenza la catena di fornitura automotive si ridurrà e ne conseguirà una disoccupazione di massa sul territorio statunitense. Qui emerge l’impossibilità di dislocare la produzione fuori dai confini cinesi.

Sviluppare l’ampiezza delle catene del valore è un processo che richiede un progetto di medio lungo termine e che potrebbe risultare futile per quelle aziende incorse nella trappola della guerra commerciale. Il dibattito pubblico è stato caratterizzato da timori ed incertezze con la conseguenza  che molte imprese potrebbero trovarsi senza alternative immediate ai prodotti cinesi, lasciando il consumatore e le società statunitensi a sostenere un costo elevato nella trade war.

La prospettiva che la guerra commerciale continui nel lungo periodo potrebbe costituire una seria minaccia per l’economia globale, già da tempo indebolita, proiettandosi verso una separazione delle catene globali del valore e un mondo bipolare.

Pechino sta sfruttando questo momento di stasi per rientrare nella giusta liquidità, così da favorire il riassetto del proprio sistema finanziario. L’amministrazione Trump, con l’avvicinarsi delle elezioni del 2020, potrebbe avere meno incentivi per raggiungere un accordo commerciale che, senza dubbio, attirerebbe il fuoco incrociato dei candidati democratici. Nella peggiore delle ipotesi, gli Stati Uniti potrebbero essere caduti nella classica trappola dell’escalation senza fine, convincendo la Cina che non vi è alcuna soluzione “negoziale”.

Pechino, alle prese con la rivolta di Hong Kong cui non si esclude un intervento militare, sarà alle prese con il 70° anniversario della Repubblica Popolare Cinese. Un momento patriottico che difficilmente permetterà di scendere a compromessi con il rivale americano, a cui si aggiunge l’adozione di misure volte a facilitare gli investimenti esteri da parte delle società cinesi e favorire i consumi interni.

In attesa di ulteriori sviluppi, la guerra commerciale non fa che accentuare il clima di incertezza politica ed economica che da tempo sono fonte di preoccupazione per i mercati. Infine, il rischio di cadere in una spirale di misure e contromisure protezionistiche diviene sempre più concreto e potrebbe tradursi in conseguenze economiche molto serie anche se non immediatamente evidenti.

Domenico Bevere

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