Le crisi dei prezzi del petrolio e le sue conseguenze geopolitiche

Come è nata e perché la crisi dei prezzi del petrolio nei mesi scorsi? Quali ricadute sul piano geopolitico possono prodursi con l’abbassamento dei prezzi e la crisi nel mercato globale del petrolio? Ne abbiamo parlato con Leonardo Bellodi

Nelle scorse settimane, nel pieno della pandemia di Coronavirus, il mondo ha assistito ad una tensione crescente tra i grandi paesi produttori di petrolio, in particolare tra Russia e Arabia Saudita, che ha portato ad una grave crisi dei prezzi che ha condizionato tutto il mercato globale del petrolio. Recentemente i paesi produttori hanno raggiunto un accordo, annunciato anche dal Presidente americano Donald Trump, per ridurre la produzione globale e permettere una stabilizzazione dei prezzi, limitando così le ricadute economiche della crisi.

Ma il tema dei prezzi e della produzione di petrolio ha anche ricadute e conseguenze rilevanti sul piano geopolitico e non solo economico. Per cercare di capire meglio cosa è successo in queste settimane e quali sono le cause di questa situazione di tensione, Europa Atlantica ha rivolto qualche domanda a Leonardo Bellodi.

Dott. Bellodi, come è nata nel mese di marzo questa “guerra” dei prezzi tra i grandi paesi produttori di petrolio?

La guerra dei prezzi è dovuta essenzialmente a 2 variabili fondamentali. Una prima variabile deriva dalle tensioni e dallo scontro che si è prodotto tra due grandi paesi produttori, Arabia Saudita e Russia, e una seconda invece dipende  dagli Stati Uniti: mentre alcuni stati  nei mesi scorsi diminuivano la propria  produzione nazionale, negli Usa abbiamo assistito  un aumento della produzione di shale oil. Per questo è chiaro che al di là dell’altra variabile più nota, ovvero lo scontro tra Arabia Saudita e Russia, vi e’, cosi’ si puo’,  un concorso di colpa degli USA. Per fare un esempio dal 2017 a oggi la produzione dell’OPEC è diminuita di circa 4/5 milioni di barili il giorno, nel resto del mondo la produzione è aumentata di 6 milioni di barili al giorno e una quota rilevante è attribuibile allo shaleoil americano dettato da ragioni economiche. I  giacimenti shale mostrano una dinamica  di produzione ben diversa dai giacimenti convenzionali. Questi ultimi  possono essere sfruttati anche per decenni in modo economicamente vantaggioso (e dunque permettono una certa modularità di estrazione per cosi dire).  Nei giacimenti  shale circa l’80% degli idrocarburi disponibili devono essere estratti nei primi due anni. Bisogna insomma correre e produrre.

Ma questa tensione sui prezzi era già iniziata da un po’ di tempo, prima che si arrivasse a questa crisi a marzo. A cosa era dovuta?

È evidente che queste dinamiche  ci siano da più anni. Il fatto che gli Usa siano diventati da principali importatori nel mondo a  esportatori netti ha rivoluzionato le dinamiche globali del mercato. L’autonomia energetica americana, che Trump addirittura chiama “una dominanza  energetica”, non poteva non avere ripercussioni a livello geopolitico,

Con accordo di oggi cosa cambia?

A mio parere rischia di cambiare poco. Le spiego perché: il mondo consuma circa 95 milioni di barili al giorno. In questo momento la pandemia ha provocato una diminuzione dei consumi   tra il 20 e il 30%. Parliamo di minimo 20  milione di barile in meno al giorno . Una taglio di 10 milioni non è dunque sufficiente anche perché lei consideri che non si sa più dove mettere tutto questo greggio in eccesso: gli stoccaggi sono quasi tutti pieni. Quindi l’effetto dell’accordo rischia di essere un placebo, tanto che Trump ha detto che la diminuzione necessaria e’ di 20 milioni di barili. Naturalmente dovremo vedere cosa succederà nel futuro, anche in relazione ai tagli degli investimenti che molte grandi società stanno facendo che in tempi normali  si traducono in una diminuzione della produzione che porta ad un aumento dei pezzi. Questo e’il ciclo classico del mondo del petrolio. Ma il coronavirus se gli effetti durano a lungo potrebbe rompere questa cicilita’ e portarci in territori inesplorati.

Che effetti ci potranno essere a livello globale con questa tensione sui prezzi?

Non tutti gli stati sono una uguali, e come tali reagiranno e potranno subire effetti diversi. Mi spiego meglio. Il prezzo basso del barile potrebbe essere visto dai consumatore come un fenomeno positivo. E in parte lo e’ per i paesi consumatori. Ma per quelli che vivono sulle rendite del petrolio il discorso e’ molto diverso. Per esempio la Libia ha un fiscal breakeven (cioe’  data la produzione di un paese a che prezzo deve essere venduto il barile perché il bilancio dello Stato sia in pareggio) di circa 100 dollari , l’ Arabia saudita di 80 dollari, gli Emirati di 70 dollari, l’Algeria circa 110 dollari, l’Iran o il Venezuela addirittura più alto.  Prezzi molto bassi possono dunque significare che certi Stati non ce la fanno piu’ con conseguente aumento del disagio sociale. E qui c’è la grande differenza con gli USA: a causa dei prezzi bassi alcune societa’ che producono shale oil (il cui break even estrattivo e’ in alcuni casi pari a piu’ di 30 dollari)  falliranno. E’ grave certo ma  l’economia negli USA ne risente solo in parte. Gli USA in questo momento sono sia il più grande produttore al mondo, ma restano anche il più grande consumatore di petrolio del mondo. Nel momento in cui il prezzo del petrolio  è così basso, soffrono molto le societa’ energetiche  ma il resto dell’economia nazionale se ne avvantaggia. Quindi gli USA ne soffrono per il fatto che sono un grande produttore, ma non come consumatore al mondo. Gli altri Stati produttori,  stati rentier il cui bilancio statale si regge  unicamente o quasi dalla vendita di petrolio  si la passano molto peggio,  ne potrebbe derivare una Per destabilizzazione geopolitica in varie regioni, soprattutto in America latina (penso al Venezuela e Nord Africa (Libia, Egitto), nonche’ in  paesi dell’Africa subsahariana come Angola e Nigeria.

Questa situazione di crisi dei prezzi del petrolio combinata agli effetti della pandemia del coronavirus che recadute può avere a livello internazionale?

Il mondo del petrolio vive sostanzialmente dinamiche cicliche. Quando ci sono prezzi alti ci sono grandi investimenti, che provocano un aumento della produzione, che di conseguenza provoca un abbassamento dei prezzi. Nel momento in cui i prezzi diventano troppo bassi c’è un taglio degli investimenti, che influisce sulla produzione riducendola e di conseguenza i prezzi risalgono. Questa è ciclicità storica, classica che condiziona il mercato del petrolio. Il coronavirus potrebbe interrompere questa ciclicità, perché potremo avere da un lato dei prezzi molto bassi e dunque un taglio conseguente degli investimenti, ma se la situazione dovesse continuare questo taglio degli investimenti che produce una riduzione della produzione non necessariamente potrebbe dare vita ad un aumento dei prezzi. Devo dire che molte banche di affari su questo non ci scommettono, tanto e’ vero che scommettono su  un aumento del prezzo del barile nei prossimi mesi. In realta’ nessuno sa con precisione cosa accadrà. Per ora entrambe le teorie sono valide, sia la possibilità che la ciclicità venga spezzata che quella invece che ritiene che non accadrà, e che quindi superata nel tempo la crisi si potrà tornare ad un sistema di ciclicità convenzionale.

Sul versante più geopolitico, quanto queste vicende legate al mercato del petrolio sono collegate con la più generale competizione internazionale tra le grandi potenze? E nel caso, se sono collegate, come lo sono?

Intanto, al momento noi abbiamo sicuramente una situazione di pace ristabilita tra Usa, Russia e Arabia Saudita, che ha a ben vedere e’ piuttosto strana. Winston Churchill diceva che a seconda degli scacchieri geografici e delle situazioni  si può essere amici di un paese e nemici dello stesso in un’altra regione. E’ quello che sta succedendo. Infine non credo che la guerra dei prezzi abbia avuto o abbia la sua principale causa in logiche geopolitiche. So che e’ molto meno “glamour” dirlo ma penso che le guerre del petrolio abbiano come dominante principale quella economica non quella politica.  Certo, vi sono delle situazioni nelle quali noi abbiamo diatribe  dettata da cause di tipo geopolitico,  ma lo vedo più che altro nel settore del gas. Il petrolio è un mercato più liquido, dove non tutto è in mano agli stati: vi sono trader molti potenti e vi e’ il mondo della finanza, entrambi difficilmente permeabili a pure logiche geopolitiche. Fare battaglie di tipo geopolitico solo con il petrolio, è difficile, significherebbe fare la guerra con un’arma un po’ spuntata, perché nessuno è il vero dominus della situazione. Certo, in questo momento stiamo assistendo ad una insolita alleanza tra Russia e Stati Uniti e Arabia Saudita, che in altri contesti e in altri tempi non avremmo visto. Trump in passato avevano avuto una posizione molto critica verso l’OPEC e negli USA le societa’ di produzione di shale gas e oil hanno fatto una potente lobby  a favore di una maggiore deregulation del mercato. Oggi invece stanno lavorando per una regolamentazione quasi di stampo sovietico affinchè il governo si adoperi per la riduzione della produzione nazionale. Ma e’ complicato:  le norme nazionali antitrust negli Stati Uniti di fatto impediscono al Presidente di imporre il blocco alla produzione nazionale come invece potrebbero fare altri paesi.

In tutta questa fase invece la Cina, che delle grandi potenze è l’unica a non disporre di una capacità propria di produzione, come si comporta?

In questo momento la Cina si comporta più da osservatore. È l’unico paese che si approvvigiona da paesi come Iran e Venezuela, non che gli possa bastare, ma sta facendo una propria politica di approvvigionamento. È un attore attento, ma gioca un ruolo di secondo piano, non essendo uno dei grandi produttori.

Quanto è cambiato il mercato a livello a globale dopo la scoperta dello shaleoil?

Ha determinato un aumento della produzione mondiale, anche se il prezzo di estrazione dello shale è ben maggiore rispetto ai costi di produzione di attori storici: paesi del Golfo,  Libia, Russia in primis. Questo ha permesso agli Usa di diventare prima indipendente e come dice Trump “dominante”. Molto interessante sul versante geopolitico è lo shale gas, che non è ancora abbastanza conveniente, ma qualora dovesse diventarlo potrebbe cambiare in modo radicale  i rapporti geopolitici soprattutto tra Europa e Russia. Ma se dovessi scommettere, direi che la Russia giocherà ancora per molti anni a venire un ruolo da attore primario in Europa.

Senta, nonostante da diversi anni si profetizzi l’esaurimento delle scorte di petrolio, il raggiungimento del picco mondiale della produzione, sembra che in realtà siamo ancora lontani da queste ipotesi che avevano avuto in anni passati, soprattutto prima della scoperta dello Shale oil larga diffusione. Ma per quello che è dato sapere, quanto è davvero lontano il picco della produzione mondiale?

Le rispondo brevemente in due modi. Intanto c’è da dire che si fanno nuove scoperte di giacimenti, ma il fatto vero è che noi abbiamo nuove tecnologie di estrazione che aumentano di molto la vita dei giacimenti la cui fine viene continuamente rimandata l’esaurimento dei pozzi viene rimandata in avanti.  Sulla fine dell’era del petrolio credo, che per parafrasare Oscar Wild  le notizie sulla sua morte siano molto esagerate. E se un giorno cio’  avverrà non e’ perché rimarremo senza petrolio. L’età della pietra non è finita perché sono  finite le pietre, ma perché hanno scoperto il fuoco. La battuta purtroppo non e’ mia ma di un ex Presidente dell’ Opec. Dunque  l’età del petrolio non finirà perché si esaurirà il petrolio, ma perché ci saranno delle tecnologie che permetteranno di superarlo. Ciò detto credo che non siamo ancora a questo punto.

Quali possono essere secondo lei possibili fonti alternative  al petrolio? Davvero, al di là di tutto, ha ragione chi ritiene che l’unica forma di energia realmente in grado di garantire, se non un’alternativa, una fase di transizione sia il nucleare?

Guardi, io non credo che il nucleare possa essere la fonte del futuro, anche perché in tempi recenti vi sono stati numerosi  problemi derivanti dall’aumento dei costi di  costruzione delle nuove centrali.  Io credo che invece si dovrebbe e potrebbe puntare sull’idrogeno. Alcuni lo avevano predetto alcuni anni fa: erano troppo in anticipo, le loro previsioni  erano sbagliate sui tempi, ma adesso si stanno in parte realizzando e l’idrogeno, può davvero diventare nel tempo una soluzione alternativa al petrolio.  Si potrebbe produrre idrogeno in quei paesi che ora producono petrolio e che hanno a disposizione l’energia solare, riducendo le possibili conseguenze drammatiche di un passaggio dall’economia dipendente dalla rendita del petrolio ad un’altra.


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