Quali effetti della pandemia sulla globalizzazione?

Quale impatto può avere nei prossimi mesi la pandemia da Covid-19 sull’economia globale e sul processo di globalizzazione? Una breve analisi di Domenico Bevere.

In un mondo fortemente interconnesso come quello in cui viviamo, la crisi da COVID19 ha messo in evidenza come l’integrazione globale e la dipendenza eccessiva dalle catene del valore hanno reso i Paesi più vulnerabili agli shock di forniture. La pandemia ha sconvolto la complesse catene con cui materie prime, semilavorati e prodotti finiti fanno il giro del mondo e ad aggravare la situazione vi è stato, poi, lo sfasamento temporale del contagio e dei vari lockdown.

Sebbene questa tendenza non sia finita, le due parole chiave nell’attuale dibattito geopolitico risultano essere decoupling e reshoring.

L’ultimo decennio è stato caratterizzato dal tramonto dei tradizionali sistemi di commercio internazionale basati sull’interscambio di beni e servizi a favore di processi di divisione internazionale del lavoro. A tal fine, le imprese hanno ridefinito le proprie competenze attraversando le frontiere nazionali in modo da stabilire reti produttive con altre imprese localizzate dove è possibile sfruttare al massimo i vantaggi comparati nella produzione di beni e servizi intermedi. Gli anni Duemila si sono caratterizzati per una rafforzata presenza di imprese distrettuali nei mercati del sud-est asiatico, le quali delocalizzarono la produzione trasferendo con essa anche il proprio know how manageriale, commerciale e tecnologico. Di fatto accadde che manodopera a basso costo lavorava con tecnologia avanzata, rendendo questa combinazione estremamente competitiva. La conseguenza fu che a cavallo del 2000 quasi un quinto dell’industria mondiale si spostò dal G7 all’I6 (Cina, India, Corea, Indonesia, Thailandia e Polonia). La Cina più di tutte abbracciò completamente la rivoluzione della catena globale del valore. Quest’ultima considera la globalizzazione secondo una prospettiva storica: oggi è di gran lunga più dispersa, più ricca di motori e partecipanti, nonché più robusta ed inclusiva – e dunque più stabile – di quanto non lo sia stata in passato.

La globalizzazione del XX secolo, innescata dall’avvento della macchina a vapore che agì come volano contro la tirannia della distanza e quindi sui costi commerciali, determinò una maggiore specializzazione produttiva nazionale a livello settoriale. Gli economisti Kevin O’Rourke e Jeff Williamson in un loro influente articolo “When did globalisation begin?” (2002) datarono l’inizio della globalizzazione moderna al 1820 circa, sostenendo che fu da allora che i prezzi interni – almeno nel Regno Unito – vennero fissati dall’interazione della domanda e dell’offerta internazionali, anziché di quelle nazionali.

Pertanto un’inversione della globalizzazione, definita come un insieme di processi di internazionalizzazione economico-finanziaria e culturale di lungo periodo, seppur destabilizzata da due guerre mondiali, dall’influenza spagnola del 1918, dalla crisi economica del 1929, dalla successiva grande depressione, ed ora dalla crisi pandemica da COVID19, appare quantomeno in dubbio.

In aggiunta, negli ultimi anni si è assistito alla nascita di nuovi fattori che hanno determinato un cambiamento nel contesto competitivo e che potrebbe spingere verso una rivisitazione dell’orientamento strategico di alcune imprese, facendo pensare ad un back reshoring.

Un fenomeno certamente non nuovo che coinvolge sia imprese multinazionali che numerose piccole e medie imprese operanti in una serie differenziata di settori, la quale ha subito un’accelerata negli ultimi tempi per una serie di motivi: l’attenuarsi dei vantaggi di costo di alcune economie asiatiche, il cambiamento dei modelli di domanda e/o competitività su base locale e la crisi finanziaria globale che di conseguenza ha causato un numero crescente di dismissioni di investimenti diretti esteri.

Ad incidere, infatti, è stato sicuramente l’evidente ed elevato incremento del costo del lavoro, specie in Cina dove, così come sottolineato dall’International Labour Organization (2013), lo stipendio medio di un operaio è cresciuto del 20% annuo. I costi della manodopera restano comunque più bassi di quelli possibili in Italia ma risparmi nella logistica e la maggiore automazione permettono di compensare il differenziale.

La delocalizzazione nel sud-est asiatico e di alcune parti o dell’intera filiera ha comportato la riprogettazione dei prodotti, favorendo fortemente un maggiore contenuto di standardizzazione, nonché il trasferimento di know how tecnico-logistico con l’invio anche di personale. Per tale motivo diverse banche stanno incentivando – in modo indiretto – il ritorno dell’impresa nel loro paese d’origine, premiandole rispetto a quelle basate sull’offshoring così da determinare una rigenerazione del settore manifatturiero e la creazione di nuova occupazione. Un esempio è dato dagli Stati Uniti che, forti della crisi economica in atto e in una prospettiva di re-industrializzazione, sta adottando mirati interventi di politica industriale.

I fattori economici che senza dubbio favorirebbero il processo di reshoring si sostanziano nella riduzione del differenziale dei costi totali di produzione registrate nei paesi occidentali e paesi esteri di delocalizzazione delle attività, una costante riduzione del “Total Landed Cost” fondamentale nelle strategie di delocalizzazione, nonché la volatilità delle valute.

Un ruolo determinante va assegnato all’industria dei semiconduttori, settore strategico sia per l’estensione del mercato che ne deriva (stimato a 740 miliardi di euro entro il 2024 da Statista) che per le sue aree di impiego (5G, automobili, smartphone, intelligenza artificiale, missili eccetera).

Il Coronavirus ha con tutta evidenza inasprito i rapporti tra le prime due economie mondiali, scatenando una nuova guerra fredda al cui interno ha svolto un ruolo cruciale Taiwan, provincia separatista agli occhi della Repubblica Popolare Cinese e ritenuta la più avanzata industria di microprocessori al mondo.

Recentemente la Taiwan Semiconductor Manufacturing ha deciso di realizzare una fabbrica di microchip in Arizona, investimento da 12 miliardi di dollari e 1600 lavoratori, facendo festeggiare l’amministrazione Trump. Una vera rinascita industriale a detta del presidente americano, i cui chip saranno impiegati in diversi settori, dall’intelligenza artificiale alle stazioni 5G fino agli F35. Quello della Taiwan Semiconductor Manufacturing risulta essere un caso complesso poiché non può fare a meno della tecnologia statunitense ma neppure del mercato cinese.

Il reshoring è una tematica maturata dalla presidenza Obama ancora prima di Trump la quale durante la crisi ha sicuramente subito un impulso attraverso il rientro di produzioni strategiche ma che al contempo non diventerà un fenomeno generalizzato.

La Cina attraverso le sue azioni non ha mostrato alcun interesse nei confronti di un modello internazionale di economia aperta ne tantomeno il rispetto della proprietà intellettuale, per cui risulta difficile possa virare verso una logica Win-Win. In particolare, un recente studio del Belfer Center di Harvard ha evidenziato come le attività di cyber spionaggio messe in atto dalla Cina rappresentano una minaccia significativa per l’esercito degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale, contribuendo alla perdita di proprietà intellettuale del valore stimato tra i 300 e i 540 miliardi.

Inoltre, fa meno affidamento sul mercato estero – passato dal 36% del Pil del 2006 al 17,4% del 2019 – orientando sempre più la sua economia sul consumo interno. Disinvestimento avvenuto per una serie di fattori concatenati: la pandemia che sta infliggendo effetti devastanti all’economia americana, l’aumento dei controlli e divieti sull’acquisizione di tecnologia statunitense e le restrizioni da parte delle autorità cinesi su investimenti “irrazionali”.

In poche settimane il COVID-19 ha depresso l’economia globale, cancellato tutte le stime di crescita con conseguente perdita di milioni di posti di lavoro, costringendo le aziende a cercare le configurazioni più efficiente della catena di approvvigionamento che ad oggi si estende in tutto il mondo.

Uno scenario inimmaginabile fino a mesi fa, in cui coloro i quali apprezzano il potere dell’interconnettività transfrontaliera per liberare opportunità economiche vantaggiose e ridurre, se non evitare, il rischio di conflitti militari sono propensi a difendere lo status quo pre-pandemico.

La decisione di un reshoring si caratterizza per livelli di complessità molto elevati con implicazioni significative sull’organizzazione in quanto richiede di gestire il cambiamento organizzativo, reintegrare la conoscenza e sviluppare nuove capacità e competenze, ricostruendo know how specifico e specialistico sui processi, sulle produzioni e sulle tecnologie precedentemente delocalizzate.

Una tendenza che è stata messa in discussione dal fenomeno dirompente della quarta rivoluzione industriale, denominata Industria 4.0, la quale permette alle aziende di compensare i vantaggi della delocalizzazione in paesi terzi – a basso costo o alta produttività – con l’utilizzo di nuove tecnologie industriali digitali altamente impattanti su sistemi di produzione e modelli di business.

La pandemia, con i relativi lockdown, ha reso chiaro il valore di una catena di approvvigionamento robusta e resiliente, incentivando un network ridondante geograficamente al fine di ridurre eventuali vulnerabilità come ad esempio quella manifestatosi nella difficoltà di reperire forniture mediche tra cui mascherine, guanti e persino ventilatori polmonari. Allo stesso modo, per motivi legati alla sicurezza, saranno modellate anche le catene delle tecnologie avanzate, dalle telecomunicazioni ai semiconduttori.

Infine, ha fatto sì che le catene del valore si siano disarticolate o accorciate, risolvendosi in sfere macro regionali che consentono alle imprese dominanti di sfruttare i differenziali presenti al loro interno, ma al contempo sarà difficile spezzarle del tutto – almeno nel breve periodo –  in quanto ancora fortemente connesse, ramificate e tendenzialmente globali. Un ritorno al nazionalismo economico, scenario utopistico e considerato l’alternativa alla globalizzazione, comporterebbe il crollo dell’economia mondiale nonché l’ulteriore aumento delle tensioni internazionali.

Domenico Bevere


Le posizione espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

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