L’impatto della percezione di insicurezza nella società contemporanea

Il futuro della sicurezza non è più circoscrivibile all’impatto diretto di taluni avvenimenti, ma deve tenere conto anche dell’impatto diretto sulla percezione collettiva dell’insicurezza.  

Già con la vicenda dell’11 settembre apparve abbastanza evidente come un singolo avvenimento comunicato in diretta, seppur localizzato, fosse in grado di mettere in scacco l’economia finanziaria globale per un periodo molto rilevante. Tale crisi durò un paio di anni, sebbene si impiegò quasi un quinquennio per ritornare ad una situazione di normalità, ed ebbe pesanti ripercussioni sull’occupazione e sulla tenuta finanziaria di molti stati.

Più in generale, tale il fenomeno, che possiamo descrivere come l’impatto della percezione di insicurezza, può essere generato da avvenimenti anche meno eclatanti e/o dirompenti in grado, però, di paralizzare interi contesti urbani per ore o giorni interi, generando un panico mediatico estremamente importante. Pertanto, oggi, il futuro della sicurezza non è più circoscrivibile all’impatto diretto di taluni avvenimenti ma deve tenere conto, in larga misura, anche dell’impatto diretto sulla percezione collettiva dell’insicurezza.

È questo stesso fenomeno che, su più vasta scala, sta caratterizzando l’impatto della crisi epidemiologica che stiamo vivendo.

Di ciò, avevamo già avuto delle avvisaglie, 4 anni fa, con la grande epidemia di Ebola in Africa che, sebbene circoscritta dalla qualità della malattia, ha avuto un impatto globale mediatico molto forte, con le immagini dei rimpatriati o dei casi, fortunatamente molto ridotti, di febbre emorragica che si sono riscontrati in occidente e in altre aree del pianeta.

È evidente che, per la politica e per il governo delle istituzioni dei prossimi anni, è impossibile pensare di affrontare la tematica della sicurezza senza mettere al primo posto il dilagare della percezione collettiva di insicurezza.

Ormai tutto quello che stiamo vivendo è in diretta, i social network hanno frantumato ogni distanza geografica e ciò che accade in qualsiasi angolo del pianeta impatta direttamente sulla vita di chi sta anche a migliaia di chilometri di distanza. Questo è il vero mutamenti profondo dell’epoca della globalizzazione: l’appiattimento dello spazio e del tempo e la sensazione che il qui e ora sia diventata la costante di ogni forma di tale percezione.

Se si vuole veramente cercare di comprendere questa nuova fenomenologia bisogna analizzare questo fenomeno in maniera diacronica, in altre parole, è necessario vedere nella storia quale sia stata l’evoluzione della percezione di questo fenomeno.

Prendendo ad esempio le mirabili pagine di A. Manzoni o quelle di analisi storica di C. Maria Cipolla, la peste nera, che ha ciclicamente devastato la demografia del nostro mondo causando la morte di quasi 1/3 della popolazione, si propagò nel globo attraverso le pulci “che frequentavano i dorsi pelosi dei roditori che spesso si spostavano sulle navi dei mercanti” e impiegò mesi per diffondersi. Quando scoppiarono i primi casi in Asia, in Europa ci si accorse del fenomeno quando ormai era già dilagato e nessuno aveva modo di sapere cosa stesse accadendo. Questa malattia sconosciuta, “che produceva bubboni neri sotto le ascelle e che uccideva le persone rapidamente”, fu stigmatizzata da più di uno come un castigo divino. Tuttavia, se fosse stata affrontata con le attuali tecnologie di comunicazione, visto il carattere estremamente difficile del contagio, oggi sarebbe stata sconfitta facilmente con l’igiene. Fece milioni di morti perché, al tempo, non c’erano le medicine, non c’era la comunicazione e non c’era l’igiene. Fu un vero flagello che i cittadini non seppero veder né arrivare né furono capaci di contrastare.

Un secondo esempio è il modo in cui gli uomini hanno saputo capire e conoscere la portata reale della prima e della seconda guerra mondiale perché fra queste due guerre il progresso tecnologico rese misurabile la capacità di mutamento della percezione. Nella prima guerra mondiale esistevano soltanto i giornali, il cinema era nato ma era un fenomeno di élite, non utilizzabile se non in sporadiche occasioni. Gli abitanti del vecchio continente vivevano la guerra attraverso i racconti dei protagonisti, la lettura dei giornali ed è chiaro come iniziasse ad esserci una percezione globale dell’insicurezza ma, in molte parti del pianeta, dove questo conflitto non era conosciuto, permaneva un certo distacco emotivo dagli avvenimenti. Non si può dire che chi vivesse vicino alle trincee di Verdun avesse avuto la stessa percezione della guerra – sebbene mondiale – di Asia, Sudamerica, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda che, pur partecipando al conflitto, non lo ospitarono geograficamente. Ad ogni modo, la percezione dell’insicurezza si iniziava ad ampliare ma non era ancora una percezione istantanea.

Il cinema e la tecnologia dell’immagine ebbero un’accelerazione importante durante il periodo fra le due guerre. Ciò, attraverso l’uso propagandistico che non solo i regimi totalitari dell’epoca usarono per esaltare il cambiamento: dalle grandi adunate fasciste e naziste, filmate con nuove tecnologie, alla nascita dell’industria celluloide negli Stati Uniti, ai primi cinegiornali che portarono, gradualmente, le immagini in tutto il pianeta e, per la prima volta, gli uomini videro la sofferenza anche se lontana da loro.

L’impatto sulle coscienze collettive della seconda guerra mondiale, anche a questo proposito, è stato il più importante che la storia abbia conosciuto. Il relativo periodo di pace che ne scaturì, anche se costellato dalla guerra fredda, fu, senza dubbio, anche il frutto della consapevolezza generata dalle immagini delle devastazioni della guerra, senza le quali l’ampiezza della presa di coscienza degli individui non sarebbe stata eguale.

Da allora, questa tendenza a una crescita della consapevolezza della collettività, riguardo gli eventi di natura catastrofica (attentati terroristici, disastri naturali, pandemie, etc.) attraverso la fruizione di immagini più o meno in diretta, sta andando avanti in maniera inesorabile e sta progressivamente soppiantando e anticipando brutalmente l’insicurezza vera e propria.

Oggi si può dire che un’analista strategico-militare dovrebbe aggiungere a già complicati contesti, proprio il fattore della percezione di insicurezza, capace di impattare in profondità sulle decisioni della collettività e di conseguenza sugli eventi in maniera molto più invasiva del singolo evento in sé.

Da diverse settimane viviamo tutti una vita differente, siamo costretti nelle nostre case (e lo facciamo anche volentieri), abbiamo cambiato radicalmente il nostro stile di vita: ci svegliamo preoccupati per una malattia che nella realtà ha colpito – a oggi – circa lo 0,000030% della popolazione e che, se fosse fatta progredire indisturbata – come accadde con la peste nera dell’epoca moderna –  farebbe senz’altro milioni di morti ma che, in qualche misura, possiamo contenere proprio in virtù che dal primo malato in Cina tutto il mondo è pervaso dalla consapevolezza e dalla comunicazione in merito.

Chiunque sottovalutasse il cambiamento per cui, oggi, la percezione di un fenomeno sia in grado di anticipare, e di molto, la portata del fenomeno stesso andrebbe fuori strada. È ormai evidente che, chiunque voglia prevenire o curare l’insicurezza o chiunque voglia diffonderla lo farà usando questa nuova dimensione comunicativa dell’insicurezza.

Si pensi all’abilità dell’organizzazione terroristica di Daesh che, con grande cinismo tattico, ha ha sfruttato la percezione dell’insicurezza attraverso video e immagini del loro operato per far nascere, da una parte, una paura diffusa del terrorismo e per attaccare l’Occidente, dall’altra, per attirare file di seguaci.

Per questo, è necessario lavorare perché si costruisca un nuovo orizzonte strategico e teorico riguardo ai temi della sicurezza che affronti senza reticenze e con determinazione il tema della percezione dell’insicurezza e sia in grado di volgerla a proprio favore.

Quella attuale è una fase nella quale i Paesi, la comunità internazionale e le Istituzioni, se vogliono loro stesse sopravvivere al mutamento che inevitabilmente porterà l’attuale crisi, devono cambiare il loro orizzonte strategico, così come accadde nella storia dell’umanità quando si passò dalla guerra medioevale alle armi da sparo. Quello non fu un mutamento che cambiò solo la tecnica della guerra, ma la concezione stessa della vita e della società. Nel medioevo, i cavalieri medioevali si affrontavano con la loro valentia, con il valore personale nel corpo a corpo ed era il trionfo dell’arte della guerra, ma nell’epoca moderna, le loro corazze inviolabili s’infrangevano sotto i colpi di archibugieri privi di qualunque valore cavalleresco. Così come accadde a Giovanni delle Bande Nere, uno dei condottieri che, ironia della sorte, aveva nei suoi scritti capito più di altri ciò che stava avvenendo, che morì a causa di una ferita a una caviglia, provocata dallo sparo di un uomo qualunque.

Oggi rischia di essere lo stesso: se non si capisce che la percezione dell’insicurezza, da un lato ci aiuta a sconfiggere meglio l’insicurezza stessa, attraverso tutte le misure di contenimento del virus alle quali ci atteniamo tutti, perché tutti viviamo le immagini di ciò che accade ogni giorno nelle aree più coinvolte, è altrettanto evidente che il mondo rischia di essere indebolito psicologicamente, moralmente e anche economicamente dalla stessa sensazione di insicurezza globale dilagante che questa pandemia sta producendo. Perché è, senza dubbio, positivo che vi sia la consapevolezza collettiva della possibile portata negativa di un dato fenomeno in anticipo ma non si può pensare che questo possa avvenire senza gestire né le regole né l’invasività comunicativa che da ciò si determina e che rischia di condizionare la tenuta della società nei prossimi anni.

Non sarà lo spontaneismo che regolerà tutto questo, ci vuole un salto in avanti della politica e delle istituzioni che devono imparare a gestire nei fatti e nella comunicazione contemporaneamente una tipologia crisi di questo tipo, alla quale, senza rimproveri per nessuno, siamo tutti abbastanza impreparati. Ogni giorno, in un mondo in cui tutti, ormai, si sentono protagonisti di tutto, chiunque può dire la sua, essendo letto da milioni di persone, sull’andamento della pandemia, sulla modalità per combatterla, sulle regole che si devono adottare per combatterla, senza essere smentito. Tutti possono partecipare e interagire con la percezione di insicurezza, contribuendo non poco alla diffusione della paura e della difficoltà a reagire.

Alla fine di questa esperienza, senza dover aspettare ancora altro tempo, tutti coloro che hanno chiaro questo aspetto, dovranno favorire una discussione approfondita nonché la ricerca di soluzioni per fronteggiare questa nuova forma di insicurezza che è quella comunicativa. Prima prenderemo questa nuova forma di insicurezza come un dato di fatto, prima gli sapremo rispondere.

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