Contro Covid-19 serve una vera e propria PSYOPs strategy.

Quale strategia potrebbe essere utile mettere in campo nell’emergenza determinata dalla pandemia del nuovo Coronavirus, sopratutto sul piano psicologico? L’opinione di David Simoni, psicologo e ricercatore.

Dalle immagini che vediamo in questo periodo e dalle notizie che provengono dai bollettini emessi dalla Protezione Civile Italiana si evince che la guerra contro il Coronavirus è una corsa contro il tempo e contro il comportamento umano. Dopo la dichiarazione di pandemia da Covid-19 da parte dell’OMS ed il superamento di oltre settecentomila casi confermati con circa 57000 morti sul territorio europeo, sono state adottate le necessarie precauzioni, anche se con diverse velocità, dai Governi degli Stati Membri.

 Le azioni che devono essere messe in campo necessitano di una vera e propria attività di PSYOPs. Convincere milioni di persone a stare a casa, limitare le proprie abitudini, chiudere i propri lavori in cambio di un bene comune è il target di una strategia di più ampio respiro che non si limita al solo aspetto sanitario. Troppe ancora sono le persone che non rispettano decreti, nonostante le pene previste e troppe ancora le incertezze sulla fine della pandemia. Le evidenze scientifiche prodotte dalla psicologia sociale e dalla medicina comportamentale rivelano che molti individui a rischio sono riluttanti ed incapaci di mettere in atto, in maniera tempestiva, precauzioni forti durante le emergenze sanitarie pubbliche (Vaughan, 2011)[1]

Dallo studio effettuato sugli abitanti di Vo’ Euganeo è dimostrato che il 50-70% degli infetti è asintomatico ed inconsapevole di essere una possibile fonte di contagio. La salvaguardia della salute pertanto, è un obiettivo basilare della politica di tutte le Nazioni specialmente in un mondo estremamente connesso come il nostro, dove la perdita di capacità lavorativa ed interscambio ha una notevole influenza sulla nostra economia e, l’incertezza del futuro, genera enormi problemi sui mercati finanziari Diverse compagnie aree hanno bloccato i loro voli, settore che tra le altre cose sta vivendo una crisi economica importante, il Presidente degli Stati Uniti ha unilateralmente bloccato i voli dall’Europa, per poi dichiarare lo stato di emergenza. L’Italia attraversa non solo problemi sanitari ed economici legati al Coronavirus, ma si sta confrontando anche a livello europeo con gli altri paesi dell’Unione, sugli strumenti da adottare per affrontare la crisi.

La crisi di Sistema

Ciò a cui siamo davanti è una crisi politica, economica, sociale e psicologica di proporzioni importanti. In una definizione del concetto di “crisi” di Colloca[2] , essa viene definita come “un evento straordinario, caratterizzato da una visibilità esterna, che irrompe nella vita di una comunità disgregandone gli equilibri e facendone saltare i meccanismi di funzionamento. È un momento di perturbazione, uno scarto che altera i processi esistenti all’interno e all’esterno del sistema sociale colpito, una transizione in cui regole e norme del funzionamento ordinario appaiono inutili a risolvere quanto di problematico è emerso. Caratterizzata da ripercussioni tali da arrivare a pregiudicare l’esistenza duratura ed autonoma di un’organizzazione sociale, costringe ad agire sotto un vincolo temporale stringente, richiede scelte e decisioni”.

Difatti è una crisi di un sistema sanitario, è una crisi di un sistema economico, e adesso con le difficoltà di un accordo con l’EU potrebbe diventare una crisi del concetto stesso di Europa. E’ importante sottolineare il fatto che la crisi presuppone sempre il concetto di necessità, di scelta e decisione. Ed è proprio a livello del processo decisionale che deve essere istituita una strategia operativa per andare ad incidere sul comportamento dei cittadini, specialmente in un momento dove date certe della fine del lockdown non sono possibili da immaginare, nonostante il miglioramento dei contagi.

Analizziamo i dati: in attesa di un vaccino non ci sono altre alternative eccetto quella del distanziamento sociale.

Le conseguenze dirette sono quelle relative alla compromissione del sistema socio-lavorativo che si basa fondamentalmente sullo scambio di interazioni umane. L’Italia sconta in questi termini, non solo avere un tessuto di piccole e medie imprese, ma anche una scarsa digitalizzazione con un basso grado di alfabetizzazione digitale che non permette di espandere lo smart-work a molte realtà produttive, né tanto meno compensare, in maniera efficace, l’assenza da scuola da parte degli studenti.  

Secondo Brooks e coautori (2020)[3] i danni psicologici durante e dopo la crisi potrebbero essere importanti e costosi in termini di spesa sanitaria e di impiego di risorse. Il confinamento, la perdita della rituale routine, del contatto fisico e sociale con gli altri sono causa di noia e frustrazione ed il senso di isolamento aumenta lo stress delle persone. La quarantena nei sanitari è legata ad esaurimento, distacco dagli altri, ansia quando visitano persone con la febbre, irritabilità, insonnia, scarsa performance lavorativa, riluttanza ad andare al lavoro e possibili dimissioni. Secondo i ricercatori questi sono fattori predisponenti allo sviluppo del disturbo post traumatico da stress (DPTS) nei tre anni successivi alla fine dell’epidemia. I medici che hanno lavorato con la SARS, ad esempio, hanno sviluppato in percentuali diverse, dipendenza da alcol, droga, depressione ansia e DPTS. Dopo la fine dell’epidemia sono continuati i comportamenti di distanziamento sociale, anche se non richiesti ed inoltre, i disturbi erano direttamente correlati con la durata della quarantena. In diversi studi presentati nella review di Brooks si sottolinea come la mancanza di presidi, stessa cosa che è avvenuta in Italia all’inizio dell’emergenza, e che in parte sta avvenendo anche adesso, è una fonte di stress notevole e che aumenta il senso di frustrazione da parte degli operatori.

 Lo Stato percepito come lontano può comportare sentimenti di rabbia e di abbandono ed una tendenza a rispettare meno le regole imposte. È dato di cronaca le continue denunce di violazione da parte della quarantena di persone positive, oppure di assemblamenti non permessi, cene da amici, uscite di casa senza motivo apparente, soprattutto da parte di popolazione maggiormente a rischio come gli anziani.

Fin dall’inizio della pandemia sono fiorite teorie complottistiche, correlate da fake news più o meno fantasiose, o vere e proprie teorie del complotto. Come affermano Tversky e Kahneman, (1974)[4], le teorie complottistiche sono costituite da bias cognitivi intesi come errori sistematici della cognizione umana che spesso si manifestano in situazioni nelle quali abbiamo bisogno di una valutazione soggettiva, sia implicita che esplicita. In un certo senso le teorie complottistiche e le fake news hanno, si lo scopo di creare confusione informativa, sia però, da un punto di vista prettamente psicologico, manifestano un meccanismo per far fronte all’incertezza, soprattutto quando questa incertezza si manifesta su larga scala.  Oltretutto sono cumulative, possono sommarsi, agiscono su un piano emotivo e sociale.

Perché una Psychological Operation?

Se in assenza di un vaccino o di una terapia l’unica possibilità sono le misure comportamentali, l’unico modo è strutturare messaggi ad hoc con info-target differenziati per i giovani, gli adulti e gli anziani che stimolino comportamenti proattivi nella popolazione. Secondo la definizione di Narula (2004)[5] le operazioni psicologiche si possono definire come “Psychological operation may broadly be defined as the planned use of communications to influence human attitudes and behavior, to create in target groups, behavior, emotions, and attitudes that support the attainment of national objectives” (Narula, 2004).

Come afferma Alberto Pagani, bisogna ripensare l’articolazione e la specializzazione della società contemporanea, assumendo la necessità che tutti diventino un po’ più capaci e un po’ più consapevoli, per potersi difendere da pericoli ignoti[6]. E’ necessaria la modifica degli atteggiamenti, e delle credenze, azione in ambito psicologico tutt’altro che semplice.

Oltre a questo devono essere messe in campo effettive misure di mitigazione degli effetti psicologici della quarantena. La quarantena deve essere commisurata all’effettiva durata dell’incubazione e non più a lungo. Per le persone in quarantena un allungamento del periodo di restrizioni senza una comprovata necessità aumenta solo il pericolo di scarsa aderenza alle norme imposte. Purtroppo, la comprovata necessità per molti non viene data dal parere degli esperti. L’essere umano non tollera non avere un limite temporale, se non per la durata della propria vita, l’incertezza di una conclusione di una situazione limitativa genera ansia, e l’ansia può generare rabbia. 

Per tanto risulta fondamentale avere la gestione del flusso di notizie, specialmente nella tanto agognata fase 2. Controllare che ciò che è scritto, detto, twittato, postato ecc sia coerente con la realtà è enormemente difficile. Un bias cognitivo odierno sulla comunicazione mainstream è che essa sia una comunicazione potenzialmente falsata perché “di stato”, mentre la comunicazione virale via internet è più veritiera perché emessa dal gruppo dei pari e non controllabile. È vero che ci sono Stati che veicolano l’informazione come arma di propaganda, ma è anche vero che non tutta l’informazione serve a questo scopo. L’attuale numero dei positivi rispetto al sommerso dei casi, per molti potrebbe rappresentare un tentativo di disinformazione attuata dagli Stati per nascondere la vera portata della pandemia, per altri invece rappresenta la conferma che, tenuto conto del numero di persone presenti in un dato territorio, le percentuali di mortalità appaiono irrisorie. Per altri ancora si farebbe un uso strumentale dei dati per mascherare altre operazioni economiche in corso. Questo è determinato da un lato dalla difficoltà di comunicare in un campo che richiede competenze nell’uditorio, dall’altra dalla difficoltà di comunicare su qualcosa che di fatto, anche da parte degli esperti, si conosce poco.

Nella comunicazione si è cercato di limitare inizialmente la paura, si parlava solo di comorbilità elevata nei decessi, età avanzata, stigmatizzando il fatto che Covid-19 era soprattutto una patologia pericolosa per le persone anziane. Poi è stata invece posta enfasi sui morti giovani, sulle notizie che arrivavano dalle terapie intensive dove non erano tutti anziani, dalle testimonianze dei sopravvissuti, fino all’evidenza del ricovero di personaggi politici come Boris Johnson. Ma scientificamente i fear appeals riescono solo in rari casi a modificare gli atteggiamenti ed i comportamenti. Le teorie della percezione del rischio affermano che se le persone esperiscono una minaccia, fanno di tutto per contrastarla adottando strategie di coping elevatamente efficaci. Se il risultato dell’azione è alto, questo porta ad un cambiamento, ma se il senso di efficacia sul pericolo è basso l’esser umano reagirà anche in senso difensivo, non considerando il problema come reale[7].

È necessaria la conoscenza del pericolo percepito poiché la valutazione soggettiva influenza grandemente se e quando una raccomandazione proattiva verrà adattata. Difatti nella nostra società occidentale non c’è più la percezione della caducità da parte dei giovani che hanno vissuto sempre in una ambiente che elimina la morte (senza tragedie) non c’è una percezione della fallibilità. La medicina ha dato una concezione derealizzata dalla verità, invece di condividere la limitatezza dell’intervento medico, e se l’intervento non può esserci, allora, ci deve essere la coercizione educativa anche se questa alimenta una percezione fallimentare.

È per questo che per vincere questa “guerra” serve sviluppare dei key point come la conoscenza del nemico, la gestione della comunicazione con info-target adeguati e non limitati ai messaggi pubblicitari di speranza, la conoscenza dei nostri atteggiamenti verso la società odierna e, non meno importante, conoscere la percezione del rischio dell’utente finale del messaggio per stimolare in lui comportamenti proattivi.

David Simoni è psicologo e dottore di ricerca in scienze cliniche. Si occupa di psicologia politica unendo un’esperienza decennale ed una formazione nel campo della neuropsicologia e della psicologia cognitiva con la psicologia sociale.


[1] Vaughan, E. Health-Protective Behaviors, and Control of Emerging Infectious Diseases. Int.J. Behav. Med. (2011) 18:83–87

[2] Colloca, C. 2010. La Polisemia del concetto di crisi. societàmutamentopolitica, issn 2038-3150, vol. 1, n. 2, pp. 19-39, Firenze University Press

[3] Brooks, S. K., Webster, R. K., Smith, L. E., Woodland, L., Wessely, S., Greenberg, N., & Rubin, G. J. (2020). The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. The Lancet.

[4] Tversky, A., & Kahneman,D. (1974). Judgment under uncertainty: Heuristics and biases. Science, 185(4157), 1124–1131.

[5] Narula, S. Psychological Operations (PSYOPs): A conceptual Overview. Strategic Analysis, 28(1), Jan-Mar 2004

[6] Alberto Pagani (2020). RILEGGERE IL CIGNO NERO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS. Europa Atlantica https://europaatlantica.it/emergenza-coronavirus/2020/03/rileggere-il-cigno-nero-al-tempo-del-coronavirus/

[7] Kok, G.; Peters, G. Y.; Kessels, L. T. E.; ten Hoor, G. A.; Ruiter, R. A. C. Ignoring theory and misinterpreting evidence: the false belief in fear appeals. Health Psychology Review. Jun2018, Vol. 12 Issue 2, p111-125


Le opinioni espresse sono strettamente personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *