Il contenimento del Coronavirus negli altri paesi del mondo

Come hanno reagito in Europa e nel mondo i principali paesi all’epidemia di Covid-19? Una panoramica sulle misure adottate a cura di Lorenzo Coppolino

L’emergenza coronavirus ha senza ombra di dubbio sorpreso tutto il mondo, mondo che si è trovato in casa un nemico nuovo, invisibile e pericoloso, caratterizzato da una fortissima capacità infettante e potenzialmente in grado di mettere in ginocchio i sistemi sanitari più all’avanguardia, con conseguenze ancor più devastanti di quelle legate alla “semplice” diffusione del virus. Allo stesso tempo, l’emergenza non può essere vista e valutata soltanto sotto un singolo aspetto – quello relativo alla salute pubblica – ma investe e interseca altri piani altrettanto importanti che fanno della pandemia da COVID-19 un’emergenza non solo sanitaria ma anche – almeno – economica, sociale e giuridica. L’intersecarsi di questi piani non ha lasciato indifferenti i decisori politici dei vari paesi del globo, tutti chiamati a rispondere a queste necessità e costretti a elaborare strategie emergenziali per cercare di contrastare il virus e le conseguenze dirette e indirette della sua diffusione.

Abbandonando per un po’ la prospettiva italiana, vediamo come gli altri paesi hanno ritenuto opportuno reagire all’emergenza coronavirus, iniziando da quelli dell’Unione Europea. Un punto in comune per praticamente tutti i paesi dell’Unione Europea è stato l’adozione del cosiddetto lockdown – termine inglese che significa “blocco”, “isolamento” – consistente in una limitazione pressoché totale alla circolazione dei cittadini e alle attività che si traduce in una sorta di quarantena totale e ispirato a quanto già fatto in Cina a Wuhan, primo epicentro riconosciuto e dichiarato dell’epidemia. Sarebbe però un errore dire che tutti i paesi dell’area UE hanno adottato le stesse misure contestualmente, tant’è che, esaminando una analisi di Politico.eu in cui si mettono a sistema le date di chiusura e il terzo caso di morte nel paese di riferimento, possiamo notare che il lockdown in Germania è stato adottato dopo nove giorni dal terzo decesso, in Spagna dopo dieci giorni, e in Italia e Francia dopo quattordici. Altrettanto diversi sono stati i tempi di chiusura delle scuole, di sospensione degli eventi pubblici e di chiusura dei negozi non essenziali, che vanno dalla chiusura pressoché immediata di paesi come Austria, Portogallo e Repubblica Ceca a tempistiche più dilatate come in Francia, Italia e Spagna. Da ultimo, è importante segnalare che solamente Italia e Spagna – i paesi sin qui con maggior numero di casi diagnosticati in Europa – hanno ritenuto opportuno sospendere le produzioni non essenziali.

L’area europea quindi presenta una certa omogeneità sulle misure adottate, tuttavia è d’uopo focalizzarsi su alcune peculiarità, rappresentate in particolare da Regno Unito, Svezia e Portogallo.

Il Regno Unito si è subito contraddistinto per un tentativo di approccio diverso al coronavirus dove, al di là delle ricostruzioni mediatiche e delle diatribe linguistiche sul discorso del 13 marzo scorso del Premier Johnson, si è cercato di adottare una strategia più morbida provando a scongiurare il lockdown totale e favorendo la messa in sicurezza solo delle categorie più vulnerabili, salvo poi fare marcia indietro il 23 marzo, quando di fatto anche il Regno Unito si è allineato alle misure più diffuse negli altri paesi quali lo stop agli esercizi commerciali non essenziali, il divieto di assembramenti e la possibilità di uscire solamente per ragioni lavorative o di necessità.

In Svezia invece l’approccio alternativo al coronavirus resta in vigore, sebbene l’aumento di contagi degli ultimi giorni stia mettendo un po’ in crisi la vision governativa sulla gestione dell’emergenza. Nello specifico, non sono state prese misure imperative e perentorie come il lockdown della popolazione, ma ci si è affidati soprattutto al buon senso, incentivando le misure di distanziamento sociale e cercando di proteggere le categorie più vulnerabili, puntando soprattutto sulla solidità del sistema sanitario che, si spera, non venga sopraffatto costringendo a dover scegliere chi salvare e chi no.

Infine è opportuno analizzare la situazione portoghese, non soltanto per le misure adottate contro il coronavirus – le stesse adottate dagli altri paesi, con l’eccezione della sanatoria temporanea per i migranti clandestini per consentire loro l’accesso al sistema sanitario ed evitare una diffusione “sottotraccia” del virus – ma più che altro come case study per rivelare quanto possano essere variegati i fattori che contribuiscono alla diffusione o alla non diffusione dell’epidemia. Il Portogallo è stato uno dei paesi maggiormente colpiti dall’ultima crisi economica e pian piano sta cercando di risalire la china in seno all’Unione Europea, pur essendo ancora considerevole il divario che lo separa dagli altri cugini europei.  Allo stesso tempo però, registra uno tra gli indici di mortalità per coronavirus più bassi d’Europa, con un tasso che si aggira intorno al 3,5%. Secondo gli analisti, gran parte del successo portoghese nel contenimento del virus è da attribuire alla coesione politica e alla prontezza con cui è stata affrontata la minaccia, alla capacità di adattare le misure secondo il coefficiente emergenziale e ai costanti investimenti nel settore della sanità pubblica, ma bisogna tener conto anche di altri fattori, purtroppo meno lusinghieri, come ad esempio la scarsa interconnessione tra le varie aree del paese.

Abbandonando l’area europea e rivolgendo lo sguardo verso gli altri continenti, è importante focalizzarsi su quanto è accaduto – e sta tutt’ora accadendo – negli altri paesi che, al netto di alcune sporadiche eccezioni, hanno ben compreso quale sia la portata dell’emergenza coronavirus, seppur declinando diversi approcci nella gestione.

Iniziando dalle eccezioni, sicuramente Brasile e Nicaragua. In Brasile, il presidente Bolsonaro ha sin dalle prime fasi cercato di sminuire il rischio coronavirus sia attraverso pittoresche dichiarazioni sia nei fatti, propugnando in maniera energica e aggressiva la necessità di riapertura totale dopo un breve periodo di distanziamento sociale, al fine di provare a scongiurare una profonda recessione e spaccando l’opinione pubblica brasiliana. In Nicaragua, invece, il governo di Daniel Ortega riferisce che ci sono stati pochissimi casi e che quindi non è necessario adottare misure restrittive, lasciando sostanzialmente inalterata la vita dei propri cittadini.

Passando ad altri paesi, in questi giorni ciò che sta accadendo negli Stati Uniti è balzato agli onori delle cronache sia per il gran numero di casi rilevati, sia per le probabili conseguenze politiche dell’emergenza. Il 2020 per gli USA è un anno chiave visto che a novembre ci saranno le elezioni presidenziali, con una votazione che sarà senza ombra di dubbio condizionata anche dalla gestione dell’emergenza coronavirus. Il presidente Trump si trova quindi a dover fronteggiare una doppia insidia, una di natura emergenziale e un’altra di natura politica. Ad oggi, gli Stati Uniti sono il paese con il maggior numero di casi dichiarati di COVID-19 e vivono una situazione complicata soprattutto sulla costa orientale, in particolare nello stato di New York – dove la città di New York e la sua area metropolitana risultano gravemente colpite –, nel New Jersey e nel Massachusetts. Per quanto riguarda la gestione dell’emergenza il governo centrale, oltre a inasprire sempre di più i divieti di ingresso negli Stati Uniti, ha deciso di stanziare almeno cinquanta miliardi di dollari per fronteggiare il virus e di favorire la partnership con le grandi aziende per la produzione di test e materiali sanitari necessari al contenimento dell’emergenza. Per quanto riguarda invece l’amministrazione dei singoli stati dell’unione, il lockdown è stata la misura più diffusa causando tutt’ora un dibattito circa le tempistiche di riapertura nei singoli stati.

Rivolgendo ora lo sguardo verso l’Asia, gli approcci al coronavirus sono stati molteplici. Non c’è stato infatti solamente il modello cinese visto all’opera a Wuhan, e preso a modello dalla maggior parte degli altri paesi del globo, con l’adozione del lockdown quale misura fondamentale per contenere il contagio, ma merita attenzione soprattutto le strategia adottata in Corea del Sud.

La Corea del Sud è stata uno dei primi paesi ad aver dovuto affrontare una escalation di casi di COVID-19, ma sin dall’inizio dell’epidemia ha scelto di evitare la chiusura totale potendo contare in primo luogo su una popolazione e su un governo già abituati a questo tipo di problematiche – le precedenti epidemie di MERS e SARS, ad esempio – e poi su un approccio completamente diverso basato essenzialmente sulla mappatura e il monitoraggio dei contagiati mettendo a disposizione dei cittadini i dati raccolti, al fine di renderli consapevoli sulla possibilità o meno di aver avuto a che fare con soggetti potenzialmente contagiosi. Tale gestione è possibile solamente grazie a un allentamento radicale delle maglie della privacy il che, ovviamente, mal si concilia con l’apparato di diritti e libertà in vigore nelle democrazie occidentali. Tuttavia è risultato opportuno citare questo modello in quanto peculiarità rispetto alla maggior parte dei paesi che hanno invece ritenuto preferibile adottare il lockdown.

Queste sono state le misure principali adottate nel mondo per contenere l’epidemia di coronavirus e chiaramente la fase della cosiddetta “riapertura” – che sembra, da zona a zona, sempre più vicina – porrà i decisori politici di fronte a responsabilità altrettanto importanti e gravose. Il rischio di una seconda ondata, la possibilità che il virus si diffonda nei paesi più fragili, il bilanciamento tra esigenze economiche ed esigenze di salute, l’armonizzazione dei diritti individuali con le esigenze pubbliche sono solo alcune fra le tematiche che dovranno essere affrontate una volta terminata la fase di contenimento e solamente il futuro potrà dirci quali fra questi approcci siano stati vincenti.

Lorenzo Coppolino


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