L’evoluzione della pandemia in Estremo Oriente

Aggiornamento sulla diffusione del Coronavirus e delle misure adottate nei paesi dell’estremo oriente. La Corea del Sud, il Giappone, Taiwan e l’OMS. Il punto di vista di Alessandro Fonti.

I dati che arrivano a livello mondiale rispetto alla pandemia da Coronavirus sono impietosi. Siamo ormai a più di 210.000 morti e a più di 3.000.000 persone contagiate. Il problema che si stanno ponendo i governi di tutto il mondo, appurato che non sarà possibile mantenere il lock down assoluto ancora a lungo, è tuttavia ora legato a come far ripartire le attività imprenditoriali ed economiche, nella consapevolezza che in un mondo globalizzato ci sarà sempre qualcuno che, assegnando alla vita umana un valore economico più basso di altri, sarà pronto a subentrare nella catena del valore di un prodotto qualsiasi. Si tratta di un problema etico enorme: ogni Stato sta rispondendo come meglio crede, chi con iniezioni di liquidità a fondo perduto (una sorta di helicopter money), chi con prestiti a imprese e privati a interessi vicini allo zero, chi con riforme strutturali e burocratiche, per lo più ad oggi, queste ultime, più annunciate che messe in atto.

Il dibattito quotidiano che alimenta la stampa cartacea, i siti d’informazione, i social network ha molto spesso al centro la Cina, che viene trattata in alcuni casi come la grande untrice, come colei che non avrebbe avvisato il mondo nei tempi dovuti dell’inizio dell’epidemia, in altri invece come un esempio da seguire per “sconfiggere il demone”, grazie al lock down assoluto per due mesi della Regione di Wuhan, e come una sorta di “grande madre” che distribuisce per ogni dove le tante agognate mascherine e respiratori.

In tutta la regione asiatica e in particolare in Estremo Oriente, dove il virus si è diffuso inizialmente, sono stati numerosi i paesi coinvolti dall’epidemia, ma in alcuni di questi sono stati utilizzati metodi e strumenti diversi da quelli impiegati in Europa e nel resto del mondo. A partire da alcuni molto prossimi alla stessa Cina.

A condividere lo stesso mare, distante poco più di 150 chilometri dalla costa della Repubblica Popolare cinese, è situata l’isola di Taiwan, 24 milioni di persone, che invece ha pressoché sconfitto l’epidemia non imponendo un lock down ferreo, ma con un controllo capillare del territorio e degli spostamenti della popolazione, obbligandola ad usare le mascherine, mappandola con App sul telefonino che segnano ogni minima anomalia, e con multe salatissime nei confronti di chi diffonde allarmismi ingiustificati o fake news. Taiwan conta ad oggi 6 decessi e 429 casi confermati di Covid-19, con una mortalità pari a poco più dell’1% (i dati indicati all’inizio dell’articolo darebbero una mortalità del 7% se i casi conclamati fossero gli unici reali, ragion per cui la maggior parte dei Paesi ritiene oggi fondamentale tracciare gli asintomatici).

Non è nostra intenzione ripercorre l’annosa vicenda tra Pechino e Taiwan, per cui mentre scriviamo sono soltanto 15 i paesi ad intrattenere relazioni diplomatiche formali con quest’ultima (tra esse la Città del Vaticano), né fare una valutazione di merito, tuttavia non può non balzare agli occhi che con i dati presi in esame, e dopo averne fatto parte tra il 2009 e il 2016 nelle veste di osservatore, dal 2017 Taiwan non viene più invitata all’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità.

In tempi di pandemia ricordiamo che l’art. 1 dello Statuto dell’OMS recita: “Il fine dell’Organizzazione mondiale della sanità è quello di portare tutti i popoli al più alto grado possibile di sanità”.

Indubbiamente, non solo in vista di un tentativo di superamento dei blocchi in molti paesi europei, sarebbe interessante approfondire le modalità con cui Taiwan sia riuscita ad arginare questa pandemia, così come meriterebbero attenzione da parte nostra e da parte delle organizzazioni internazionali altri paesi asiatici che hanno fino ad oggi gestito con modi diversi questa crisi, in alcuni casi raggiungendo risultati molto importanti. Basti pensare infatti a cosa è accaduto in Corea del Sud, secondo paese colpito duramente, dopo la Cina, dal Covid-19, e che nella fase iniziale dell’epidemia, non ancora pandemia, sembrava potesse diventare il paese con la più alta concentrazione di malati da Coronavirus, invece grazie a tamponi a tappeto e a mappatura degli spostamenti dei cittadini è riuscita a contenere tutto in tempi rapidi (242 decessi, 10.728 casi confermati, i tre quarti dei quali nelle prime settimane di contagio). Altrettanto virtuosi Hong Kong (4 decessi, 1.038 contagi) e Giappone (348 decessi, 13.182 contagi).

Meno virtuoso Singapore (12 decessi, 13.624 contagi, dato simile al Giappone, ma con meno di un ventesimo della sua popolazione) che ha seguito un andamento a zig-zag: la mappatura degli spostamenti dei suoi cittadini è stata in una fase iniziale su base volontaria e le mascherine erano obbligatorie solo per i malati e si trova quindi in questi giorni a dover intervenire con nuovi lock down.

Un discorso a parte va fatto infine per il Vietnam, distanziamento sociale e test selettivi gli hanno permesso di poter dichiarare, ad oggi, 0 decessi per Coronavirus e 270 casi confermati. Tuttavia, tra quelli citati, è l’unico paese con un indice di sviluppo umano (ISU) considerato medio (gli altri hanno tutti un ISU alto o molto alto), dovuto anche a vaste aree con condizioni igieniche precarie, motivo per cui sarebbe forse importante un’indagine più approfondita da parte di funzionari indipendenti internazionali.

Insomma, l’OMS nei prossimi mesi avrà molto da lavorare ed è dovere di tutti, nessun paese escluso, contribuire al massimo delle proprie capacità. D’altra parte, è necessario anche che si fughi ogni dubbio sull’imparzialità e i presunti errori di cui viene accusato da molte parti l’agenzia dell’ONU per la salute.

Alessandro Fonti


Fonte immagine sito Salute.gov.it

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