Come la pandemia può influire sul futuro dell’Europa e sulla politica internazionale. Il punto di vista di Fabrizio Coticchia.

Conversazione di Europa Atlantica con Fabrizio Coticchia, Professore associato di Scienza Politica all’Università di Genova

L’interrogativo su come potrebbe cambiare il mondo e la politica internazionale con la crisi generata dalla pandemia del nuovo Coronavirus e cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi, ma anche quali riflessi si potrebbero produrre, sul futuro dell’Europa e sulla politica estera italiana sono stati i principali temi di cui abbiamo parlato con Fabrizio Coticchia, Professore Associato di Scienza Politica all’Università di Genova. L’ultimo libro scritto dal prof. Coticchia è “Italian Foreign Policy during Matteo Renzi’s Government: A Domestically-Focused Outsider and the World” (con J.Davidson, Lexington 2019) mentre il suo prossimo libro sarà: “Reluctant Remilitarisation: Transforming Defence and the Armed Forces in Germany, Italy and Japan after the Cold War” (con M.Dian e F.N. Moro, Edinburgh University Press, forthcoming).

Alcune settimane fa, in un editoriale sul Wall Street Journal, Henry Kissinger ha messo in guardia sulle possibili ricadute che questa pandemia potrebbe avere, anche dopo la sua fine, a livello internazionale. Che effetti potrebbe avere secondo lei? La pandemia potrebbe aiutare a ridefinire gli equilibri globali?

Appare senza dubbio prematuro delineare scenari relativi al futuro delle relazioni internazionali in seguito alla pandemia globale, tutt’ora in corso. Il comportamento degli attori statuali è infatti suscettibile ancora di considerevoli cambiamenti, alla luce dell’evoluzione del COVID-19, dentro e fuori i confini nazionali, e delle sue conseguenze, in primis sul piano economico-sociale. Quello che possiamo fare (basandosi sulla letteratura di Relazioni Internazionali) è cercare di sviluppare possibili ipotesi riguardanti l’impatto della pandemia su alcuni temi specifici: le relazioni tra Stati Uniti e Cina ed il loro diverso grado di influenza nello scenario internazionale, il livello di cooperazione tra gli stati – anche attraverso istituzioni globali – e quello di chiusura e conflitto, la diversa redistribuzione delle (più scarse) risorse dedicate agli strumenti di politica estera e di difesa. A seconda delle premesse sulla natura del sistema globale, sugli obiettivi dei suoi attori chiave e sull’effetto dei fattori domestici su quelli internazionale, avremo ipotesi diverse. Da una parte, di fronte a minacce transnazionali, parrebbe logico pensare ad un rafforzamento delle istituzioni multilaterali, le più efficaci per scambiare tempestivamente informazioni ed adottare un approccio globale. Dall’altra, l’accentramento dei poteri in mano agli esecutivi, l’adozione di misure quali la chiusura dei confini e l’assoluta centralità (politico/elettorale) rivolta al contesto domestico segnato dalla crisi, sembrano far propendere per una minore “apertura” nei rapporti interstatuali, con più limitati livello di cooperazione e fiducia.

In questi primi mesi di pandemia la Cina, sebbene fosse il luogo d’origine del virus (e nonostante la limitata trasparenza nelle informazioni inizialmente fornite) ha attuato un’ampia politica di public diplomacy, volta a rafforzare il suo grado di influenza e di soft power a livello globale. Tutto ciò avviene in una fase storica segnata dal motto trumpiano dell’America First e dalla presenza del primo presidente americano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale che non crede nell’ordine liberale internazionale e che ha avanzato ombre finanche sul ruolo della NATO (per non parlare dei trattati e delle istituzionali multilaterali). A ciò si è aggiunta una gestione – per usare un eufemismo – non propriamente efficace della crisi da parte dell’attuale amministrazione.

Al di là del ruolo e della visione – comunque cruciale – di Trump nella politica estera americana, il mio suggerimento è quello di rifarsi alla vivace letteratura americana che da anni si divide tra le ipotesi di “restraint” e quelle di “engagement” in relazione alla grand strategy americana, diretta ad assumere un atteggiamento più cauto e prudente (dopo gli anni – ed i disastri – dell’America Imperiale sostenuta dai neo-con, ed in seguito alla crisi finanziaria del 2008) oppure a mantenere costante la sua presenza globale ed il suo livello di influenza. La modalità con la quale la pandemia influenzerà queste due opzioni (e le élite politiche che, con sfumature diverse, le sostengono) risulterà cruciale nel medio periodo.

Possiamo infine chiederci se a seguito della crisi economica causata dalla pandemia i rapporti tra le potenze saranno più o meno pacifici. Gli autori che si occupano di Relazioni Internazionali si dividono in merito al rapporto tra interdipendenza economica e guerra, tra coloro che evidenziano una correlazione tra maggiori scambi e minori possibilità di conflitto e coloro che invece sottolineano il rischio della dipendenza da altri attori e le conseguenze nefaste per la sicurezza legate ai vantaggi relativi a seguito degli scambi. Certamente la presenza di aspettative negative in relazione ai futuri rapporti commerciali possono influenzare il calcolo degli stati riguardanti il rapporto costi/benefici tra l’impiego di strumenti militari (oppure diplomatico-commerciali) per raggiungere gli obiettivi di politica estera. Date le fosche aspettative riguardanti l’andamento commerciale a seguito della pandemia, e la crescente salienza riguardante le priorità del contesto domestico (a discapito di quello globale), credo sia lecito preoccuparsi. Ed il “sovranismo” dell’amministrazione americana non rappresenta certo un fattore mitigante di tali aspettative. Tutt’altro.

Che rischi corre nello specifico l’Europa, di fronte agli scenari internazionali che potrebbero definirsi? E l’Italia?

L’Italia ed i paesi europei dovranno fare i conti con lo scenario sopra citato, segnato dalla centralità del contesto strategico asiatico per gli Stati Uniti (il cosiddetto Pivot Asia). Una importanza attribuita da Washington ben prima dell’avvento di Trump. Certamente le elezioni di novembre rappresentano un momento cruciale per l’evoluzione dei rapporti tra le grandi potenze, compresi quelli tra Stati Uniti e suoi alleati.

Per quanto riguarda la pandemia e l’Unione Europea, credo sia in gioco il destino stesso del progetto europeo, ahimè mai così impopolare in paesi come l’Italia. La “crisi di solidarietà” che ha caratterizzato l’Europa dal 2008 in poi ha segnato gravemente lo sviluppo dell’Unione. L’austerity, la cosiddetta crisi dei rifugiati, la diffusione (con grave e sorprendente tolleranza generale) della democrazia illiberale (pensiamo al regime di Orban), la stessa Brexit, rappresentano eventi che hanno segnato il nostro continente. La pandemia può ovviamente aprire le porte ad una crisi di solidarietà ancora più grave, in un contesto nel quale gli stati membro guardano solo al proprio orticello. Ma, a mio avviso, l’opposizione al sovranismo populista e al dilagante euroscetticismo non può essere una visione tecnocratica dell’Unione Europea, che prosegue per la sua strada, a corto di fiato e di legittimità, e rimuove il conflitto. Una visione “euroentusiasta” e puramente normativa dell’Unione Europea, è solo controproducente. Come affermava molti anni fa – con lungimiranza – Peter Mair, l’assenza di spazio per una opposizione alle politiche adottate all’interno dell’UE ha portato inevitabilmente ad una crescente opposizione all’Unione Europea nel suo complesso. Già anni fa la Commissione aveva delineato le possibili direzioni nel futuro dell’UE: andare avanti così, focalizzarsi solo sul mercato unico, lasciare possibilità a chi vuole di fare di più, fare meno ma in modo più efficiente, o fare molto di più tutti assieme. Se vogliamo proseguire questa ultima strada – che la Commissione auspicava – ritengo che non si debba aver paura di affrontare in modo aperto e democratico la crisi di legittimità dell’UE. L’Italia ha tratto benefici dalla partecipazione all’Unione Europea, ma adesso si trova di fronte a scelte difficili e a spazi davvero molto limitati in termini di alleanze a margini di manovra (pensiamo al contesto economico). Per difendere e rafforzare i propri interessi deve quindi agire con pragmatismo ed efficacia, rifuggendo la retorica vuota dei pugni sul tavolo ma sviluppando quelle capacità di politica diplomatica spesso messe colpevolmente in secondo piano nel nostro paese. La Foreign Policy Analysis ci insegna che servono visioni, risorse, serietà e capacità per gestire in modo efficace gli strumenti della politica estera, la cui macchina è stata per anni ignorata dai governi italiani. Vedremo se la pandemia, come talvolta accade con crisi e “congiunture critiche”, rappresenterà un momento di svolta, sia per l’Italia che per l’Europa. Certamente il primo scenario individuato anni fa dalla Commissione Europea (“andare avanti così”) non pare più attuabile.

Negli ultimi anni quanto sono cambiate la politica estera e quella di difesa italiana, almeno nelle loro linee fondamentali? Adesso, dopo questa crisi, immagina che potrebbero cambiare le priorità del paese nella sua proiezione internazionale?

Chi studia la politica estera sa che non è facile definire ed “operazionalizzare” il concetto di cambiamento, da quello (limitato) relativo agli strumenti scelti a quello (ben più ampio) riguardante gli obiettivi della politica, fino alla trasformazione degli orientamenti generali all’interno del contesto internazionale. Dopo la fine della Guerra Fredda, e la scomparsa dei vincoli bipolari, l’Italia ha modificato il proprio ruolo nello scenario internazionale, da consumatore a produttore di sicurezza, inviando le proprie forze armate in quasi tutti gli scenari di crisi, dalla Somalia al Golfo Persico, dall’Afghanistan ad Haiti. Negli ultimi anni, con la fine (ed i drammatici fallimenti) delle operazioni in Iraq, Afghanistan e Libia, in seguito alla crisi finanziaria, e con l’emergere di crescenti minacce multidimensionali alla sicurezza, l’Italia ha avvitato – almeno dal Libro Bianco della Difesa del 2015 – un processo (bipartisan) di ri-orientamento strategico verso l’area vitale del cosiddetto “Mediterraneo allargato”. La centralità di Nord Africa e Sahel ha accompagnato un (graduale al momento) ricollocamento delle forze verso queste aree, confermando l’importanza delle operazioni navali nel Mar Mediterraneo. Anche con l’ingresso al governo di forze politiche “nuove” che non avevano mai condiviso le priorità della politica di difesa italiana post bipolare (il Movimento5Stelle) o attori di lungo corso che hanno da sempre attribuito una rilevanza scarsa o nulla alla difesa (la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania), questo ri-orientamento strategico non è stato messo in discussione. Vedremo se con risorse più limitate, a causa della pandemia, la direzione della politica di difesa italiana cambierà. Ahimè il problema dell’attenzione complessiva sui temi della Difesa sarà temo inevitabilmente aggravato. Questo vale per i media, per l’accademia ma soprattutto per il Parlamento! Nonostante l’introduzione della (tanto attesa) legge 145 del 2015 – la legge quadro sulle missioni internazionali – il controllo parlamentare rispetto alle scelte dell’esecutivo in materia è ancora nei fatti gravemente limitato, ed i contorni della discussione pubblica rimangono perlopiù strumentali, dettati da logiche contingenti, lontane delle esigenze della Difesa.  Per esempio non si parla quasi più di un aspetto centrale dell’allora Libro Bianco che non è mai stato implementato, la tanto auspicata integrazione interforze.

A livello più complessivo di politica estera due aspetti meritano particolare attenzione. Il primo è proprio il rapporto con la Cina. Sto lavorando ad una ricerca (basata su fonti primarie e secondarie) relativa alla politica estera dell’allora governo giallo-verde, valutandone il grado di continuità e discontinuità, esaminando, in generale, l’impatto di partiti populisti in politica estera (un tema trattato sorprendentemente poco dalla letteratura). Nonostante la retorica sovranista, anche a causa dei vincoli esterni ed interni (l’esecutivo aveva tre componenti, due partitiche ed una che potremmo definire “istituzionale”, in seguito alle scelte del Presidente della Repubblica nella fase di costutizione del Conte I), il livello di cambiamento effettivo è stato molto limitato (quasi nullo in ambiti come la difesa) e per lo più riguardante politiche simboliche. L’unica effettiva scelta che ha rappresentando un considerevole cambiamento è stata la firma con la Cina del MoU della Belt and Road Initiative, la Via della Seta. L’Italia è il primo paese del G7 a firmare questo accordo. Dobbiamo ancora valutarne cause e conseguenze (di fronte a spazi di manovra limitati cerchiamo altre direzioni?) ma certo tale scelta è stata significativa, e comprensibilmente non è stata accolta con grande gioia a Washington. Come detto, la pandemia ha messo in luce l’attivismo cinese in Italia a livello di public diplomacy. Le recenti numerose interviste di esponenti dell’attuale esecutivo volte a confermare il mantenimento delle salde alleanze tradizionali nel campo euro-atlantico illustrano che evidentemente c’era….la necessità di fornire particolari rassicurazioni.

Infine, l’ultimo punto che a mio avviso merita di essere esaminato in relazione alla possibile evoluzione della politica estera italiana in seguito al COVID-19 è quello della cooperazione allo sviluppo. Si tratta di un ambito cruciale ma spesso colpevolmente bistrattato a livello di risorse ed attenzione in Italia. L’Italia ha approvato anni fa una importante ed ampia riforma del settore, dopo lustri di attesa, ma ancora i fondi non appaiono sufficienti per portare avanti una politica efficiente ed efficace, fondamentale per rafforzare quelle scelte di politica estera sopra citate, coinvolgendo attori governativi e non. Il timore è che a causa della pandemia e della conseguente scarsità di risorse complessive, la cooperazione (erroneamente spesso percepita come semplice aiuto) sia ulteriormente danneggiata. La politica italiana, da anni caratterizzata da un’agenda securitaria di breve periodo, commetterebbe un gravissimo errore.


Fonte immagine sito Ministero della Difesa

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