La diffusione del Covid-19 in Russia e i possibili riflessi nei rapporti con l’Occidente. L’analisi di Gabriele Natalizia

Conversazione di Europa Atlantica con Gabriele Natalizia, docente di International Relations alla Sapienza Università di Roma e coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info.

Nei primi mesi della pandemia globale, soprattutto nel periodo in cui il nuovo coronavirus si è maggiormente diffuso in Europa e in Nord America, la Russia era sembrata rimanere meno coinvolta dalla sua diffusione. Invece, in poco tempo, anche la Federazione russa è stata colpita e in poche settimane è diventato uno dei paesi con i numeri più alti di contagi, superando molti altri paesi europei. Quali potrebbero essere le conseguenze della pandemia anche sulla Russia, sia per quanto riguarda la sua politica interna e la stabilità del suo sistema politico che in particolare nella sua politica estera e nel rapporto, complesso, con i paesi occidentali, sono stati alcuni dei temi trattati nella conversazione avuta con Gabriele Natalizia, coordinatore del centro studi Geopolitica.info e docente universitario alla Sapienza di Roma.

Prof Natalizia, recentemente la Federazione Russa è diventata uno dei paesi più coinvolti al mondo per numero di contagi da Covid 19, nonostante che a lungo fosse sembrato che l’emergenza l’avesse coinvolta marginalmente. Lei ritiene che questa pandemia potrebbe avere effetti particolari sul sistema politico e indebolirne la forza?

A mio giudizio occorre fare un distinguo tra le conseguenze in termini di potere e quelle in termini di legittimità.

Per quanto riguarda le prime, al momento non si intravedono scosse particolari. Il solo fatto veramente degno di nota è che se nel passato il Cremlino aveva gestito direttamente i temi più scottanti dell’agenda politica, nel caso della crisi COVID-19 ha preferito attribuirne la responsabilità ai poteri locali e, in particolare, ai governi regionali. La ragione può essere riscontrata nella volontà di isolare – per quanto possibile – il processo di riassetto istituzionale che da gennaio è in corso nel Paese da una variabile interveniente come l’emergenza Coronavirus (il 22 aprile si sarebbe dovuto tenere un referendum in merito). Grazie all’emendamento dell’ex-cosmonauta e deputata Valentina Tereshkova, la riforma azzera i mandati presidenziali di Vladimir Putin e gli permetterebbe – salvo risultati elettorali sfavorevoli – di restare alla guida della Russia sino al 2036.

Sul piano della legittimità, invece, potrebbe aver già influito in misura significativa. Secondo un recente sondaggio del Levada Center, infatti, la popolarità del presidente è al 59%. Sebbene sia il dato più basso dal 2000 (Putin diventò presidente ad interim il 31 dicembre 1999) di per sé non sarebbe preoccupante. Come notato da Enzo Reali su Atlantico (https://bit.ly/3bqlzTa), numeri che in qualsiasi democrazia occidentale significherebbero un presidente sulla cresta dell’onda, in Russia stanno a indicare una disaffezione nei confronti del personaggio che ha segnato l’ultimo ventennio di storia nazionale.

Potrebbe avere effetti o conseguenze invece sulla proiezione esterna e l’azione internazionale del paese?

La crisi ha prodotto al tempo stesso sia vantaggi che svantaggi per la Russia nella dimensione internazionale. Tra i secondi, va ricordato che ha impedito al regime di celebrare sé stesso lo scorso 9 maggio in occasione dell’anniversario della Grande guerra patriottica. Questo evento, come scrive Lorenzo Riggi su Geopolitica.info (https://bit.ly/3cyRgeb), costituisce uno dei principali tasselli su è stata costruita l’identità nazionale nel post-Guerra fredda e, quindi, la sua mancata celebrazione costituisce un vulnus per il ciclico rinnovo della legittimità del putinismo. Inoltre, per un Paese che il cui comparto energetico è all’origine del 63% del PIL (fonte: OECD) la brusca frenata ai consumi che ha preso forma in questi mesi a causa dei lockdown che si sono susseguiti in tutto il mondo non può non aver costituito una sonora batosta per l’economia nazionale. Tuttavia, la Russia ha sfruttato questa prova per dare un colpo “al cerchio” della produzione dello shale oil americano e “alla botte” della leadership globale dell’Arabia Saudita sul settore. Infine, la crisi ha offerto al Cremlino l’opportunità di rilanciare la sua immagine internazionale con la missione From Russia with Love.

Molti analisti si soffermano sul fatto che la pandemia potrebbe incidere pesantemente anche a livello geopolitico sugli equilibri globali, già peraltro in trasformazione. Ritiene che vi potranno essere ricadute particolari sulle relazioni tra Russia e paesi occidentali, anche alla luce delle tensioni emerse soprattutto a partire dal 2014?

In molti hanno detto che gli aiuti offerti all’Italia e agli Stati Uniti sarebbero un ramoscello d’ulivo offerto nella speranza di un ripensamento delle sanzioni nei confronti della Russia. Come ho scritto insieme a Salvatore Santangelo su Geopolitica.info (https://bit.ly/2Wuurmo), la Russia, oltre a non essere guidata da degli sprovveduti, è un Paese capace di un ragionamento strategico più profondo. Da un lato, potrebbe aver usato la missione in Italia per addestrare i suoi reparti specializzati in guerre batteriologiche (non a caso gli operatori inviati erano medici militari), dall’altro per testare le reazioni dei Paesi occidentali rispetto al suo attivismo all’interno di un Paese NATO.

Nel corso degli ultimi anni, dopo la crisi ucraina in particolare, le relazioni tra paesi occidentali e Russia sono tornate ad un livello di tensione molto alto, come dai tempi della Guerra fredda non si registrava più. Come si erano sviluppate le relazioni tra Stati Uniti e Federazione Russa dalla fine dell’URSS in poi?

A dispetto di quanto sostengono in molti, le relazioni tra Washington e Mosca non sono state sempre competitive nel post-Guerra fredda, né hanno seguito un’evoluzione lineare. Piuttosto hanno alternato fasi di reset a fasi di ripartenza del confronto. Le prime tre amministrazioni americane di questa fase (Clinton, Bush e Obama) hanno sempre cercato nel loro primo mandato di integrare la Russia nell’ordine liberale. Poi, a seguito di un rafforzamento del sistema di alleanza occidentale in aree ritenute strategicamente vitali dal Cremlino si è regolarmente innescata una spirale competitiva che, di volta in volta, ha preso forme più intense, culminando nelle interferenze russe nelle primarie del Partito Democratico e nella mutua espulsione di personale diplomatico nel 2016. L’unica Amministrazione che non ha avviato una politica di reset dei rapporti nei confronti di Mosca è stata, a dispetto delle aspettative suscitate in campagna elettorale, proprio quella di Donald Trump. Il presidente in carica, infatti, ha probabilmente scelto una politica più muscolare nei confronti della Russia – definita nella sua National Security Strategy come “potenza revisionista” – probabilmente per allontanare lo spettro dell’impeachment.

La Russia sta cercando di giocare un ruolo da protagonista, a livello internazionale, anche per mantenere lo status di Grande potenza. In poche parole, quali sono stati gli elementi principali della politica estera condotta dalla Russia?

Più che per mantenerlo, a me sembra che la Russia sia ancora alla ricerca di un riconoscimento pieno del suo status di grande potenza da parte del mondo occidentale. E proprio la percezione da parte di Mosca di un mancato riconoscimento ha provocato quel fenomeno di inconsistenza di status che l’ha fatta attestare su posizioni revisioniste e stringere quello che è stato definito da Bobo Lo come un “matrimonio di convenienza” con la Cina. Tuttavia, la Russia non ha i numeri economici e demografici per competere con gli Stati Uniti su scala globale e anche il suo strumento militare – per quanto temibile – è destinato a diventare obsoleto se non ci sarà un rilancio economico del Paese (come confermato dalla National Security Strategy 2017 che la considera la principale minaccia militare agli Stati Uniti solo nel breve termine). Al contrario, il principale obiettivo di Mosca è quello di vedersi riconosciuto da Washington e dai suoi alleati il primato sul cosiddetto “estero vicino”, ovvero una zona di influenza sui territori dell’ex-URSS. Una volta conseguito tale risultato, potrebbe allinearsi agli Stati Uniti in funzione anti-cinese. Non ci dimentichiamo, infatti, che la Russia ha tradizionalmente tanti problemi con l’Occidente, quanti ne ha con l’Oriente.

Quanto di questa azione è anche frutto dell’eredità storica e della tradizione politica  del paese?

Ogni Paese ha le sue costanti in politica estera da intendersi – secondo Carlo Maria Santoro – come quegli obiettivi permanenti che derivano da fattori oggettivi e strutturali la cui interazione con gli eventi, le istituzioni e gli uomini producono come risultato la politica estera di un Paese. E proprio alcune “costanti” della politica estera russa che sono all’origine della attuale postura del Cremlino nei confronti dell’ordine internazionale: ricerca spasmodica dello status di grande potenza, senso di accerchiamento, convinzione che i Paesi ai suoi confini siano sempre delle potenziali proxy dei suoi nemici strategici e, infine, la convinzione che la Russia non persegua solo interessi materiali ma sia chiamata a compiere una “missione” nella sfera internazionale (in epoca recente, la difesa del Russkiy Mir e della sovranità degli Stati che ne sono ricompresi). 

A suo avviso, quanto la pandemia sarà rilevante a livello geopolitico?

La pandemia ha assunto la forma di una vera e propria crisi internazionale. Al punto che il dato politico, insieme a quello economico, stanno quasi sopravanzando quello sanitario (in termini di vite perse) nel dibattito pubblico. Pertanto, come ogni crisi che si rispetti – come spiega bene Alessandro Colombo in Tempi decisivi – anche quella in corso sta producendo una distorsione dei rapporti tra gli Stati e comprimendo i tempi per assumere decisioni strategiche. E con “strategiche” si intende il fatto che si tratta di scelte capaci di influire sul riconsolidamento o, in alternativa, sul definitivo declino dell’ordine a guida americana e che determineranno il rango e il collocamento internazionale dei singoli Stati nel medio-lungo termine.

Intervista a cura della Redazione di Europa Atlantica


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