Sicurezza, economia, geopolitica. Come il Covid-19 potrebbe cambiare il sistema interazionale. Il punto di vista del Prof. Bozzo

Le ricadute della Pandemia sulla politica e l’economia internazionale, la rivalità tra Usa e Cina, il ruolo di Europa e NATO. Conversazione con Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali all’Università di Firenze.

Prof. Bozzo, nel corso degli ultimi anni è emersa con sempre maggiore evidenza una nuova competizione tra grandi potenze, soprattutto tra Cina e USA. Nel contesto di questa rivalità è arrivata la pandemia di coronavirus. A suo parere, cosa potrebbe cambiare con questa nuova crisi nei rapporti tra potenze?

A me pare siano due gli aspetti da evidenziare. Da un lato è palese che l’arrivo della crisi da Covid-19 per molti versi abbia peggiorato, esasperandola, la competizione in atto tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Faccio riferimento, in particolare, ai contrasti di diversa natura che sono emersi tra i due paesi, alle polemiche e accuse reciproche, circa la gestione dell’emergenza. Come noto, da parte statunitense la RPC è stata accusata di avere ritardato la comunicazione dell’inizio di quella che poi sarebbe divenuta una pandemia, di aver nascosto i dati reali sull’emergenza, in definitiva di non aver gestito correttamente la crisi, ritardando l’accesso a dati e informazioni che sarebbero stati rilevanti per combattere prima e con maggiore efficacia la diffusione del virus. Non solo, la RPC è stata accusata di aver manipolato l’informazione, quando non di aver diffuso vere e proprie “fake news”, nel quadro di una strategia complessiva che mira ad accrescere il prestigio nazionale e la capacità di esercitare influenza su scala globale, tramite esercizio di “soft power” e “sharp power”. Da una parte e dall’altra si è tentato, inoltre, di procurarsi mezzi e presidi sanitari ritenuti atti a far fronte alla pandemia, non guardando tanto agli interessi effettivi della comunità internazionale, quanto piuttosto alla tutela immediata di quelli nazionali, com’è peraltro comprensibile in una situazione di grave crisi quale quella che per molti versi è ancora in atto. In ragione di queste e altre, simili considerazioni è perciò evidente che la crisi è venuta ad esacerbare la competizione tra le due grandi potenze, che costituisce un nuovo motivo di radicalizzazione della medesima. Il secondo aspetto che mi pare interessante sottolineare è rappresentato dal fatto che la gestione delle pandemie è destinata a divenire un nuovo terreno di confronto e scontro per l’egemonia globale.  Il conflitto tra quelle che potremmo chiamare, mutuando i termini dagli anni della Guerra Fredda, le due superpotenze, una di recente ascesa e l’altra uscita vincitrice dal confronto bipolare, transita da oggi anche sul terreno della gestione della pandemia presente e probabilmente, ove se ne verificassero altre, come è del resto possibile se non probabile, di quelle future. 

Quali sono i rischi maggiori che questa nuova e improvvisa crisi può produrre alla sicurezza internazionale?

Il rischio assai evidente è il risollevarsi, da una lato, degli steccati nazionali, come avviene ogniqualvolta si sviluppi una crisi che viene percepita come minaccia diretta agli interessi degli stati, a partire da quello primario della loro sicurezza. Ma il richiudersi entro steccati nazionali esaspera la competizione tra stati, siano o meno grandi potenze, favorisce l’emergere di interessi egoistici e crea tensione nei sistemi di alleanze e nelle organizzazioni e comunità politiche internazionali, ad esempio, per quanto più direttamente ci interessa, nella NATO e nell’Unione Europea. Tanto più si affermano gli interessi egoistici e tanto più difficile diventa infatti, come è ovvio, perseguire politiche comuni, anche in quelle materie, come è la prevenzione e il contrasto delle pandemie, che per loro stessa natura richiederebbero cooperazione e solidarietà internazionale. Lo abbiamo constatato nel caso europeo. La lezione tratta dalla pandemia, ovvero la necessità di affrontare assieme crisi di questa natura e portata, pare pere il momento aver avuto seguito, sembra voler essere raccolta dall’Unione Europea. La mancanza di un efficace coordinamento, di una gestione centralizzata delle misure adottate per far fronte alla crisi sanitaria, ha infatti prodotto conseguenze negative che sono a tutti evidenti. Solo il futuro potrà dirci, tuttavia, cosa ne sarà delle buone intenzioni più volte riaffermate in sedi diverse.

Ecco, lei ha nominato l’Unione Europea. Questa crisi arriva in un anno molto particolare, quello delle elezioni presidenziali americane e in un momento di debolezza dell’Unione Europea. Cosa rischia l’Occidente in questo momento?

Credo rischi molto. Per quello che riguarda le elezioni negli Stati Uniti mi pare scontato che l’evoluzione della pandemia, che è ancora forte in alcuni stati di quel Paese, l’efficacia delle misure di controllo già adottate o che lo saranno nei prossimi mesi e l’interazione tra le conseguenze dell’evoluzione citata e la crisi politica e sociale scatenatasi a seguito del caso Floyd, ovvero le proteste e gli incidenti a sfondo razziale, peserà in maniera decisiva sull’elezione del prossimo presidente. L’eventuale rielezione di Trump dipenderà da se e quanto l’attuale presidente si dimostrerà in grado, da un lato di gestire la crisi economica conseguenza della pandemia, dall’altro di tenere sotto controllo quest’ultima e, infine, di far fronte alla questione razziale e sociale, sulla quale evidentemente incide il fattore economico. Trump dovrà muoversi su tutti e tre questi tre terreni, e si tratta evidentemente di terreni infidi. Questo per quanto riguarda gli Stati Uniti. Per ciò che concerne invece l’Europa mi pare di poter dire che l’UE ha dato pessima prova di sé all’inizio della crisi, proprio per quella mancanza di coordinamento, di direzione centrale, di capacità di gestione della crisi cui facevo in precedenza riferimento, peraltro dovuta all’imporsi degli interessi nazionali nel momento peggiore della crisi. L’Unione sembra intenzionata a recuperare in corso d’opera, con l’adozione delle diverse misure a sostegno dei paesi maggiormente colpiti dalla pandemia tra cui ovviamente il nostro. È da vedere, ancora una volta, se alle buone intenzioni e alle misure così come delineate sulla carta seguiranno poi fatti sufficienti a contrastare quanto avvenuto e quanto soprattutto avverrà, cioè le conseguenze economiche e finanziarie della crisi. Dalla capacità, maggiore o minore, di far fronte a tali conseguenze dipenderà la tenuta stessa dell’UE, la sua credibilità, gli stessi risultati delle elezioni politiche future dei Paesi membri, nelle quali le posizioni dei singoli partiti, a favore o contro delle politiche comuni, saranno più o meno rafforzate o indebolite da quella che sarà l’efficacia pratica, dimostrata nei fatti, delle misure adottate. Al presente, indubbiamente la posizione dell’Europa, nel contesto di quello che è il confronto globale che si va radicalizzando tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, è una posizione di debolezza e incertezza. Se quel confronto dovesse continuare ad esacerbarsi a mio avviso è abbastanza evidente che, come inevitabilmente accade in questo genere di confronti bipolari, per l’attore che ha peso politico minore, in questo caso l’Unione Europea, e per i singoli suoi stati membri, si tratterà di decidere con chi schierarsi tra i due contendenti. Sarà perciò sempre più difficile adottare e perseguire politiche ambigue, tentennanti o addirittura di apertura e collaborazione nei confronti dell’avversario del proprio leader di alleanza, se non pagando un costo politico ed economico che potrebbe risultare inaccettabile. Vedo, in quest’ottica, il futuro dell’Unione Europea problematico, se non altro in termini di politica estera e di sicurezza comune, ammesso che esista oggi una politica estera e di sicurezza comune degna di questo nome.

Alcuni centri studi e fondazioni avevano messo in guardia già qualche anno fa governi e organizzazioni internazionali dai rischi di una pandemia globale, eppure appena scoppiata questa pandemia in Cina la reazione del mondo è apparsa molto lenta anche da parte della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo lei, ci siamo fatti trovare impreparati?

Direi di sì, mi pare evidente. Perlomeno alla luce di quello che già era accaduto non molto tempo fa. Penso alla Sars, o agli altri casi di epidemie e pandemie avvenuti a partire dall’inizio del nuovo millennio. Questo che stiamo ancora vivendo non è certo il primo caso di grave crisi sanitaria internazionale. I precedenti non erano stati affatto irrilevanti, dal punto di vista del numero di vittime e di diffusione degli agenti virali. Non dimentichiamo che nel 2018 un gruppo di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in un rapporto sul tema del rischio pandemico, avanzò l’ipotesi secondo la quale prima o poi avrebbe potuto presentarsi sullo scenario internazionale quello che il gruppo definì “morbo X”: un agente virale che avrebbe avuto caratteristiche assai simili a quelle tipiche dei virus influenzali, che quindi, soprattutto nella fase iniziale, non avrebbe destato sufficienti preoccupazioni, non sarebbe stato affrontato in maniera efficace, drastica, ma che al contrario di una normale influenza sarebbe risultato altamente contagioso e avrebbe avuto un tasso di mortalità estremamente più elevato. Sembra la carta d’identità del Coronavirus, del Covid-19, ed è stata stilata almeno un anno, forse un anno e mezzo prima dell’esplosione dell’attuale pandemia. I segnali e gli avvertimenti dunque c’erano e sono stati probabilmente in larga misura trascurati. D’altra parte, è anche vero che ci si è trovati improvvisamente di fronte allo scoppio della pandemia, ad una diffusione rapida di un virus assai aggressivo, almeno nelle fasi iniziali dell’emergenza nelle diverse aree di insediamento virale, e con sistemi nazionali non sufficientemente preparati, sebbene in misura diversa, ad affrontare questo genere di emergenza. Una simile conclusione mi pare confermata guardando non soltanto al caso italiano, ma anche ad altri casi; alle deficienze nazionali si è poi sommata l’assenza, cui facevo in precedenza riferimento, di meccanismi efficaci di “governance”, sia a livello regionale che, a maggior ragione, globale. A questo proposito, per quanto riguarda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, pur non entrando nel merito della polemica scatenata dall’attuale Amministrazione americana, debbo dire che in più occasioni ha dato povera prova di sé, ad esempio fornendo indicazioni tardive se non contraddittorie. Penso al caso relativo alla possibilità che i portatori asintomatici del virus possano essere o meno pericolosi veicoli di diffusione della malattia; un tema rispetto al quale l’OMS ha emanato informazioni contraddittorie le une con le altre nel giro di poche settimane. Vi è inoltre il caso, controverso e politicamente molto sensibile, che ha determinato le accuse degli Stati Uniti e la presa di distanza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità da parte di Trump e del governo federale americano, relativo a quella che secondo l’Amministrazione americana sarebbe stata la almeno parziale “connivenza” iniziale dell’OMS rispetto ai dati sulle dimensioni e conseguenze dell’infezione virale, ritenuti parziali e comunque comunicati in forte ritardo dalla RPC, e l’incapacità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di comprendere in tempo utile ciò che stava davvero accadendo nella Repubblica Popolare alla fine del 2019. Sull’efficacia e trasparenza dell’operato dell’OMS restano in sintesi ragionevoli dubbi, che dovrebbero indurre ad una qualche riforma della medesima. Difficile credere, tuttavia, che questo possa avvenire in tempi rapidi, per la natura stessa di queste grandi organizzazioni burocratiche internazionali e per gli interessi politici dei principali paesi che ne sono membri, che inevitabilmente pesano sulla gestione dell’organizzazione.

Quindi secondo lei era possibile essere pronti a reagire ad un evento simile?

Era indubbiamente possibile reagire meglio, se fosse stato predisposto per tempo quanto necessario. Per esempio in termini di acquisizione di scorte di macchine, farmaci, presidi sanitari atti a proteggere il personale medico e non soltanto medico, di predisposizione di posti letto in reparti di terapia intensiva e di organizzazione della sanità di territorio; in termini di tutela delle produzioni nazionali di quei presidi e apparati sanitari; o ancora, forse, anche in termini di capacità di early warning, cioè di scoperta rapida delle dimensioni reali dell’epidemia. Credo che in ciascuno di questi settori, non solo in Italia ma anche altri Paesi, si sarebbe potuto fare di più. Siamo stati colti di sorpresa, vero, ma fino ad un certo punto, perché i segnali di pericolo c’erano, per certo eravamo impreparati o non sufficientemente preparati. Tuttavia è molto facile dirlo adesso.

In futuro potremmo avere sempre più a che fare con emergenze quali quella, ad esempio, del Coronavirus. Cosa possiamo fare per limitare le vittime i danni?

Innanzitutto è evidente che sarebbe necessario un miglior coordinamento internazionale. Il problema della governance, come si usa definirla, di fenomeni come quello di cui stiamo parlando, a loro volta strettamente legati a processi di ben più vasta portata, quelli che vanno sotto l’etichetta della globalizzazione, è e rimarrà il problema cruciale. Quello che è accaduto è esattamente lo specchio di ciò che rappresenta la globalizzazione, ovvero i processi oramai compiuti di internazionalizzazione. L’aumento dei flussi, degli scambi di varia natura, dei commerci e dei transiti a livello globale, i processi di crescente interdipendenza, e anche di progressiva integrazione in certi campi e aree regionali, la formazione di sempre più complesse supply chains, ecc. sono tutti elementi che, da un lato, portano sviluppo, crescita economica, possibilità di scambio di informazioni, conoscenze e quant’altro, ma, dall’altro, determinano un’assai più rapida e facile diffusione, ad esempio, di agenti patogeni su scala globale, di informazioni utili a gruppi terroristici o di armi e strumenti che possono essere utilizzati a fini terroristici o criminali; questo solo per fare un esempio, ma ne potremmo fare molti atri simili. Di fronte ad una situazione di tal genere è chiaro che vi è la tentazione da parte  di ogni Paese di adottare misure nazionali per far fronte a simili emergenze, quindi di tentare di garantire per così dire “in proprio” la sicurezza nazionale, intesa in senso lato, cioè non più solo come sicurezza militare tradizionalmente intesa. D’altro canto, tuttavia, proprio la natura dei fenomeni considerati determina l’esigenza di accrescere quei meccanismi di governance che divengono inevitabilmente necessari quando si creino reti di interazione, di interdipendenze di varia natura, a livello globale. È difficile trovare un punto di equilibrio tra queste due spinte: la spinta prodotta dai processi di internazionalizzazione, cioè dalla globalizzazione, a favore dei meccanismi di governance e quella, di segno inverso, verso la ri-nazionalizzazione. Non a caso, da parte di molti osservatori, si è fatto riferimento alla possibilità di una “de-globalizzazione”. Io non credo a tale prospettiva; o meglio, ove ciò avvenisse determinerebbe con ogni probabilità il collasso del sistema economico e finanziario internazionale, come lo conosciamo oggi, con conseguenze difficili da prevedere ma certamente catastrofiche. Mi sembra una prospettiva al momento di certo non auspicabile e comunque non probabile, alla luce di ciò che è oggi il sistema economico e finanziario. Vedo semmai un futuro in cui continuano a prodursi gli effetti della globalizzazione, nell’uno e nell’altro senso: quelli positivi inevitabilmente accompagnati, sull’altra faccia della stessa medaglia, da quelli negativi.

Date le difficoltà attuali, secondo lei la NATO può giocare un ruolo da protagonista anche per affrontare emergenze simili e rafforzare il coordinamento tra alleati?

Mi pare evidente che la maniera in cui la NATO guardava ai – e si preparava ad affrontare i –  pericoli derivanti da quella che una volta si chiamava guerra batteriologica deve oggi, non dico essere abbandonata, ma certamente modificata. È necessario sviluppare un modo diverso di pensare ad una crisi batteriologica, ad una pandemia, che non sia necessariamente frutto della volontà e azione di Paesi avversari dell’Alleanza di scatenare un confronto utilizzando agenti virali come strumenti di guerra, ma che potrebbe essere sfruttata in vario modo a proprio vantaggio da quei Paesi, divenendo un nuovo campo di confronto, il terreno di scontro tra blocchi diversi, tra la NATO e i suoi avversari, sia in termini di capacità di gestione della pandemia che di sfruttamento delle condizioni create dalla medesima a fini comunicativi, di esercizio del potere della comunicazione. Abbiamo visto che in parallelo rispetto alla pandemia Covid-19 si è sviluppata infatti quella che è stata definita, e mi pare molto correttamente, un’infodemia: la diffusione incontrollata di informazioni, di dati, fake news, ecc… più o meno attendibili e a volte del tutto inattendibili, creati ad arte, e che a sua volta è diventata un terreno fertile per azioni di manipolazione, disinformazione e propaganda, ovvero per l’esercizio di “soft” e “sharp power”. Ecco allora che la NATO, a mio avviso, dovrebbe prepararsi a combattere in futuro anche su questi fronti; sul fronte, ad esempio, della diffusione di informazioni volutamente erronee a proposito dell’andamento di una certa crisi pandemica, allo scopo di indebolire l’Alleanza medesima in termini di coesione interna, di “tenuta” dei singoli paesi di fronte all’opinione pubblica interna; oppure della capacità di sfruttare la propria e altrui gestione della pandemia a fini di propaganda. Pensiamo a quello che Cinesi e Russi sono stati in grado di fare nella fase iniziale dell’emergenza Covid-19 rispetto all’opinione pubblica del nostro Paese, fornendo aiuti spesso più presunti che reali, ma accreditando e consolidando un’immagine estremamente positiva della propria azione, e pensiamo invece – a contrario – al ritardo o alla scarsa capacità comunicativa con cui hanno reagito a tali azioni i Paesi alleati, a iniziare dagli Stati Uniti. Ritardo che, nello sviluppo della pandemia, è stato poi almeno parzialmente rimediato, ma che è apparso evidente all’inizio della crisi. In sintesi, alcuni di quei Paesi che sono potenziali o reali avversari dell’Alleanza hanno dimostrato una capacità di “gestione” della pandemia in termini di comunicazione, certamente favorita anche dalla presenza di attori interni a loro favorevoli, maggiore e più efficace rispetto a quanto si siano dimostrati in grado di fare i nostri partners, a iniziare dai maggiori.

Con la pandemia alcuni problemi che ci riguardano più da vicino come Italia sembrano essere finiti un po’ nell’ombra. Finita la crisi, secondo lei, quali principali minacce e rischi vede dal punto di vista degli interessi strategici italiani?

Innanzi tutto, la crisi innescata dal Coronavirus non finirà a breve. Non penso tanto o soltanto all’emergenza sanitaria, rispetto alla quale potrebbe verificarsi la paventata seconda ondata, come già pare stia avvenendo in alcuni Paesi, ma al problema sostanziale rappresentato dalle conseguenze economiche e sociali che derivano da quanto è successo e sta ancora accadendo. Ovvero, se il Prodotto Interno Lordo italiano crollerà, come è prevedibile e previsto, tra un minimo dell’8-9% su base annua ad un massimo del 13-14%, stando almeno a quelle che sono le stime attuali di varie fonti, è chiaro che ciò determinerà conseguenze prima economiche e poi sociali potenzialmente dirompenti. La crisi è destinata perciò a durare e, presumibilmente, ad intensificarsi, soprattutto a partire dai mesi autunnali. Ci attende, è facile prevederlo,  un autunno caldo. Detto questo, la crisi presente e futura si è semplicemente innestata, per quanto riguarda ciò che ci interessa in questa sede, su quello che è il problema centrale della politica estera e di sicurezza italiana, relativo alla definizione e tutela degli interessi nazionali, problema che non nasce certamente con la crisi, che si trascina invece oramai da decenni e di fronte al quale il Paese, fino ad oggi, mi pare abbia fatto ben poco. È palese che, a partire almeno dalla fine degli anni Novanta, il ruolo e la rilevanza internazionale dell’Italia sono venuti progressivamente calando. Il nostro Paese ha finito con l’essere spesso progressivamente marginalizzato da teatri che una volta erano, se non “il cortile di casa”, certamente aree nelle quali l’Italia aveva un peso specifico e poteva esercitare un’azione di rilievo. Penso alla Libia o alla Somalia. Su questo stato oggettivo delle cose si innesta la crisi presente, che peraltro dimostra la continua presenza dei tradizionali difetti del presunto, più che reale, sistema-paese italiano: scarso coordinamento tra le autorità centrali e locali, inefficienze amministrative, ritardi, errori di comunicazione, scarsa coesione nazionale (dove per coesione nazionale non intendo far riferimento alla reazione popolare, quanto a quella della classe politica e di governo, di fronte alla crisi di turno). In altri e più sintetici termini, poca è la capacità del sistema-paese di agire efficacemente e rapidamente in difesa degli interessi nazionali, ammesso e non concesso che i medesimi siano preventivamente e con chiarezza definiti. Tutto ciò potrebbe produrre conseguenze disastrose, anche a breve termine,  non solo se e quando ci trovassimo a dover di gestire la radicalizzazione della crisi, ma anche quando si tratterà di impiegare quel vero, poderoso flusso di denaro che già è stato stanziato dalle istituzioni europee per far fronte agli effetti della crisi. Se nella gestione di questo flusso non verrà seguito un chiaro progetto strategico nazionale, con obbiettivi ben definiti, temo che quei denari non produrranno alcun effetto significativo sul possibile rilancio del Paese e la sua capacità di far fronte a nuove crisi del genere di quella sperimentata. In tal caso credo ci attenderanno anni molto difficili.


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