Un solo nome, tante differenze: le varianti del Covid-19

Quanto sono pericolose e come si sviluppano le varianti del Covid-19? E quali sono a oggi le più diffuse? Ne parla Lorenzo Coppolino in questa analisi

La lotta senza esclusione di colpi alla pandemia globale da SARS-CoV-2 prosegue registrando progressi significativi sul piano della gestione della crisi sia da un punto di vista sanitario che da un punto di vista politico. La campagna vaccinale è stata avviata e gli stati hanno iniziato a prendere le misure al virus contemperando le esigenze di Salute Pubblica con quelle economiche e sociali, sebbene già dagli ultimi mesi del 2020 i ricercatori abbiano potuto notare che il covid-19 riserva ancora qualche asso nella manica. E’ notizia recente infatti che sono presenti ad oggi almeno tre “varianti” del virus, ribattezzate variante inglese (VOC 2020212/01), variante sudafricana (501 Y.V2) e variante brasiliana (P.1), le quali hanno portato scienziati e decisori politici ad alzare ulteriormente il livello di guardia.

Prima di entrare nel merito delle specifiche caratteristiche delle tre varianti prese in esame, è doveroso precisare che è perfettamente normale che un virus muti e che lo stesso SARS-CoV-2 ha subito altre mutazioni oltre alle tre sopraindicate. Tutti gli esseri viventi tendono ad adattarsi all’ambiente circostante al fine di sopravvivere o vivere meglio e nemmeno i virus sfuggono a questa legge naturale. Anzi, essendo i virus delle entità biologiche che per replicarsi hanno necessariamente bisogno delle cellule di organismi viventi, il loro “spirito di adattamento” è giocoforza particolarmente rapido. Il virus, essere sulla soglia tra il mondo vivente e non vivente, risponde pertanto a una semplice regola: replicarsi il più possibile per sopravvivere e a far da corollario a questa necessità ci sono la capacità di resistere all’interno di un organismo e la capacità di passare da un organismo all’altro (trasmissibilità).

Inoltre, non tutti i virus mutano nello stesso modo, alcuni per esempio mutano in continuazione (es. HIV), altri invece in modo molto più lento e bisogna dire che i coronavirus, fortunatamente, fanno parte di questa seconda categoria. Nel caso del SARS-CoV-2, in particolare, la maggior parte delle mutazioni riguardano la proteina spike, cioè quelle “protuberanze” sul pericapside che danno ai coronavirus la loro caratteristica forma. Secondo i vari studi effettuati sulle mutazioni infine, ciò che sembra emergere non è tanto una maggior patogenicità ma una maggior capacità del virus di infettare le cellule dei polmoni e del tratto respiratorio con conseguenze rilevanti soprattutto sull’indice di trasmissibilità dello stesso.

Come detto in precedenza, le mutazioni del SARS-CoV-2 sono state varie, e oltre alle tre che verranno approfondite in seguito è opportuno menzionare la cosiddetta variante danese (cluster 5), trasmessa dai visoni all’uomo e presumibilmente estinta grazie alle stringenti misure di contenimento e, purtroppo, alla soppressione di milioni di visoni e la variante spagnola (20A.EU1), che in breve tempo è diventata una delle più diffuse in tutta Europa.

Fra le tre mutazioni in esame, la più risalente è la cosiddetta variante inglese, isolata per la prima volta nel settembre 2020 in Gran Bretagna e attestata ufficialmente in Europa il 9 novembre 2020, con la rilevazione del primo caso. Questa mutazione ha avuto anche particolare rilevanza mediatica in quanto la sua diffusione ha coinciso con le approvazioni del vaccino  di Biontech e Pfizer da parte della European Medicines Agency (avvenuta il 21 dicembre scorso) facendo sorgere più di un dubbio sulla copertura vaccinale nei confronti delle modifiche del virus. La questione relativa alla copertura vaccinale è ancora aperta, sebbene la maggior parte degli esperti abbia riferito che evidenze empiriche sull’inefficacia del vaccino contro questa variante non si siano ancora verificate.  Secondo quanto riportato dalla European Control Disease Center (ECDC) è invece emersa una trasmissibilità molto più alta (fino al 70% in più) di questo virus rispetto all’originario SARS-CoV-2 pur non registrandosi livelli maggiori mortalità. E’ stata inoltre recentemente smentita dall’Istituto Superiore di Sanità l’ipotesi che la variante inglese avesse come target principale specifico i bambini. L’ISS infatti ha dichiarato che la maggior trasmissibilità del virus ha causato un incremento dei casi in tutte le fasce d’età, e non specificatamente in una di esse. Inoltre, sempre secondo l’ISS, la variante inglese è presente in circa il 20% dei casi di covid-19 in Italia, nel 20-25% dei casi in Francia e nel 30% dei casi in Germania e, data la sua alta trasmissibilità, è molto probabile che possa diventare la più diffusa. Attualmente è presente in oltre 70 paesi e proseguono gli studi per cercare di comprendere maggiormente le sue specifiche rispetto al ceppo originario.

Isolata per la prima volta in Sud Africa nell’ottobre 2020 e rilevata per la prima volta in Europa il 28 dicembre scorso, la cosiddetta variante sudafricana rappresenta un’incognita non solo per l’elevato indice di trasmissibilità, ma soprattutto per quanto concerne la copertura vaccinale.  Nonostante non sia ancora una evidenza provata – la ricerca della “Università del Witwatersrand” di Johannesburg deve essere ancora sottoposta a una peer review – pare che dai test sin qui svolti il vaccino prodotto da Oxford/AstraZeneca sarebbe efficace solo al 22% sui casi di contagio lieve o moderato. Da quanto risulta, inoltre, la ricerca sarebbe però basata solamente su un campione di 42 casi covid-19 su 1765 volontari e non sarebbe in grado di indicare quale sia la copertura del vaccino nei casi più gravi. Tuttavia, nel frattempo, il governo sudafricano ha precauzionalmente disposto la sospensione della somministrazione del vaccino Oxford/AstraZeneca e ha annunciato che verranno compiute nuove procedure di valutazione sull’efficacia dei vari vaccini approntati per proteggere dal covid-19. Il Sud Africa, dall’inizio della pandemia, ha avuto quasi un  milione e mezzo di casi e circa 48000 decessi.

La variante brasiliana (P.1), meno comunemente nota anche come variante giapponese in quanto riscontrata per la prima volta il 6 gennaio scorso in quattro persone di ritorno a Tokyo dopo un soggiorno in Brasile, presenta, da prime analisi, una peculiare abilità nello “sfuggire” al sistema immunitario. La difficoltà per il sistema immunitario nel riconoscere questa variante e, quindi, nel combatterla è data ancora una volta dalle modifiche (in questo caso ben 10) della sua proteina spike che tuttavia non sembrano incidere né sulla pericolosità del virus, né sulla sintomatologia, limitandosi a potenziarne la trasmissibilità, esattamente come nelle altre due varianti sopracitate. Il Brasile, che è uno dei paesi maggiormente piagati dalla pandemia con 9 milioni e 70000 casi e oltre 236000 decessi, ha dovuto quindi affrontare un’emergenza nell’emergenza che si è presentata prima nell’area di Manaus per poi diffondersi in tutto il Brasile sino a varcare i confini nazionali e a diffondersi, anch’essa, in altri paesi.

Al momento, i dati sulle tre varianti esaminate non sono completi; ricordiamo infatti che sin dalle origini della pandemia da SARS-CoV-2 gli esperti si trovano a dover fronteggiare un campo di studi decisamente diverso da quanto affrontato in passato e, senza timore di essere smentito, senza precedenti per portata ed effetti non solo sanitari. E’ tuttavia probabile (e auspicabile) che con il trascorrere del tempo e con l’intensificazione delle ricerche si riescano ad ottenere maggiori informazioni sulle diverse varianti e si possano trarre conseguenze più articolate e solide rispetto a quelle che si hanno finora. In conclusione, ad oggi, dagli accertamenti effettuati dalla European Medicines Agency, sembra che i vaccini sviluppati da Pfizer e Moderna (a RNA messaggero) siano “altamente efficaci contro le nuove varianti del virus”. Per quanto riguarda il vaccino sviluppato da Oxford-AstraZeneca, la situazione appare essere diversa ma tutt’altro che deficitaria. Questo vaccino utilizza un metodo diverso per attivare la risposta immunitaria dell’organismo alla proteina spike, agendo in maniera simile a quanto fatto per il vaccino anti-ebola. Per sintetizzare la proteina spike di SARS-CoV-2 infatti ci si serve di una versione modificata dell’adenovirus dello scimpanzé, il quale funge da “messaggero” per fornire al corpo umano le istruzioni di cui necessita per elaborare le difese. Anche sul vaccino Oxford-AstraZeneca la European Medicines Agency ha dato parere favorevole e l’Agenzia Italiana del Farmaco lo ha definito uno strumento valido per il contrasto alla pandemia in atto. In ogni caso, il colosso farmaceutico ha dichiarato che proseguono le operazioni di perfezionamento e aggiornamento del vaccino per incrementarne ulteriormente l’efficacia (sin qui del 60%) e per rispondere alle mutazioni del virus, che abbiamo visto essere allo stesso tempo “normali” e imprevedibili.

Lorenzo Coppolino


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