PANDEMIA, MUTAMENTO E COMPLESSITÀ: IL VIRUS DELLA CRISI DOPO LA CRISI DEL VIRUS

La pandemia di COVID19 e il suo impatto sulla nostra società: dall’emergenza sanitaria alla crisi “sistemica”? L’analisi di Arije Antinori Phd.

CRISI SISTEMICA

Ad un anno dalla diffusione dell’epidemia COVID-19, la cosa certa è il deficit di conoscenza riguardo al virus. In questi lunghi mesi, l’epidemia ha determinato uno scenario del tutto nuovo, estremamente mutevole e segmentato. Siamo passati, quindi, dal riduzionismo iniziale, all’emergenza sanitaria, alla dichiarazione di pandemia, poi la disinformazione e il negazionismo, la geopolitica delle mascherine, il confinamento obbligato, la triste comunicazione “ritualizzata” del computo delle vittime, il “rally ‘round the flag”; e ancora, l’infodemia, la tecnologizzazione improvvisata attraverso il fallimento del tracciamento digitale, la condivisione e cooperazione internazionale nella ricerca scientifica, l’altalena cromatica apertura/chiusura, i regionalismi, la crisi economica, quella politica, il coprifuoco, la competizione per l’accaparramento delle dosi di vaccino, la disastrosa comunicazione politica, il centralismo vaccinale europeo, i cospirazionismi no-vax, il crollo del mercato del lavoro, l’evolversi del fronte “no-trust”, le proteste, la disperazione, gli estremismi, le manifestazioni violente, i cortei pacifici, la roulette della scuola e infine i piani vaccinali.

La redazione di questo esteso elenco è volta proprio a evidenziare, in primis, che quella che stiamo affrontando non possa esser più definita un’emergenza, ma una crisi, per di più non una crisi sanitaria, ma una crisi sistemica, della complessità, o meglio, una crisi dovuta all’incapacità diffusa – non soltanto nel nostro Paese – di saper governare la complessità, se non addirittura di non comprenderne le specificità.

Il tessuto sociale è stato sottoposto ad uno stress mai conosciuto prima. La metafora della guerra associata all’epidemia porta con sé la narrazione dell’”uscita” attraverso la vittoria o la sconfitta, ma questo significa non fare i conti con la responsabilità della mancata pianificazione e soprattutto “schiacciare” la complessità in una facile linearità, forse rassicurante nel breve termine, ma irreale e controproducente in termini di (ri-)fondazione sulla base della consapevolezza delle vulnerabilità di sistema. In tale prospettiva, ciò che dobbiamo assolutamente comprendere è che la probabile vicina uscita dalla crisi pandemica non determinerà la contestuale uscita da quella sistemica, fintanto che non dimostreremo di essere in grado quantomeno di mitigarne gli effetti distruttivi e governarne la complessità.

È emerso significativamente quanto il tempo della scienza non sia il tempo della politica, dell’uomo della strada, con il conseguente innesco di cortocircuiti interpretativi e di un onnipresente caos informazionale di cui continuiamo a vivere le conseguenze, dalle fake news alle fake hopes, anche in termini di tensioni sociali. Se non “curiamo” la comunicazione e l’informazione, se non ne abbiamo cura, non curiamo la pandemia, quindi la crisi.

COMPLESSITÀ E MUTAMENTO

Riguardo a ciò, pur lodando l’abnegazione e il sacrificio di tutti coloro che hanno contribuito – talvolta con la propria vita – all’assistenza, al sostegno, alla cura e salvezza di tante vite umane nel corso della pandemia, è necessario (ri-)pensare la sanità con una visione e programmazione sistemiche, una gestione strategica, prevenzione e anticipazione. Anche perché ci si prepara all’emergenza prima della stessa, attraverso la conoscenza, lo studio, la ricerca e l’allocazione delle risorse necessarie. Appare evidente, quindi, che la gestione della complessità di questa crisi necessiti un mutamento prospettico di lungo termine. Dobbiamo agire con la consapevolezza che non siamo lungo la strada per uscire da qualcosa, bensì stiamo entrando in una nuova era, quella della “complessità reale”, caratterizzata tanto a livello nazionale quanto globale, dalla crisi dei modelli economico-finanziari, dallo sviluppo nella direzione di una transizione ecologica fattivamente sostenibile, dalla rivoluzione e mutamento tecnosociale identitario, dalle ineguaglianze e dal conflitto sociale.

Quindi, la domanda non è cosa ci resterà di questi giorni, ma cosa stiamo dinamicamente imparando, in un contesto in trasformazione. In tale contesto, per poter fornire un’immagine coerente della crisi, i dati pandemici devono essere letti in modo integrato al macro-sistema sociale di riferimento e ai suoi sottosistemi. Abbiamo vissuto il “confinamento” che è stato definito il più grande esperimento sociale della storia. Ci siamo trovati a proiettare la nostra coscienza oltre i confini digitali, ma chiusi nelle nostre case – per chi ha avuto il privilegio di averne una in cui trovare riparo -, sorvegliati, protetti, al riparo dalla minaccia. Il virus ha immediatamente mutato la forma liquida della nostra modernità, cristallizzando, solidificando le nostre paure nel paradosso della minaccia invisibile, in un mondo in cui esiste solo ciò che si vede, anzi che può essere mediatizzato e condiviso nell’esperienza (cyber-)sociale.

Questo tempo sospeso ha irrotto l’incessante (s-)correre del progresso, ed il silenzio dello spazio vuoto, disabitato, delle nostre città – oggi ancora dopo le 22:00 -, raggiunto dai soli sguardi distanziati, ma non distanti, ha aperto le porte al futuro incerto in cui ormai salute, sicurezza e sviluppo saranno imprescindibilmente vincolati tra di loro. È emersa l’atavica consapevolezza del limite con il suo corredo imponente di ansia, sempre più sociale e culturale, nella complessità dell’interconnessione globale. Il mutamento radicale determinato dalla pandemia ha presto “cementato” la nostra esistenza liquida, innescando azioni, reazioni e generando impatti inaspettati e straordinari – in quanto fuori dall’ordine delle routine quotidiane pre-Covid -, anzi sarebbe più opportuno dire, fuori dal disordine che caratterizzava molte delle dimensioni della nostra vita, per stabilire l’ordine – per decreto – volto a contenere repentinamente, e poi pian piano in una calma quasi piatta, l’effervescenza sociale naturale delle nostre caotiche città. La solitudine iperconnessa nella compulsività relazionale (cyber-)sociale ha fatto sì che ci rendessimo conto di quanto fosse se non altro illusoria la sensazione di controllo che ha sempre caratterizzato la complessità delle nostre vite. La burocratizzazione dei processi decisionali ordinari e l’empasse attuativa hanno progressivamente de-funzionalizzato e ampiamente de-potenziato la gestione sistemica, tanto nella normalità ordinaria quanto soprattutto nella straordinarietà dello scenario attuale. Tutto ciò ha radicato la compresenza schizofrenica e diacronica di sistemi rigidamente discendenti all’interno della complessità reticolare. L’eccessiva dipendenza strutturale dai modelli economico-finanziari, ha posto in secondo piano l’architettura socio-culturale del nostro Paese, non tenendo così conto degli impatti psicosociali determinabili in una condizione come quella che da un anno ci troviamo a vivere. Il confinamento prima, il sistema a zone poi, l’”immunizzazione democratica”, sono il conseguente risultato dell’assenza di lungo termine di pianificazione strategica e di gestione sistemica della salute pubblica nella complessità. Di sicuro qualcosa che non origina nel presente, ma che anzi ha le sue radici in decenni di mancata interpretazione sistemica, analisi dinamica, previsione, programmazione strategica e controllo ad ogni  livello. Se non altro oggi si parla di mutamento sociale di cui il virus risulta essere un acceleratore, non un cigno nero – per gli appassionati di scenario planning e foresighting – semmai una wildcard.

COMUNITÀ E FUTURO

Stiamo vivendo una sorta di “annullamento sociale” che viene evocato e trova legittimazione sulla base delle responsabilità individuali, di ciascuno di noi, in una condizione di tutela della salute dell’intera comunità, soprattutto in relazione alla condizione dei soggetti più fragili e/o a rischio. Questa crisi ci sta insegnando ad abitare il limite. Abbiamo, quindi, (ri-)scoperto la fragilità umana, personale, collettiva, sociale. Dobbiamo ripensare le politiche sanitarie in modo che il sistema sia pronto a far fronte alle emergenze, senza dimenticare la centralità delle malattie croniche e della prevenzione, in considerazione delle caratteristiche della popolazione italiana. La dimensione reale e simbolica di quanto stiamo “condivivendo” nello spazio-tempo della crisi ha un carattere rivoluzionario, in quanto determina profonde trasformazioni rinnovatrici ed al contempo apporta radicali rinnovamenti. Ci ripetiamo che il futuro deve essere rivisto alla luce di quella che è stata sin dal primo momento definita “nuova normalità”. Ma, nella complessità, il presente è al contempo futuro perché le scelte che compiamo oggi generano e continuano a generare nel tempo degli impatti, non solo sul macrosistema, ma ad ogni livello dell’esistente. Occorre (ri-)fondare la complessità dell’intera architettura di sistema sulla de-burocratizzazione dei processi gestionali e decisionali imprescindibilmente connessi a funzioni e processi di responsabilizzazione, elaborati sulla base della conoscenza/valutazione del rischio, che finalmente non eliminino dal dibattito pubblico il tema – sempre più taboo – della morte, per lo sviluppo di concrete proiezioni strategiche nel futuro. Sarà importante trasformare anche quella che può essere percepita dalla popolazione come regressione, in un nuovo cammino in cui l’orizzonte, della visione transgenerazionale condivisa, sia ben indicato.

In Occidente, la luce digitale ha sostituito il “blu catodico”, sconfiggendo il buio, paura ancestrale ed elemento di confine sin dalla tenera età nel percorso evolutivo di ognuno di noi. Il buio è anche oblio, morte che non si consuma – ma ci consuma – quindi non esiste. Non possiamo, allora, non sentirci profondamente smarriti quando, bruscamente emergiamo dall’immortalità iper-visuale della quotidianità, per scoprire d’un tratto che il nostro nuovo buio esistenziale ha il colore dell’invisibile, una minaccia incombente, pervasiva, costantemente presente che ci costringe ad allontanarci, isolarci, alienarci dagli altri e dalla quotidianità ordinaria, staccandoci come vagoni da una motrice in piena corsa, scoprendo gli effetti perturbanti di un’inerzia repentina alla scoperta della nostra fragile esistenza, di ognuno di noi. Questa crisi ci fa comprendere, inoltre, come la tecnologizzazione dei processi, della conoscenza, tanto in ambito sanitario quanto in ambito politico, necessiti di una (re-)umanizzazione della medicina: ponendo al centro del sistema sanitario il rapporto curante/curato e, in ambito politico, quello tra governante/governato. Il trust, la fiducia, deve essere fortificata, protetta.

Di quale futuro stiamo parlando? Del futuro che avevamo “smarrito” perché accecati dall’individualismo iper-tecnologizzazione del presente, intenti a (ri-)specchiarci ossessivamente nel limbo del rito “selfistico” adulatorio, nella viscosità sociomediale non più liquida, dell’esperienza quotidiana? Alla luce della crisi che stiamo vivendo, il futuro deve essere (ri-)pensato, immaginato, desiderato, cercato e costruito da subito e con ostinazione da una comunità coesa di uomini e donne che non abitano transitoriamente, ma che vivono compiutamente il nostro Paese. Forse l’abbandono del concetto di “abitante” consente di comprendere in modo più profondo che non siamo pendolari dell’esistente, ma ne siamo materia costitutiva, parte integrante di un tanto complesso quanto meraviglioso ecosistema che ci limitiamo, nel nostro agire meccanico e routinario, a veder scorrere.

Comprendere la complessità significa comprendere lo scenario delle interdipenze tra crisi sanitaria, economica, ecologica, cambiamento climatico e migrazioni. Nel (ri-)fondare la complessità – anche e finalmente senza pudore alcuno, a seguito dell’esplicitazione puntuale dell’interesse nazionale – bisognerà tener conto che siamo prossimi ad affrontare “non” una recessione mondiale, come la recente crisi economico-finanziaria, da cui uscire dopo un transito tanto burrascoso quanto doloroso, lavorando per ripristinare l’assetto ordinario. Dobbiamo, invece, prepararci a (ri-)pensare, progettare governare uno scenario di lungo termine in cui strutturare il nostro presente-futuro, senza ostinatamente tentare di ripristinare ciò che era prima del virus. Quando un sistema muta, occorre generare virtuosità adattiva secondo prospettive di lungo termine adeguate alla portata trasformativa della crisi. Sia chiaro, questa non è una catastrofe, perché non stiamo vivendo alcun esito imprevisto e doloroso. L’epidemiologia ci insegna che tali fenomeni si possono verificare e, proprio per questo, da anni sarebbe stato opportuno investire responsabilmente nella ricerca, nella conoscenza.

GLOBALIZZAZIONE E COMPETIZIONE

Le disuguaglianze non solo economiche, ma anche sociali e culturali, si acuiranno dando vita ad inediti fenomeni di marginalizzazione. Tali fenomeni cresceranno, ridefinendo la geografia umana sul territorio. Per questo, occorre ripensare il modello organizzativo gestionale delle città attraverso la conoscenza profonda, capillare, del tessuto socio-economico e culturale del nostro Paese, già lacerato. Ciò tenendo conto dell’elevata vulnerabilità, contestuale e sistemica, della realtà produttiva iper-frammentata, già in “affaticamento da globalizzazione”. Il disorientamento collettivo associato al disagio individualizzato, entrambi favoriti dalla crisi, producono mutamento, attraverso la modificazione delle forme sociali. La capacità di creare comunità e società passa inevitabilmente per la strutturazione ed aggregazione dei legami deboli.

Occorre prepararci da subito ad una nuova socialità diversa da quella che stiamo vivendo. Tuttavia, l’osservazione profonda dei comportamenti adattivi, dei segnali di disagio, delle nuove forme di devianza e criminalità, determinati dal mutamento sociale repentino, diviene cruciale per definire non solo la priorità degli interventi necessari ma, in primis, per riposizionare l’analisi della complessità sociale, sia a livello di macro- che micro-sistema. Il nostro Paese deve riconoscersi, tanto nella comunità quanto in ogni elemento dell’architettura del sistema istituzionale, per potersi (ri-)scoprire nella complessità, altrimenti darà vita ad un ecosistema (cyber-)sociale ansiogeno e profondamente individualizzato. Da qui la necessità di immaginare modelli altri per uscire dall’ingabbiamento illusorio della riparazione, del recupero della normalità, del ripristino del modello pre-pandemico, così rifondando i modelli di business per rispondere al mutamento in essere ed alle sfide che questo comporta, attivando la trasmissione culturale transgenerazionale attraverso il progetto di comunità nel futuro. Questa operazione non deve limitarsi alle cosiddette eccellenze, ma “contaminare” orizzontalmente tutti gli attori nella circolarità economia-cultura-società-politica.

Investire sulla ricerca, sulla conoscenza è un dovere in uno scenario d’incertezza. Dobbiamo quanto prima avviare un percorso di (ri-)strutturazione, una nuova strutturazione, tanto a livello personale quanto socio-relazionale e collettivo, comprendendo che gli impatti della crisi che si propagano all’interno del macro-sistema complesso e globalizzato hanno ed avranno una portata trasformativa sempre più vasta, tale inoltre da segnare una profonda cesura con il passato, con il mondo pre-Covid. Poiché la crisi non condurrà alla fine della globalizzazione, mai come ora, siamo chiamati ad individuare un orizzonte temporale e degli obiettivi italiani all’interno del macrosistema globale, cui aspirare. A livello geopolitico, l’egemonia tecnologica, o ancor meglio tecno-sociale, sancisce la leadership globale, ridefinendo prima i concetti di sovranità, ormai riconducibile alla capacità di attuare modelli di governo fondanti sulla proprietà dei dati, sui sistemi di Big Data, sull’implementazione di tecnologia AI-based. In tal senso, purtroppo abbiamo fin troppo evidenziato l’inconsistenza in estrema sintesi del nostro sistema di rilevazione, conoscenza e gestione del dato. Ma tutto ciò diviene cruciale nel momento in cui parliamo di sviluppo economico e transizione ecologica che deve essere nel Mediterraneo, soprattutto in considerazione dell’avvento massivo delle migrazioni climatiche. Inoltre, ricordando che l’identità è un fatto sociale, al fine di avviare una fattiva transizione verso un modello ecologico tecnologicamente integrato, sostenibile e produttivo, risulta necessario favorire, sviluppare e prima di tutto “coltivare” – a partire dalle scuole – una profonda e coerente identità ecoculturale.

NUOVE GENERAZIONI

L’istruzione, ad ogni livello, deve essere posta al centro della strategia di (ri-)fondazione sistemica, in quanto attività produttiva indispensabile poiché produce ricchezza per il presente e per il futuro, non solo in quanto conoscenza, ma soprattutto poiché trasmette i valori della Repubblica. Pertanto, dobbiamo sostenere con ogni risorsa possibile le nostre studentesse ed i nostri studenti, e aumentare la lotta alla dispersione e l’abbandono scolastico che nel nostro Paese presentano livelli inaccettabili per una potenza che intende essere competitiva nel mondo globalizzato, soprattutto in quello post-Covid.

Far questo significa costruire su basi solide il futuro, attraverso un patto di fiducia reciproca in grado di alleviare il peso delle fatiche che ci aspettano e (ri-)generare il senso di appartenenza alla comunità per mezzo della conoscenza, il sapere, la ricerca, quindi con la consapevolezza di essere capaci artefici del nostro futuro insieme. Occorre introdurre nuovi modelli di istruzione, di formazione ibrida, anche andando oltre i recinti disciplinari, tenendo presente che dobbiamo sostenere fortemente i giovani in un sistema globalizzato, già estremamente competitivo, ove vedranno ridotte le proprie risorse in termini di istruzione ed aspettative. Ciò senza dimenticare la rilevanza demografica pre-Covid del fenomeno NEET destinato a crescere, nonché l’elevata criticità che possono riscontrare, in tale scenario, specifiche generazioni quali i giovani della cosiddetta Generazione Z, cresciuti durante la recessione e divenuti adulti nel bel mezzo dell’attuale crisi. Inoltre, dovremo osservare nel tempo la correlazione tra sofferenza psichica individuale, nella sollecitazione delle emozioni primarie, tristezza, paura, ansia e rabbia, e le trasformazioni del legame sociale, in un contesto caratterizzato al contempo da insicurezza sociale, fragilità individuale, sociale e generazionale. Considerando, quindi, il benessere come il funzionamento psicologico, cognitivo, sociale e fisico nonché le possibilità di vivere una vita felice e appagante, rischiamo di trovarci dinnanzi ad una generazione interrotta, fratturata.

Occorre riflettere sulla spaccatura esistenziale che crescerà, soprattutto nei soggetti oggi più giovani, tra la crescente centralità dell’esperienza (cyber-)sociale e la concreta scarsità di risorse “materialmente” primarie. Più riusciremo ad assorbire, metabolizzare le tensioni, contestualmente rafforzando il vincolo di fiducia con le istituzioni, e meno spazio lasceremo ad un sommerso tumultuoso che può trovare nell’ecosistema (cyber-)sociale il suo naturale ambito di proiezione attraverso narrazioni dell’odio più o meno organizzate. Tali narrazioni sono in grado di favorire nuove direttrici di radicalizzazione soprattutto nei giovani “sospesi” nell’atemporalità dell’incertezza e insicurezza online. Questo può determinare la sedimentazione di profonde frustrazioni e la “collettivizzazione” della rabbia antisociale anche in forme organizzate di conflitto. Insomma, se in questo anno abbiamo dovuto domare l’incendio pandemico, sarà altrettanto cruciale prepararsi subito a gestirne l’ardore delle braci.

CONNESSIONE E POLITICA

La (cyber-)socialità, nella crisi diviene atipica nel senso di essere mantenuta in piedi da un’enorme impalcatura relazionale temporanea, straordinaria, talvolta precaria. Non a caso ci stiamo servendo dell’infrastruttura digitale giorno dopo giorno, in modo sempre più funzionale, supplente. Ciò perché abbiamo perso l’elemento centrale dello sviluppo ecosistemico contemporaneo, la mobilità e il nomadismo ordinario. Tuttavia, la sovraesposizione informativa nell’ecosistema (cyber-)sociale può in taluni casi alterare la percezione della realtà e minare la capacità di valutazione critica.

Il turbamento, l’incertezza e l’ansia, devono essere il motore della creatività, della valorizzare delle importanti risorse culturali, al servizio di un “sistema paese” non più soltanto a parole, ma concretamente in fieri. Dobbiamo cogliere la prospettiva evolutiva di questo mutamento esistenziale, valorizzandone le portanti. Non si può parlare di domani senza pensare ad una concreta (ri-)strutturazione funzionale, sinergica, delle articolazioni dello Stato. Questa crisi, inoltre, sta dimostrando come le ideologie fondate sul primato locale, dal quartiere alla regione, qualunque sia il contesto osservato, che si determinano attraverso risposte fondate sulla semplicità e linearità dell’azione, siano assolutamente fuori dalla dimensione di complessità sistemica dell’esistente.

È ora di “decontaminare” la politica dalle predazioni polarizzanti e socialmente disgreganti della propaganda partitica, non siamo più giocatori d’azzardo al tavolo da gioco delle paure, delle insicurezze, Noi tutti siamo essenza viva, umana, sociale del gioco, siamo il Gioco. Il gioco sociale in cui la condivisione della codifica delle norme, acquisisce un valore identitario nella loro accettazione, in cui risulta indispensabile la funzione al contempo conservativa, di tutela, sicurezza della comunità, e progressista nell’eguaglianza sociale, nella promozione di una vision di futuro-nel-presente, di coesione e prosperità della comunità. Un gioco in cui, oggi, il margine di operabilità delle nostre azioni risulta ridotto dalla cogente crisi globale. Da qui lo scenario post-Covid, la complessità sistemica delle scelte odierne che lo costruiscono istante dopo istante, ha bisogno di risorse che prima di tutto siano intellettuali e sociali chiamate a (ri-)pensare la complessità attraverso la creatività ed il rigore scientifico nell’elaborazione di scenari integrati di breve, medio e lungo termine volti a garantire e rinforzare la tenuta del tessuto connettivo – e mai come oggi, collettivo – sociale, della nostra comunità nel quadro dell’appartenenza, definitivamente accettata, all’interno della comunità globale nel sistema delle interdipendenze, e mai e poi mai nell’alienazione dallo stesso o in mitiche retoriche autarchiche. Una delle cose insegnateci da questa crisi, sin dall’inizio, è che da soli non si può sopravvivere in questo mondo, figuriamoci in quello che si vede all’orizzonte.

Diviene oggi centrale la realizzazione e/o implementazione sostanziale delle unità di ricerca e sviluppo, tanto nel settore privato, quanto nella Pubblica Amministrazione, anche attraverso prospettive di cooperazione pubblico/privato di lungo raggio allineate sulla condivisione delle dinamiche di mutamento sociale nella complessità dello scenario in divenire per mezzo di una nuova ingegnerizzazione dei processi e delle funzioni, anche con l’obiettivo di mitigare la spinta verso le politiche reattive il cui orizzonte temporale appare estremamente limitato. Non si tratta di operare questa o quella scelta che man mano si presenta innanzi a noi, per cui si è costretti a scegliere – quasi ineluttabilmente -, ma di strutturare un disegno strategico secondo una prospettiva sistemica ed integrata secondo una vision di comunità e Paese, per il raggiungimento della quale saremo chiamati a fare delle scelte, ma consapevoli quantomeno di dove vogliamo essere e cosa vogliamo essere nel presente-futuro.

CONFLITTO SOCIALE E SICUREZZA (CYBER-)SOCIALE

I fenomeni di violenza collettiva cui stiamo assistendo non sono un problema di ordine pubblico, ma di fiducia nello Stato, quindi devono trovare una soluzione nella politica, nelle decisioni strategiche. Il prolungamento dell’incertezza, della paura e dell’ansia, nonché l’emergere sempre più diffuso di criticità materiali, possono condurre a fenomeni di discriminazione e “stigmatizzazione sociale” intracomunitaria.

In tempi non pandemici abbiamo osservato più volte come le organizzazioni criminali di tipo mafioso, già ampiamente presenti sul territorio nazionale, si siano contraddistinte per la loro capacità di fungere da “ammortizzatore sociale” e sistema occupazionale, sia nell’economia grigia che in quella nera. I modi operandi criminali, sino ad oggi posti in essere dalla criminalità organizzata e/o dalle mafie, da sempre contraddistintesi per la loro capacità adattiva, in particolare infiltrativa e corruttiva, potranno moltiplicare la loro efficacia in un contesto di maggiore scarsità di risorse e compressione del lavoro. Gli effetti della crisi anche e soprattutto nella post-pandemia, rischiano di lasciare intere aree del nostro Paese nelle mani del “walfare sostitutivo” mafioso, con impatti non solo nel presente, ma nelle nuove generazioni, in termini di sussistenza e trasmissione culturale criminale, nonché il dilagare di subculture disvaloriali.

Solo osservando con attenzione e comprendendo profondamente il mutamento sociale, attraverso l’elaborazione ad hoc di scenari multidimensioni, potremo comprendere e anticipare l’evoluzione deviante e/o criminale dei comportamenti individuali, collettivi e sociali, nonché valutarne gli impatti in termini di sicurezza. Ciò tenendo presente che la sostanziale ridefinizione, dall’inizio della crisi, del concetto stesso di sicurezza, nel quale la salute acquisisce un ruolo centrale, non deve “offuscarne” le altre dimensioni costitutive. Occorre, pertanto, lavorare su nuovi modelli di interdipendenza criminale.

L’ideologizzazione della crisi da parte degli attori del terrorismo e dell’estremismo violento, nello scenario di povertà e conflitto, quindi di elevata vulnerabilità in termini di tenuta della coesione sociale e le lacerazioni del tessuto sociale, consentiranno a questi di poter attingere ad un ampio bacino di preformata antisocialità. Quando l’esistente polverizza la speranza e le condizioni di vita impoveriscono, si tende a proiettare sull’altro e/o altri le proprie frustrazioni che, se incanalate in narrazioni efficaci all’azione, possono dar vita a serie minacce per l’ordine, la sicurezza pubblica e nazionale. In tal senso, dobbiamo prevenire il determinarsi di fenomeni di “guerra sociale”, attraverso l’innesco estensivo del conflitto nelle piazze, come abbiamo potuto ad esempio riscontrare nella Francia pre-Covid con il ripetersi di manifestazioni violente e distruttive. Bisogna far di tutto per “assorbire” politicamente le tensioni e il conflitto sociale latente, evitando qualsiasi dinamica formale/informale di stratificazione, divisione, discriminazione, sociale, disinnescando così reazioni collettive strutturate che possono raccogliere l’interesse della popolazione stremata. Per far ciò, bisogna comprendere la multidimensionalità della sicurezza, ormai inderogabilmente interconnessa al mutamento (cyber-)sociale che essendo dinamico deve essere compreso e governato nel presente, nonché anticipato in prospettiva futura, con rigore scientifico.

La paura per il futuro, può favorire la radicalizzazione di nuovi sentimenti identitari di appartenenza ad entità ostili – di intensità e capacità criminale variabile – del tutto nuove ed ibride, unitamente a dinamiche convergenti tra gli estremismi già esistenti in cui si può determinare la coltivazione (cyber-)sociale non solo tattica, ma di lungo termine, delle percezioni – per fornire rappresentazioni distorte del reale ed innescare comportamenti devianti e/o criminali – anche attraverso prospettive conflittuali di trasformazione e mobilitazione collettiva. In questo momento, occorre governare la disperazione e la rabbia di tutti, contro uno: lo Stato. Dopo le riaperture, ci si accorgerà progressivamente che il mercato del lavoro, il sistema del commercio, dei servizi, non potrà riprendere come un tempo. Quello sarà il momento più duro perché le differenti velocità e prospettive di sopravvivenza, faranno sì che oltre al tutti-contro-lo-Stato, dovremo fronteggiare anche il tutti-contro-tutti, il che porterà ad una destabilizzazione sociale che dobbiamo prevenire oggi.

CONCLUSIONI

Non esiste una strategia, un modo migliore per fronteggiare la crisi, ma esiste il modello multidimensionale che ogni Paese deve sviluppare all’interno della propria complessità, al contempo nazionale e globalizzata. Le scelte che abbiamo operato sin dal tempo zero della crisi, alla luce delle nostre capacità di organizzazione e gestione della complessità. Nel futuro sarà necessario comprendere che strategie di anticipazione e gestione del rischio devono essere implementate e ritenute congiuntamente essenziali. In tal senso, soprattutto in uno scenario di crisi, il concetto di sicurezza non muta soltanto seguendo le variabili economiche, demografiche e geopolitiche, ma occorre tener conto delle interdipendenze trasformative dei sottosistemi sociali. In uno scenario come quello attuale – e a maggior ragione in quello a venire – bisogna tener conto del fatto che ogni “frattura” diviene uno spiraglio d’ingresso per la conduzione di operazioni e/o campagne di interferenza, “contaminazione” e/o disgregazione identitaria, soprattutto di lungo termine. Alla paura del presente dobbiamo sostituire la responsabilità del futuro, preparandoci al contempo a fronteggiare forme sempre più ibride di conflitto asimmetrico. Non è solo questione di golden power, purtroppo. Proprio per questo, in una delle sfide più importanti per il nostro Paese è quella di (ri-)pensare la “partecipazione digitale” che deve passare attraverso un progetto nazionale di capillare alfabetizzazione, educazione e consapevolezza digitale. Finché non faremo questo, saremo facili prede e non, interpreti della complessità, soprattutto nella prospettiva, a livello internazionale, di leadership legate alla capacità di sviluppo AI. Anche per questo, una delle sfide più difficili e importanti è quella contro l’autoconservazione di sistemi disfunzionali ad ogni livello dell’architettura dello Stato. Ciò implica, inoltre, comprendere definitivamente che la cultura dei campanili, della frammentazione, dei localismi, delle conventicole, del primato degli interessi di settore, è già fortemente controproducente nella globalizzazione “ordinaria”;  in un contesto post-pandemico risulta scellerata. Per questo, la responsabilità non solo della politica, ma di tutti noi, è e sarà quella di non promuovere atteggiamenti e condotte divisive, di recuperare e mettere al centro anche delle narrazioni politiche il concetto di comunità per non consentire alla diffidenza, alla sfiducia, alla paura e all’insicurezza di divenire il vero game-changer della nuova normalità.

Tutte le decisioni che abbiamo sin qui preso e che prenderemo nei prossimi giorni, (ri-)disegneranno il nostro Paese per anni, vincolando fortemente le nuove generazioni. Abbiamo un’occasione unica, straordinaria, che, nel bene o nel male, è data a pochi nella storia, quella di (ri-)fondare la complessità, questa volta concretamente tanto a livello locale quanto globale, della nuova normalità dell’esistente che dovrà imprescindibilmente affondare le sue radici sul ricordo e la consapevolezza dell’esperienza umana che stiamo vivendo, delle vittime che stiamo pagando, delle responsabilità di noi tutti, delle nostre scelte, tanto economiche, quanto politiche e sociali. Tale nuovo modus vivendi dovrà essere costruito sulla centralità della conoscenza, delle competenze e delle professionalità in un quadro di gestione sistemica della sicurezza ormai non più riducibile a singole declinazioni, ma inevitabilmente multidimensionale, in cui la salvaguardia e proiezione nel futuro, della comunità, devono essere inalienabili, così come la tutela della sicurezza (cyber-)sociale. In tal senso, più riusciremo metabolizzare le tensioni, in primis attraverso la comunità e il contestuale rafforzamento del vincolo di fiducia con le istituzioni, e meno spazio lasceremo alla frustrazione e alla rabbia che possono trovare nell’ecosistema (cyber-)sociale il loro naturale ambito di gemmazione, attraverso narrazioni dell’odio, sempre più memetico, in grado di favorire nuove direttrici di radicalizzazione violenta, soprattutto tra i giovani “sospesi” nell’atemporalità dell’incertezza e insicurezza digitalizzata.

Arije Antinori, Phd.


Le immagini sono tratte da Internet, valutate di pubblico dominio. Qualora i soggetti o gli autori fossero contrari al loro utilizzo, la redazione si impegna alla loro immediata rimozione previa richiesta all’indirizzo email info@europaatlantica.it

Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *