Epidemie e letteratura. Un racconto attraverso la storia dell’uomo

Viaggio nelle epidemie attraverso la letteratura. Dall’antichità ai giorni nostri come storici, poeti o scrittori hanno descritto le grandi epidemia del loro tempo

L’uomo si confronta da sempre con la malattia e con le epidemie, eventi che al di là della loro portata reale assumono spesso anche un valore metaforico, allegorico o didascalico. Sin dai tempi più antichi, infatti, la malattia è presente nei testi sacri, nella storiografia, nella letteratura e nelle arti figurative. Questo approfondimento vuole effettuare una panoramica sulle epidemie in letteratura mediante una scelta di testi significativi che non ha alcun intento “completista”, ma che è semplice frutto di una selezione effettuata dallo scrivente.

Partendo dai tempi più antichi, è frequente la presenza della pestilenza quale manifestazione della collera di Dio. Ci sono evidenze di ciò già nei poemi omerici e in particolare nell’Iliade, con la peste scagliata dai dardi del Dio Apollo a seguito della supplica del sacerdote troiano Crise.

Nei testi religiosi, le epidemie sono presenti soprattutto nella Bibbia e, in particolare, nell’Antico Testamento. Oltre ad alcuni passi contenuti nel libro dei Numeri quali la pestilenza che colpisce gli ebrei al ritorno degli esploratori da Canaan o dopo la rivolta di Korach, è senz’altro arcinoto il passo del libro dell’Esodo (12, 29-30) dove è riportato che: “Il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame. […] non c’era casa dove non ci fosse un morto!”. E’ la famosa strage dei primogeniti d’Egitto, una delle dieci piaghe che il Signore ha abbattuto sugli egizi e sul faraone che si rifiutava di liberare gli ebrei dalla schiavitù e consentire loro di raggiungere la Terra Promessa. Come detto in precedenza, è comune denominatore di quasi tutta la produzione religiosa arcaica l’identificazione della malattia quale evidenza della furia divina, e tali assonanze sono presenti anche nell’antichissimo pantheon politeistico babilonese, con il malvagio demone Namtar che, secondo le varie interpretazioni, risulta avere tanto una funzione di messaggero di morte quanto di vera e propria emanazione divina della peste.

Un cambiamento di paradigma nella percezione della pestilenza quale castigo divino – che comunque accompagnerà l’immaginario collettivo ancora per diversi secoli – si ha con lo storiografo Tucidide, uno dei principali esponenti della letteratura greca e autore della monumentale opera La Guerra del Peloponneso, accurata e pionieristica ricostruzione del conflitto che ha visto coinvolte Atene e Sparta tra il 431 e il 404 a.C. . In particolare, nel II libro, lo storico originario di Alimunte afferma che questa pestilenza sia partita dall’Etiopia per diffondersi prima in Egitto e in seguito in Grecia attraverso il porto del Pireo. Tucidide, con un rigore storico mai visto sino a quel momento, ne descrive la sintomatologia con l’occhio “privilegiato” di chi l’ha contratta e vi è miracolosamente sopravvissuto. L’epidemia è durata circa quattro anni e avrebbe mietuto 75000 vittime con gli storici che ancora oggi si interrogano se possa essersi trattato di peste bubbonica, tifo o altro. Lo storico greco, oltre agli effetti clinici dell’epidemia non mancherà di denunciarne gli effetti sociali con gli uomini che, vedendo l’appropinquarsi della morte, avrebbero perso completamente ogni forma di rispetto sia verso le leggi sacre che verso quelle degli uomini.

Per comprendere l’enorme risonanza avuta dalla peste di Atene nell’immaginario collettivo, è opportuno far presente che non solo nella letteratura greca successiva (Diodoro Siculo su tutti) ma anche nella letteratura latina questo evento ha avuto grande attenzione, in particolare attraverso le pagine del filosofo epicureo Tito Lucrezio Caro che, nel I secolo a.C., ha scritto il poema filosofico De rerum natura. Quest’opera è stata di fatto riscoperta nel periodo rinascimentale da Poggio Bracciolini che l’avrebbe rinvenuta in un non meglio identificato monastero tedesco.  E’ uno dei testi più interessanti e misteriosi della letteratura latina e ancora oggi il suo autore presenta dei connotati oscuri tant’è che, secondo lo storico Sofronio Eusebio Girolamo, Lucrezio avrebbe scritto il De rerum natura “per intervalla insaniae”, ovvero nei rari momenti di lucidità che i suoi presunti disturbi psichici gli consentivano. L’opera, decisamente scomoda sia per i suoi contemporanei sia per la successiva letteratura tardo-imperiale fortemente influenzata dal cristianesimo, è presumibilmente incompiuta e si conclude proprio con la descrizione della peste di Atene già narrata da Tucidide. Lucrezio ne evidenzia le cause naturali sradicando la concezione di pestilenza quale castigo divino che invece riemergerà prepotentemente nella letteratura successiva.

Tuttavia, anche il mondo romano e bizantino si troveranno ben presto ad affrontare delle gravi epidemie senza dover ricorrere necessariamente a quella di Atene per dare sfogo ai propri impulsi storiografici, letterari e filosofici. Della peste antonina (tra il 165 e il 180) hanno parlato diffusamente gli storici Cassio Dione e, soprattutto, Ammiano Marcellino mentre della devastante peste di Giustiniano (541-544 e con ondate nei due secoli successivi) si è occupato Procopio. Quest’ultima, nonostante non sia famosa come altre grandi epidemie della storia – pur avendo causato, secondo varie stime, dai 50 ai 100 milioni di morti – è in realtà la prima in cui effettivamente si può parlare con cognizione di causa di peste intesa come malattia causata dal batterio yersinia pestis. Rifacendosi a Tucidide, Procopio di Cesarea (490-560)  nella sua monumentale Storia delle guerre racconta da testimone oculare l’epidemia riportando che nella sola Costantinopoli la malattia fosse in grado di uccidere circa 10000 persone al giorno.

Muovendoci in avanti nel tempo, la letteratura è tornata a occuparsi di epidemie e pestilenze in maniera diffusa nel 1300, dove in tutta Europa imperversava la Peste Nera, vista da uno dei più autorevoli scrittori e poeti della storia della letteratura come un flagello inviato “per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione”. Si tratta di una frase estratta dall’introduzione alla prima novella del Decameron, il capolavoro di Giovanni Boccaccio. Il libro, articolato in cento novelle, prende le mosse dall’incontro di un gruppo di giovani (sette donne e tre uomini) che per dieci giorni si rifugiano lontano da Firenze per sfuggire all’epidemia – giunta in città nel 1348 – e si raccontano storie e storielle di vario genere al fine di esorcizzare la vicinanza della morte e di gettare le basi per una nuova società. In questo caso la peste, vissuta in prima persona da Boccaccio quale testimone oculare, è l’espediente per costruire un impianto narrativo che conduce da tutt’altra parte – non certo analizzabile in questa sede – ma è facile comprendere da quella cruda descrizione contenuta nell’introduzione come l’impatto dell’epidemia sia stato devastante tanto per la società e le sue regole quanto per l’autore, che ha visto perire gli amici Giovannino degli Albizzi, Matteo Frescobaldi e Giovanni Villani.

 Successivamente, nonostante l’Europa e il resto del mondo abbiano dovuto fare i conti con nuove ondate di peste, per assistere a un nuovo interesse della letteratura nei confronti delle epidemie bisogna arrivare al XVIII e al XIX secolo, dove sarà addirittura la letteratura a identificare una specifica ondata epidemica diffusasi nel Nord Italia dal 1629 al 1631: la peste manzoniana.  Tale ondata prende il nome da Alessandro Manzoni (1785-1873), scrittore, poeta e drammaturgo nonché figura chiave della letteratura italiana, il quale parlerà abbondantemente della cosiddetta peste del 1630 in due delle sue opere principali, I promessi sposi e Storia della colonna infame. In entrambe la peste, oltre ad essere sapientemente contestualizzata sul piano storico – non dimentichiamo che Manzoni tratta tali eventi circa due secoli dopo – assume un ruolo metaforico, ruolo che verrà riutilizzato, ampliato e riadattato in gran parte della letteratura successiva sino ai giorni nostri. Ne I promessi sposi, Manzoni non indugia sulle componenti macabre né sulla presunta origine divina del castigo, ma pone al centro della sua analisi gli uomini e i loro comportamenti con un occhio decisamente pionieristico, soprattutto alla luce di alcuni comportamenti che si sono potuti ravvisare anche con l’attuale pandemia da covid-19. Manzoni mette in evidenza le responsabilità umane, a ogni livello, ponendo l’attenzione sul malgoverno delle autorità cittadine e sull’ignoranza della popolazione che, anziché prendere coscienza della situazione, preferisce negare l’evidenza lasciandosi andare al pregiudizio e alla superstizione. In particolare, il pregiudizio e la superstizione sono alla base della Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il processo intentato a due presunti untori sulla base di accuse manifestamente infondate provenienti da una popolana di nome Caterina Rosa.

Oltre a Manzoni, bisogna aggiungere che la peste del ‘600 ha ispirato, circa un secolo prima, anche lo scrittore e giornalista britannico Daniel Defoe (1660-1731), già noto per aver scritto Robinson Crusoe. Nel suo Diario dell’anno della peste, pubblicato nel 1722, l’autore racconta l’epidemia di peste che nel 1665 ha colpito Londra servendosi di uno stile diaristico e asciutto, mutuato dal giornalismo, annotando in maniera minuziosa e realistica tutto quello che è accaduto in quell’anno terribile per la città di Londra.

A partire dal XIX secolo inoltre, con la nascita della letteratura gotica, l’epidemia ha iniziato a diventare un topos letterario diffuso e autonomo rispetto al contesto storico di riferimento, spesso anche trasfigurata attraverso la presenza di creature soprannaturali (attinte generalmente dalle leggende popolari quali vampiri e zombi) che diffondono il “contagio”. Magistrali, in tal senso, sono il racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (1841), dove il feudatario Prospero decide di ritirarsi nel suo castello con un migliaio di amici per festeggiare e provare a fuggire, inutilmente, dalla pestilenza che si sta diffondendo nei suoi possedimenti e Dracula di Bram Stoker (1890), in cui il vampirismo altro non è che una sorta di feroce e drammatico contagio.

Da una percezione dell’epidemia quale elemento orrorifico prende poi le mosse gran parte della letteratura horror, fantascientifica e post-apocalittica dal XX secolo sino ai giorni nostri. Molti celebratissimi autori contemporanei hanno legato le loro fortune anche a romanzi che avevano nell’epidemia il motore scatenante della narrazione, basti pensare a L’ombra dello scorpione di Stephen King (1978) e a Il morbo bianco di Frank Herbert (1982), sino ad arrivare a Io sono leggenda di Richard Matheson (1954), dove il vettore della malattia/morte è rappresentato da esseri a metà tra i vampiri e gli zombi, e all’intero filone del medical-thriller, di cui lo statunitense Robin Cook è il maggior esponente con titoli quali Contagio (1987) e Epidemia (1995).

Bisogna precisare però che nel XX secolo la letteratura non si è avvalsa delle epidemie solo come motore narrativo ma anche come forma di riflessione sul dolore e sulle responsabilità individuali e collettive. Tale ruolo si avverte soprattutto ne La peste di Albert Camus (1947) e in Cecità (1995) di Josè Saramago. Nel primo,   in un imprecisato giorno d’aprile dell’anno 194…, nella città algerina di Orano, ancora sotto dominio francese, iniziano inspiegabilmente a morire dei ratti ai quali, dopo poco, inizieranno a fare seguito gli uomini. Camus scandaglia l’animo umano, capace di slanci titanici e di infinite debolezze, mettendolo a nudo di fronte al dolore e alla responsabilità, registrandone le reazioni con chirurgica precisione. Nel secondo invece, lo scrittore portoghese Saramago analizza crudelmente le dinamiche sociali facendo progressivamente diventare ciechi senza motivo gli abitanti di una imprecisata cittadina.

Per concludere, si può dire con chiarezza che le epidemie, intese come eventi reali o immaginari, hanno rappresentato per la letteratura un motore di riflessione, sperimentazione e interesse sin dall’alba dei tempi e anche le presenti contingenze non mancheranno di stimolare la creatività di tanti autori che già si sono affacciati in libreria con molteplici titoli contestualizzati (ad esempio Lockdown di Peter May, Il silenzio di Don DeLillo, Imago Lux di Adriano Angelini Sut) o riguardanti proprio l’attuale pandemia (Virus di Slavoj Zizek, Reality di Giuseppe Genna), augurandoci che quanto prima questa situazione diventi parte del nostro passato e fonte di ispirazione meramente letteraria.      

Lorenzo Coppolino

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