Vi spiego perché Ue e Nato sono destinate a cooperare. Intervista ad Andrea Gilli

Senza la Nato, a inizio anni Cinquanta difficilmente sarebbe stato possibile lanciare il processo di integrazione europea

“La cooperazione tra Nato ed Ue non è solo la strada più conveniente, ma è anche quella più probabile”. A crederlo è Andrea Gilli, ricercatore presso il Nato Defense College di Roma, che in una conversazione analizza il rapporto strategico tra Nato e Ue, alla luce anche delle sfide attuali presentate dal nuovo contesto internazionale.

La Nato è stata creata 70 anni fa principalmente come alleanza politico/militare regionale che aveva come area di riferimento l’Europa e il contenimento dell’Urss. Nello scenario attuale, dopo la fine della Guerra Fredda e l’evoluzione che l’Alleanza Atlantica stessa ha avuto negli ultimi anni, come giudica i rapporti tra Nato e Ue e che prospettive di cooperazione strategica vede?

Per rispondere alla domanda, bisogna probabilmente ragionare su tre piani differenti. I rapporti tra due entità dipendono, fondamentalmente, dalla salute stessa delle medesime e dalla convergenza tra interessi strategici. Finita la Guerra Fredda, la Nato si è allargata, rinnovata e trasformata. Come tutti i processi storici e politici, si può certamente ragionare a livello ipotetico su cosa poteva essere fatto o gestito meglio. Il dato da cui partire è che, a 30 anni dal crollo del Muro di Berlino, l’Alleanza Atlantica è ancora forte e la Nato una chiave fondamentale non solo della sicurezza europea ma anche di quella internazionale. Ricordiamoci gli eminenti studiosi che a metà anni Novanta davano la Nato per morta, le due sponde dell’Atlantico in competizione militare o la placca europea afflitta da guerra e distruzione…

Che grado di solidità ha invece oggi l’Unione europea?

Qui arriviamo al secondo punto. Un aspetto troppo frequentemente ignorato è che l’attuale forza dell’Unione europea deriva dalle basi di sicurezza collettiva imbastite precedentemente dalla Nato. Non sono sicuro che senza la Nato, a inizio anni Cinquanta sarebbe stato possibile lanciare il processo di integrazione europea. Lo dico da studioso di relazioni internazionali, prima che da ricercatore della Nato. Allo stesso tempo, senza l’allargamento della Nato ad Est, quello dell’Unione europea sarebbe stato più difficile. In altre parole, grazie all sicurezza collettiva in Europa, c’è anche una forte Unione europea. Come tutte le epoche storiche, la nostra attraversa alcune importanti sfide. Ma sia l’Alleanza Atlantica (e dunque la Nato) sia l’Unione europea rimangono pilastri solidi.

Questa considerazione ci porta all’ultimo aspetto, i rapporti e le prospettive di cooperazione strategica tra Ue e Nato.

Esattamente. Con due organizzazioni relativamente solide, si può avere solo cooperazione e competizione. A mio modo di vedere, la cooperazione tra Nato ed Ue non è solo la strada più conveniente ma è anche quella più probabile. Partiamo da un dato di fatto, se la Russia, dopo la Crimea, avesse attaccato un Paese membro della Nato e dell’Ue, sarebbe stato un problema enorme anche per l’Unione europea, non solo per la Nato, in quando l’Ue non sarebbe stata in grado di rispondere. Nel corso degli ultimi anni, i Paesi Europei – insieme a Canada e Stati Uniti – hanno messo un tampone sul fianco Est – grazie alla Nato. Senza quel tampone, poteva saltare anche la costruzione europea. D’altronde, solo la Nato forniva e fornisce ancora il quadro e le strutture per un intervento del genere, nel caso specifico l’enhanced forward presence e cosa ci sta accanto (Very High-Readiness Joint Task Force, Force Integration Units, eccetera). Inoltre, Nato ed Ue hanno capacità e competenze differenti, ma complementari e dunque è utile e vantaggioso sfruttarle congiuntamente, dalla mobilità militare, alla lotta alla disinformazione, dalle minacce ibride alle risorse per gli investimenti in ricerca.

In Europa si è molto discusso in questi anni di minacce ibride: ingerenze politiche esterne, pericolo cibernetico, con particolare riferimento anche alla Russia. Come si sono posizionati e si sono mosse Nato e Ue rispetto alla crescente assertività giocata da Mosca su molti teatri, tra cui quello europeo?

Le minacce ibride, incluse le ingerenze politiche esterne e gli attacchi cibernetici fanno parte, a grandi linee, di ciò che gli esperti chiamano “grey zone warfare”, ovvero quel tipo di guerra che, da una parte è politicamente efficace e, dall’altra, essendo condotta sotto il livello militare, solleva dei problemi per chi è attaccato, in quanto una risposta può essere facilmente sproporzionata e dunque in escalation. Se leggiamo la storia della Nato all’inizio degli anni 50, per esempio nell’eccellente e recentissimo Enduring Alliance: A History of Nato and the Postwar Global Order (Cornell University Press) di Timothose Andrews Sayle, scopriamo che queste sfide sono tutt’altro che nuove. Nato ed Ue dunque difficilmente potranno mettere una parola fine alla questione. Hanno però, negli ultimi anni, preso una serie di iniziative complementari che riducono l’efficacia e alzano i costi per attacchi di questo tipo.

La Brexit potrebbe avere ricadute nei rapporti tra Nato e Ue anche alla luce del percorso di costruzione della difesa europea?

Dipende. Molti, all’indomani del referendum sulla Brexit vedevano la costruzione di una federazione europea come oramai più vicina. In realtà, le stesse forze che hanno portato a Brexit offrono resistenza al processo di integrazione europea – almeno a quello più radicale. Non faccio speculazioni sulle politiche o azioni di vari governi. Alcuni dati mi paiono però indiscutibili. Alla luce del peso della sua economia, delle capacità delle sue forze armate e della sua industria militare, il Regno Unito continuerà ad essere un attore di primo piano nella sicurezza europea. Ciò non vuole solo dire difesa e sicurezza, per esempio con il dispiegamento di forze in operazioni Nato, ma anche capacità tecnologiche. La sicurezza europea è e sarà multidimensionale, anche in futuro.

L’attuale situazione in Libia è stata definita da alcuni osservatori un fallimento del multilateralismo europeo, visti gli interessi divergenti nella regione tra molti Paesi dell’Unione. Qual è la sua opinione?

Il libro di Sayles è un ottimo punto di partenza per capire il presente, perché ci ricorda quante delle discussioni e sfide di oggi fossero già presenti 70 anni fa. La mia modesta opinione non è che la Libia mostri il fallimento del multilateralismo, ma piuttosto che l’impianto multilaterale abbia dei limiti naturali. Un po’ come non si può chiedere ad un’auto di volare. Non possiamo pensare infatti che l’impianto multilaterale possa essere il proiettile d’argento per ogni sfida. In Libia si mescola la questione epocale delle migrazioni con l’islamismo, le lotte interne con il controllo delle risorse, lo sviluppo e il terrorismo. Ciò non significa che una soluzione non vada cercata e se la Nato, o un’altra organizzazione, sia quella più adatta probabilmente si vedrà dagli sviluppi in corso.

La Nato ha bisogno di giocare un ruolo globale, visti i cambiamenti dello scenario internazionale? E in caso, anche insieme all’Europa?

La Nato svolge già un ruolo globale. La Nato comprende il Nord Atlantico, ovvero tutta l’Europa, ma anche il Mare del Nord, il Mediterraneo e il Caucaso. Canada e Stati Uniti guardano fino al Pacifico e all’America Latina. Mentre la Nato è attualmente in Afghanistan e in Iraq. A ciò si aggiungono poi i partner della Nato, dal Giappone alla Corea del Sud, dalla Colombia ai Kuwait o Qatar. I core task identificati dal concetto strategico del 2010, inoltre, di fatto già delineano contorni operativi anche all’esterno dei confini dell’Alleanza: difatti si parla di progettare stabilità o fare sicurezza collaborativa con i partner. La questione è se, come e dove, la Nato dovrebbe essere più attiva fuori dai confini europei. Questa è una decisione politico-strategica, che spetta ai Paesi membri.

Quale ruolo sta giocando l’Europa nella competizione internazionale sul tema delle tecnologie, un campo nel quale sono protagonisti Cina e Stati Uniti? E quanto conterà tutto ciò in futuro?

L’Europa, in senso geografico, sta cercando di rimanere al passo – a livello nazionale, Ue o Nato – con sviluppi tecnologici senza precedenti che stanno prendendo piede in giro per il mondo, dall’intelligenza artificiale al quantum computing, dal 5G alle nano tecnologie. Per capire la portata degli eventi, basti dire che i più cauti parlano di quarta rivoluzione industriale, quelli più audaci parlano di seconda era delle macchine, mentre i visionari parlano addirittura di nuova esplosione cambriana o addirittura di era della singolarità. A prescindere da quanto profondo e veloce sarà l’impatto del cambiamento tecnologico, è evidente che questa sia una delle questioni più importanti per il nostro futuro. In Europa, come dicevo, si sta cercando di rimanere al passo. Ma non è facile. Ci sono barriere demografiche: la nostra popolazione invecchia e dunque non solo ci sono meno talenti ma la società è anche meno propensa al cambiamento. Ci sono barriere culturali: a differenza di Cina e Stati Uniti, l’innovazione radicale direi che è meno parte del nostro Dna. Ci sono poi barriere istituzionali: in Europa non esiste quell’ecosistema che ha permesso lo sviluppo della Silicon Valley o la crescita dei quartieri tecnologici cinesi. D’altronde, l’Europa ha faticato a tenere il passo con i computer. È stata sbattuta fuori dal mercato dei telefoni e ora non mi pare posizionata benissimo per competere nell’era dell’intelligenza artificiale. D’altronde, il 90% delle aziende tecnologiche al mondo sono nate fuori dall’Europa. La domanda è se ciò rischi anche di indebolire, in futuro, le sue capacità militari e dunque, quali politiche adottare per non subire questa trasformazione.

Enrico Casini è direttore dell’associazione Europa Atlantica

Giulia Altimari è autrice per Europa Atlantica

Le opinioni espresse da Andrea Gilli sono da considerare come strettamente personali e non riflettono quelle della Nato o del Nato Defense College

Fonte immagini: www.nato.int

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