L’Unione Europea al bivio. Quale ruolo nel mondo contemporaneo?

La necessità di definire un ruolo nuovo dell’Unione Europea nel mondo multipolare dei nostri tempi. Alcune idee per superare la crisi di oggi, che è anche una crisi di progetto, nella speranza di non perdere un’occasione unica

Cosa ci restituiscono le elezioni europee

I risultati delle ultime elezioni europee hanno confermato sostanzialmente molte delle tendenze che i sondaggi precedenti al voto avevano anticipato. Il consenso crescente verso le formazioni populiste e sovraniste non ha avuto l’impatto a lungo ipotizzato, se non in alcuni paesi, comunque significativi, come Francia e Italia. Le forze “euroscettiche” non hanno sfondato e il confronto con i partiti più “europeisti” ha indubbiamente favorito la partecipazione e l’interesse, cresciuti in molti paesi.

Probabilmente la nuova maggioranza, nel Parlamento europeo, potrà organizzarsi intorno ad un accordo, non scontato, tra i due partiti principali, popolari e socialisti, che per la prima volta da soli non sono più autosufficienti e i liberali. I due partiti che hanno dominato la scena politica europea negli ultimi anni hanno ridotto ancora i propri consensi mentre verdi e liberali, sono invece cresciuti anche a scapito proprio dei due partiti principali. Ma nel complesso i partiti europeisti hanno ancora la maggioranza dei consensi, nella maggioranza dei paesi, tra gli elettori europei, a svantaggio delle velleitarie promesse di populisti e sovranisti di destra e di sinistra. Rispetto alle prossime scelte di vertice dell’Unione i partiti cosiddetti “europeisti”, che esprimono la guida di quasi tutti i paesi membri, avranno, a meno di clamorose rotture, ancora la palla in mano, ma non sembra che tali scelte saranno molto semplici ne immediate. Un gioco complesso di ambizioni e intrecci condizionerà, come spesso, le scelte. E come in passato, il rischio saranno scelte al ribasso, incapaci di dare all’Unione in molte sue istituzioni, l’autorevolezza necessaria. Perché queste scelte di vertice passeranno da un complicato intreccio di accordi non solo tra i gruppi politici, ma soprattutto tra i governi dei singoli paesi, con alcune tensioni già presenti tra di essi, che non fanno altro che confermare quanto precario sia l’equilibrio politico nell’UE.

I partiti tradizionali, socialisti e popolari, che per decenni hanno rappresentato il cuore politico dell’Unione, attraversano da anni una crisi di consenso, causata da una più profonda crisi di identità e progetto, e, pur riuscendo ad affermarsi in numerosi paesi, dovranno fare i conti da un lato con la crescita costante dei populisti e dei sovranisti, che restano una presenza stabile ormai in tutti i paesi, e dall’altro lato con formazioni emergenti, ascrivibili ai gruppi liberali e verdi, che in alcuni casi hanno eroso parte del loro elettorato, e probabilmente hanno raccolto una parte del voto di opinione sensibile su particolari tematiche, come l’ambiente, o più orientate a superare gli schemi classici della politica continentale.

Per quanto l’ondata populista e sovranista sia stata arginata, per i governi europei che sono espressione dei partiti europeisti e soprattutto di popolari e socialisti, si porrà rapidamente il tema essenziale del rilancio del percorso di integrazione politica dell’Unione, se non vorranno che nel tempo sovranisti e nazionalisti riescano a crescere ancora approfittando delle difficoltà proprio dell’Unione e dei partiti moderati e riformisti nel guidarla.

Perché oltre alle divisioni tra Stati e governi, alle incertezze della Commissione, agli errori commessi dai tecnocrati, in questi anni, è stata palese l’incapacità proprio di questi dei grandi partiti nazionali, che esprimono commissari e governanti, di saper costruire una effettiva dimensione politica continentale, capace di superare la sommatorie di tante diverse individualità partitiche nazionali, e di realizzare una effettiva prospettiva di governo europea. Certamente la crisi dei ceti medi che attraversa tutto l’Occidente, così come le fratture sociali e culturali che dividono la società europea, spaccando sempre di più le comunità urbane al loro interno, tra centri e periferie, e le zone urbane da quelle provinciali e rurali, hanno inciso nelle scelte dei governi. Ma quello che più manca, oggi, a livello dei governi nazionali, delle istituzioni comunitarie e dei grandi gruppi partitici europei, è l’assenza di un progetto politico comune, fondato su una lettura del mondo attuale e sul ruolo che l’Unione deve avervi. Una visione strategica che superi interessi di parte e sia condivisa a prescindere dalle sfumature partitiche.

Non si tratta di un problema di poco conto: senza un’idea e una lettura del mondo non si può avere una proposta credibile per la società europea. Senza una visione chiara della realtà internazionale si paga dazio anche nei propri paesi e l’Europa manca di una guida stabile e autorevole, come invece disperatamente necessita.

Le divergenze e le differenze tra i singoli governi degli stati membri, l’incapacità di darsi un’agenda comune e una comune visione strategica, anche all’interno dei propri gruppi europei di riferimento dove ormai si trovano soggetti diversissimi tra loro, hanno inchiodato negli ultimi anni l’Unione nello stato di crisi in cui versa oggi. Ormai diventata un gigante enorme con troppe teste e i piedi di argilla.

Le origini della crisi che stiamo vivendo

L’Unione Europea vive da alcuni anni una sorta di stallo. Rimane come appesa, tra la potenzialità di essere una grande potenza globale, in un mondo di potenze in competizione, e i limiti dati delle divisioni interne e dei conflitti tra i suoi stati membri che frenano la sua azione e le sue potenzialità. Inchiodandola a un presente di precarietà.

Per svolgere un ruolo più attivo a livello mondiale, l’UE avrebbe bisogno di un programma di riforme e di un rafforzamento ulteriore della sua dimensione politica comune, che dopo le scelte coraggiose sul mercato unico e l’Euro, dovrebbe passare da un reale investimento nella politica estera comune, nel rinnovamento dei processi democratici di decisione, nella costruzione di una politica di difesa comune effettiva e nella scelta di dare alle istituzioni europee una guida ancora più autonoma rispetto ai singoli stati.

I rischi derivanti dal sovranismo in ascesa, e i conflitti sempre più forti tra gli stati membri, oltre al problema drammatico apertosi con la Brexit, rischiano di far scivolare l’Unione in una crisi perenne che oltre a renderla immobile e incapace di svolgere il suo ruolo, potrebbe portare sempre di più verso esiti non positivi nel suo futuro. Perché non è solo una crisi di oggi, ma ha radici lontane, vecchie ormai di qualche anno.

La crisi economica del 2008 ha affondato un duro colpo all’Unione e soprattutto ai ceti medi dei paesi europei. Ha favorito il ritorno di egoismi e particolarismi, ha acuito le distanza tra nord e sud dell’Unione, ha allontanato i paesi tra loro e rimesso in discussione alcune conquiste fatte nel corso del tempo. Ma se questo è avvenuto è anche perché, ancora, l’Unione, pur rappresentando una grande conquista per i popoli europei, soprattutto sul piano della libertà di circolazione di persone e beni, dei diritti individuali, del mercato unico e della concorrenza, non agisce sempre come un soggetto unico sul piano esterno e, soprattutto, patisce la fragilità della sua dimensione politica unitaria. Ma le cause di queste difficoltà di oggi non sono tutte recenti e non solo riconducibili agli egoismi dei singoli stati o alla debolezza delle istituzioni europee. Per capire come siamo arrivati a questo punto è bene ricordarsi che l’Unione nacque non solo per volontà dei suoi fondatori e di un europeismo i cui tratti ideali erano stati tracciati dai grandi padri dell’Unione, da Spinelli a Schuman, ma anche perché la sua creazione si inseriva in un quadro politico mondiale e continentale condizionato dalla Guerra Fredda e dal dramma della guerra mondiale appena conclusa. Nacque, allora, non solo per costruire una pace duratura tra i due grandi paesi, Francia e Germania, che per decenni si erano combattuti, ma anche per essere un pezzo rilevante dell’Occidente euro-atlantico. E fare parte del nuovo ordine mondiale multilaterale fondato dopo la fine della Seconda Guerra mondiale.

Nel corso degli anni, passo dopo passo, l’idea della costruzione di un grande mercato libero e di una comunità economica europea ha vinto conquistando paesi che uscivano dalle ombre di regimi dittatoriali (come la Spagna) e facendo si che l’Unione si allargasse fino al giorno in cui il mondo è cambiato e l’ordine mondiale fondato sulla cortina di ferro è crollato sotto le macerie del muro di Berlino. Il processo di riunificazione tedesco è stato il primo tassello nella costruzione della nuova Unione Europea. A cui ha fatto seguito progressivamente la creazione della moneta unica, altro passaggio storico che a volte si tende a sottovalutare nella sua portata, e l’allargamento ad est verso quei paesi che fino a pochi anni prima erano stati oltre la cortina di ferro. Tutto questo, non a caso, avveniva negli anni in cui sembrava che la democrazia avesse vinto, l’ordine liberale fosse destinato a dominare nei secoli e la Russia appariva solo un’ombra di ciò che era stato fino a pochi anni prima.

Ma la speranza dei ruggenti anni novanta si è infranta nelle macerie dell’11 settembre 2001. Questa data è stata il punto di svolta che ha fatto capire come il mondo in realtà fosse diverso da quello che avevamo tutti sognato ad occhi a aperti.

Gli schemi precedenti sono all’improvviso tutti saltati, il mondo che conoscevamo, dove l’Unione Europea aveva sempre vissuto in pace al fianco degli USA, in sicurezza e benessere, è radicalmente cambiato in poco tempo per effetto non solo delle bombe dei terroristi e delle guerra globale al terrore, ma soprattutto di tre grandi eventi epocali, già iniziati dagli anni ottanta e novanta, ma i cui effetti sono diventati palesi soprattutto nel terzo millennio: la rivoluzione digitale, la globalizzazione economica e l’ascesa della Cina come nuova potenza globale alternativa agli Stati Uniti. L’impatto di questi eventi ha stravolto solo gli equilibri globali a livello politico o economico, e ha avuto ricadute dirette sulle vite di milioni di persone in Europa. Le politiche che per decenni avevano garantito certezze sul piano del benessere economico e della sicurezza sociale sono all’improvviso diventate inefficaci. Una popolazione progressivamente sempre più vecchia e isolata, spesso in crisi di identità e di certezze, ha iniziato a fare i conti con la crisi del welfare state e con un mondo che cambiava all’improvviso intorno a loro. Le generazioni del presente hanno iniziato a vivere peggio o ad avere prospettive peggiori di quelle precedenti, un fatto sconosciuto dai tempi della rivoluzione industriale.

Pensiamo quanto in venti anni sono cambiate le nostre città, il lavoro, lo studio, la comunicazione, i rapporti sociali, la politica, con fenomeni come la delocalizzazione industriale, la precarizzazione del lavoro, l’e-commerce, l’avvento dei social media, l’intelligenza artificiale e l’automazione robotica, le crisi finanziarie, l’invasione di prodotti a basso costo provenienti dai paesi del sud-est asiatico, l’immigrazione originata in molti paesi in crescita o in esplosione demografica del sud del mondo. A questi fatti globali si sono aggiunti per noi europei, eventi più recenti come la crisi dei profughi siriani e l’instabilità nel Nord Africa con i flussi incontrollati di migranti, il ritorno del terrorismo jihadista, con conseguente aumento della percezione di insicurezza dentro le nostre comunità sempre più condizionate da una sorta di sindrome da “assedio”.

Un’Europa troppo debole, per un mondo di duri

L’Europa si è sostanzialmente trovata impreparata dei confronti di un ordine globale nascente di natura multipolare e fortemente condizionato dal disordine, in cui stanno cambiando gli equilibri e i rapporti di forza e in cui sembra vincere chi mostra meglio i muscoli.

Mentre le nostre comunità subivano e pativano i cambiamenti in atto, crescevano paura e rancore, effetto anche dell’allargarsi di disuguaglianze, nelle periferie urbane, nelle campagne rurali impoverite, nascevano nuovi conflitti tra poveri all’ombra delle grandi fabbriche chiuse o vuote. Oggi subiamo la nuova guerra commerciale in atto tra Cina e Stai Uniti e paghiamo il prezzo di questo scontro con una crescita debole. La torta globale della ricchezza si è fatta più piccola e con molte bocche in più da sfamare.

Se guardiamo i dati economici dell’area del Pacifico, dall’Indonesia passando per Singapore, la Malaysia, il Vietnam, le Filippine, Taiwan, la Cina, la Corea del sud e il Giappone, possiamo già avere un’idea di quanto gli equilibri e i rapporti di forza in campo economico e industriale negli ultimi venti anni siano mutati nel mondo. Solo nel Pacifico al momento si affacciano quattro potenze nucleari ( Cina, Corea del Nord, Russia e Stati Uniti), e in pochi anni vedremo 4 paesi asiatici tra i primi sette del mondo sul piano economico ( Cina e Giappone, India e Indonesia). Da qui è anche comprensibile l’attenzione che la più grande potenza mondiale, gli USA, stanno dedicando in maniera crescente a questa area, dove non a caso, secondo molti analisti, si giocano già oggi gli equilibri economici mondiali.

Se leggiamo la politica internazionale in tutta la sua complessità, senza guardare all’Europa come ombelico del mondo, forse possiamo comprendere che proprio negli ultimi anni, in cui il mondo è mutato così profondamente, il processo di integrazione europea ha iniziato a rallentare e ad accusare una crisi progressiva. Gli altri crescevano e correvano, mentre noi invece siamo rimasti fermi.

Un rallentamento iniziato con le bocciature dei referendum sulla costituzione europea in Olanda e Francia, passando per la crisi finanziaria del 2010/2011, fino al momento in cui, in anni recentissimi, abbiamo assistito al primo caso di un paese, il Regno Unito, che ha deciso di uscire dall’Unione. Mentre sul piano globale assistevamo all’ascesa alla guida del nostro alleato storico, gli Usa, di una figura sostanzialmente nuova nel panorama politico americano come Donald Trump, spinto da un programma più orientato all’isolazionismo che non al multilateralismo. Il tutto con la Russia di Putin, tornata a essere una potenza globale, e la Cina di Xi, che avviavano un ampio programma di iniziative internazionali tese a costruire un protagonismo sempre più attivo del proprio paese, ma anche a conquistare spazi di primazia nelle praterie sguarnite del grande blocco euroasiatico.

Noi, in qualche modo, siamo ancora incapaci di reagire a questo mutare di condizioni, privi di una strategia che ci possa permettere, sfruttando le nostre potenzialità, di reagire. Perchè le potenzialità sono ancora grandi, l’Europa da sola, presa unitariamente, potrebbe essere davvero una potenza. Non solo economica, ma anche politica. Purtroppo invece negli ultimi anni è sembrata fuggire dalle proprie responsabilità, nel tempo si è chiusa a riccio in se stessa, in difesa di quanto era acquisito, quasi impaurita dai cambiamenti in atto. Dimenticando o disinteressandosi dei propri confini, soprattutto quelli meridionali, tentennando di fronte alle crisi in Medio Oriente, dividendosi sulla gestione dei flussi migratori, appesa alle scelte dei suoi leaders, condizionati dalle opinioni pubbliche dei propri paesi o divisi, ognuno in difesa del proprio interesse nazionale. La vicenda libica è in questo emblematica.

Ma cosa possono fare oggi, da soli, i singoli Stati europei? Anche quelli più solidi sul piano interno o forti a livello internazionale, cosa possono riuscire a realizzare od ottenere, di fronte a un contesto globale dove la competizione strategica coinvolge potenze come Usa, Cina, India, Russia?

Mentre noi indugiamo, Cina e Russia sembrano voler rimettere in discussione l’ordine internazionale fondato intorno all’egemonia americana, protagoniste, la Cina soprattutto, di un progetto di natura globale che promuove un modello politico alternativo a quello occidentale. E di fronte a questo l’Occidente non solo è diviso e sembra aver smarrito molto del senso più profondo del suo essere, ma non riesce a sfruttare a pieno le potenzialità e la forza delle sue istituzioni più rappresentative: l’Unione Europea appunto, e la Nato.

Entrambe però, per ciò che incarnano e rappresentano ancora oggi, potrebbero in realtà ambire a diventare qualcosa di più grande e globale di quello che sono. L’Unione Europea, rilanciando se stessa, anche in un rinnovato rapporto di collaborazione con gli Usa, potrebbe davvero avviare una fase nuova della sua storia e contribuire a rilanciare l’unica prospettiva che permette al nostro campo mondiale, quello dei paesi democratici, di essere uniti e solidali tra loro e promuovere i propri valori e i propri interessi. Sapendo che, inevitabilmente, il mondo sarà sempre più multipolare in futuro, e che, perché esso possa essere in un qualche modo ricondotto a una qualche forma di ordine, necessiterà di nuovi consessi globali in cui le grandi potenze possano fare sentire la propria voce. In questi consessi anche la presenza Europea può essere utile per difendere e promuovere la democrazia, lo sviluppo sostenibile, i diritti umani. Ma anche per affrontare sfide colossali, che interesseranno il futuro e la sopravvivenza stessa della razza umana su questo pianeta, a partire dal cambiamento climatico e la gestione delle risorse energetiche, alla rivoluzione tecnologica, agli andamenti demografici globali, fino alla conquista dello spazio che sarà.

Scegliere la strada giusta

Ecco perché quello che accadrà nei prossimi mesi all’Unione Europea è decisivo. Non si tratta solo di decidere come andare avanti, ma, soprattutto, rispondere alla domanda di sicurezza e di rinnovamento che da molti elettori arriva. Per farlo sarà fondamentale definire quale ruolo l’UE dovrà giocare al tavolo di coloro che nel mondo contano.

Io penso che sia imprescindibile non arrendersi e rivendicare il ruolo che ci è proprio e che dobbiamo conquistarci, partendo dal ripensare noi stessi e il nostro modo di fare e di stare insieme. Come? Intanto definendo una visione politica europea capace di dare all’Unione una reale capacità strategica, in campi come la difesa e la politica estera, che oltre a farla diventare saldamente la seconda gamba della NATO, le permetta di poter agire da sola, se necessario. Riuscendo a superare le divisioni interne e mettendo invece a fattor comune esperienze, competenze e opportunità già esistenti per meglio condividerle e sfruttarle. Per esempio, per quanto riguarda la diplomazia europea, scegliendo finalmente di avere un solo seggio per tutta l’Unione nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e parlando al resto del mondo con una sola voce. Sarebbe una scelta rivoluzionaria, come lo fu anche l’Euro più di venti anni fa. Agire globalmente, definendo un piano di collaborazioni con i nostri alleati strategici nel mondo, e rafforzando la cooperazione con la NATO e gli Stati Uniti: il vincolo atlantico che ci lega agli USA va rilanciato, perché è il cuore stesso dell’Occidente e conviene a entrambi. Sul piano politico, ma anche su quello economico e commerciale.

E ancora, investendo più risorse economiche per sviluppare e implementare le nostre capacità sul versante tecnologico e militare comune, comprendendo che solo attraverso l’integrazione progressiva della nostra industria della difesa potremo costruire la Difesa Europea. Significa decidere di rinunciare ognuno ad un pezzettino di ciò che è suo, per crescere però, risparmiando, tutti insieme.

Inoltre comprendendo che il tema sicurezza non è solo rivolto all’interno dei confini, ma interessa soprattutto le aree del mondo che sono intorno a noi, e verso le quali non bastano solo proclami e buoni propositi ma servono azioni incisive. Con un’agenda di iniziative dirette a intervenire là dove è necessario, al fianco e in cooperazione con i nostri alleati, ma anche da soli. Africa e Mediterraneo in primis.

E poi superando lo stallo istituzionale attuale, riavviando un confronto serio sulla riforma delle istituzioni europee, ostaggio spesso di una burocrazia eccessiva, rivedendo i trattati e i meccanismi decisionali troppo lunghi e troppo condizionati dai singoli stati. Senza più veti reciproci o furbizie di parte, senza pretese egemoniche di nessuno, Germania o Francia che siano, e senza il rischio di umiliare l’identità nazionale e gli interessi legittimi di nessuno. L’unica risposta ai sovranismi e ai sentimenti di paura non è restare fermi, ma proporre un piano di cambiamento dell’Unione che cerchi, nella complessità di questi tempi, di affrontare le cause che alimentano rabbia e paura.

Il problema dell’UE non è essere diventata troppo grande e tenere insieme paesi molto diversi tra loro. Certo, si tratta di un grande progetto di integrazione tra paesi diversi e per gran parte della propria storia rivali. Nessun altro grande stato federale del mondo è nato, in modo pacifico, fondendo paesi così diversi tra loro, così antichi, e con una storia così importante alle spalle. Stati orgogliosi della propria identità e storia, che si sono fatti la guerra per secoli: dal Portogallo alla Svezia, dalla Polonia alla Germania, dall’Austria all’Italia, passando per la Spagna, Francia e l’Olanda. La storia dei popoli, degli Stati, delle città d’Europa, è lunga e antica. Ha visto più divisione che unione. Ha prodotto tanto di meraviglioso, dal punto di vista della cultura, del pensiero, della politica, dell’arte, ma anche abomini e atrocità incredibili. Ma ha prodotto anche il più grande e duraturo processo di integrazione economica e politica della storia umana, l’Unione Europea, appunto. Nata mettendo insieme carbone e acciaio tra sei paesi e oggi diventata un mercato unico di 27 stati, quasi 500 milioni di persone, di cui buona parte hanno anche deciso di rinunciare alla propria moneta scegliendone una comune. L’Unione non va rifondata. Esiste già. Va rilanciata e rafforzata.

L’Unione Europea, come forse tutto l’Occidente, deve ritrovare le ragioni profonde della propria missione, in un mondo dove non siamo più i soli protagonisti e i nostri valori non sono più gli unici in campo. Eppure è proprio dall’esperienza della nostra storia comune, e dalla forza della nostra cultura, possiamo trarre nuova forza per ripartire. È nel senso più profondo della nostra identità comune, plasmata da religioni, culture, tradizioni diverse la ragione del nostro stare insieme e del nostro agire. L’alternativa all’Unione fatta di tante diversità è la divisione. La divisione fondata sui particolarismi e gli egoismi nella storia ha portato sempre conflitti e rivalità dannose, soprattutto in Europa.

Siamo a un passaggio storico a cui, probabilmente, i vecchi partiti nazionali di un tempo non bastano più per affrontare il mutamento in corso, ma di fronte al quale non si può pensare che la risposta sia nella democrazia senza partiti o in forme ancora non ben definite di democrazia diretta in salsa digitale. Al contrario è forte la necessità di una politica “europea” fatta anche di nuove classi dirigenti, determinate a perseguire l’interesse generale e non il potere personale. Una nuova leva di uomini e donne consapevoli dell’importanza della posta in gioco. Coraggiosi e capaci. Come coloro che nel 1950 dettero inizio a questo percorso, 5 anni dopo i massacri, i bombardamenti, il nazismo e la Shoah. Ma soprattutto forti di nuove idee, di progetti pensati cercando di immaginare il futuro, in un mondo che rispetto a quello di settanta anni fa è ancora più complicato. La politica europea, anche quella dei grandi partiti europeisti, deve forse ripensare se stessa, nelle sue forme e nelle sue parole d’ordine, per poter rilanciare l’Unione e superare i suoi limiti. Se la visione dei partiti, dei governi e della politica europea, non si fa davvero continentale e non affronta il nodo del nostro ruolo in questo mondo, che non è affatto il migliore dei mondi possibili ma è l’unico in cui ci è dato vivere al momento, non sarà facile superare questa crisi attuale. Se non definiamo con precisione chi siamo e chi vogliamo essere, non potremo affrontare la complessità del mondo con la dovuta determinazione ne risolvere i nostri problemi interni.

Per questo, di fronte al bivio tra restare ciò siamo oggi, o provare a cambiare, migliorandoci e restaurando la nostra casa comune, non possiamo sbagliare strada. Occorre riprendere senza indugi e con maggiore convinzione il cammino per un’Europea più forte, interessandocene non solo ogni cinque anni, ma ogni giorno.

Per essere protagonisti in questo mondo, noi europei, possiamo solo investire nell’Unione. Altrimenti guarderemo gli altri decidere del nostro futuro senza interpellarci.

Enrico Casini è Direttore di Europa Atlantica

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