Brexit: quanto potrebbe pesare un No Deal sui rapporti transatlantici?

A tre anni dal referendum su Brexit, nel Regno Unito dominano confusione e incertezza rispetto all’uscita dall’Unione Europea. Un eventuale No Deal che ricadute potrebbero produrre sulle relazioni euroatlantiche e sulla NATO? Qualche riflessione. 

Gli ultimi giorni sono stati particolarmente turbolenti e complicati sul fronte della politica interna britannica e della vicenda Brexit. Abbiamo assistito ad una serie di colpi di scena, dalla approvazione della legge anti No Deal alla richiesta di sospensione delle attività del parlamento, la Prorogation, fino alla perdita della maggioranza parlamentare per Johnson, con tutte le conseguenze che in queste settimane potrebbe determinare sulle scelte del governo. A questi si aggiunge il confronto con l’Unione Europea sempre più complicato e teso. Data l’attuale situazione non è facile fare un’analisi dei possibili scenari e delle potenziali evoluzioni che un simile quadro politico potrebbe determinare nei prossimi giorni, tanto più si avvicineranno le scadenze di ottobre e le date programmate per la conclusione del percorso di Brexit.

L’unico dato realmente certo, oltre alla grande confusione e agli errori, innumerevoli, fino ad oggi commessi, è che sono trascorsi più di tre anni dal Referendum che vide l’affermazione risicata del Leave con il 51,9% di consensi. Tre governi diversi si sono avvicendati da allora, senza riuscire a oggi a trovare una soluzione definitiva a questo rebus che pende minaccioso come una spada di Damocle non solo sulla politica britannica, ma anche su quella europea. Certamente, alla luce dei continui cambiamenti e dell’incertezza dominante, le possibilità di una Brexit senza accordo, (No Deal) nel tempo sono cresciute. Al momento è molto difficile avere precisa contezza di quanto le conseguenze di una possibile Brexit senza accordo potrebbero essere gravi e pesanti, ma tanto più l’eventualità si avvicina, quanto nervosismo e paura serpeggiano negli ambienti economici e politici europei.

Da tre anni in molti analisti si sono spesi nel cercare di capire le eventuali conseguenze di questa ipotesi, la più temuta, il giorno in cui dovesse realizzarsi. Le difficoltà con cui si procede verso le scadenze previste, i continui rinvii, la confusione politica, la tensione crescente, palesano non solo quanto questa vicenda sia complicata in se, ma anche quanto siano a oggi difficilmente prevedibili tutti in potenziali effetti che Brexit stessa potrebbe produrre.  Del resto il premier Boris Johnson non ha mai nascosto la sua intenzione di procedere alla Brexit, anche in un’ipotesi senza accordo[1]. Altrettanto, nonostante l’approvazione della legge anti No Deal voluta dalle opposizioni, che potrebbe spingere il governo di Sua Maestà a chiedere un rinvio all’UE fino a Gennaio 2020, non è detto che i paesi dell’Unione e la stessa nuova Commissione possano accordare un nuovo rinvio o essere disposti a rivedere tutti i termini del precedente accordo.

I punti spinosi, ancora non risolti relativi al possibile accordo, sono numerosi. A partire dalle ricadute che Brexit avrebbe sul confine irlandese. Un tema affatto banale visto quanto quel confine, nella storia del Regno Unito, ha rappresentato. Peraltro va ricordato che in Irlanda del Nord, come in Scozia, in realtà il referendum vide una larga affermazione del Remain, contrariamente al resto dell’Inghilterra, tanto da spingere alcuni commentatori a definire Brexit in realtà una Englandexit. Riflettendo sulla storia britannica non è un segnale da poco. Solo pochi anni fa la Scozia aveva visto un referendum sulla propria indipendenza, che non è escluso, in futuro, possa essere riproposto anche in conseguenza di una Brexit troppo traumatica. I riflessi dell’uscita e dell’incertezza che sta circondando questo percorso, nel breve e medio periodo, potrebbero avere ricadute gravi sulla stabilità interna del paese, non solo per i rapporti tra le diverse regioni britanniche, ma anche per gli effetti negativi che già oggi pesano sulle vite di migliaia di cittadini europei presenti sul territorio del regno. Anche per questi problemi è improbabile che ci si possa spingere avanti senza trovare una soluzione molto a lungo: tanto più che i giorni passano quanto i rischi di ricadute molto dannose, non solo sul piano economico, ma anche politico, si faranno sempre più alti. Lo stesso governo britannico ha dovuto recentemente rendere pubblico il contenuto di un documento, il rapporto “Yellowhammer”, che elenca una serie di potenziali problemi immediati in caso di una Brexit senza accordo: dalla penuria di cibo ai ritardi nei trasporti, alla carenza di medicinali[2]. Segno che nonostante la sicurezza ostentata in pubblico, in realtà la consapevolezza dei rischi e delle potenziali minacce legata al No Deal è presente anche nell’attuale compagine di governo.

Sullo sfondo, dato l’attuale stato di incertezza politica, rimane sempre la possibilità che l’opinione pubblica, a sua volta molto divisa e combattuta in tutto il Regno Unito, venga alla fine nuovamente chiamata a pronunciarsi, o attraverso nuove elezioni politiche, ipotesi più probabile, o attraverso un nuovo referendum, ipotesi molto meno probabile. Al netto dei possibili esiti, è evidente che in questa complessa vicenda non solo Boris Johnson e i conservatori escono molto indeboliti e divisi[3]. Anche i laburisti guidati da Corbyn, il quale non ha mancato di avere atteggiamenti a volte ambigui sul tema Brexit, almeno fino alle ultime settimane quando ha iniziato a sposare con più convinzione la causa europeista e la necessità di un accordo con l’UE, hanno rivelato debolezze e divisioni interne. È tutto il sistema politico britannico ad uscire fortemente indebolito da questa vicenda, insieme alle istituzioni secolari della più antica democrazia d’Europa. Non a caso, proprio questa vicenda, è annoverata tra quelle che palesano di più la crisi strisciante del sistema liberale occidentale, di cui Brexit da un lato e la crisi delle istituzioni europee e del processo di integrazione sono due chiari esempi. Al netto che Brexit si concluda, la parabola degli ultimi tre anni ha manifestato quanto in realtà non solo il sistema politico democratico occidentale sia indebolito e fragile, ma anche quanto l’ordine internazionale multilaterale, costruito dopo la seconda guerra mondiale e della cui costruzione il Regno Unito e gli Stati Uniti erano stati protagonisti, sia in difficoltà. Forse Brexit, o la crisi di consenso e di progetto che attraversa l’UE, non sono cause di questa crisi, ma degli effetti di un processo più lungo, avviato da diversi anni, e che potrebbe portare, se non interrotto, ad altri eventi anche più gravi per l’intero sistema internazionale, capaci di trasformare definitivamente la fisionomia dell’Occidente stesso, per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 70 anni[4].

In questo scenario il modo in cui Brexit, eventualmente, si concluderà potrà indicare il livello di gravità raggiunta da questa “crisi di sistema” che affligge le istituzioni europee e occidentali. Perché in caso di una Brexit concordata attraverso un accordo finale, il sistema sarà almeno riuscito a chiudere un percorso di confronto e un accordo cercando di governare le conseguenze del divorzio. Gli effetti reali li vedremo nel tempo, ma potremo provare a controllarli. In caso di mancato accordo e di rottura sarebbe invece palese la crisi del sistema istituzionale europeo, eretto negli ultimi decenni, e anche di quello britannico, incapace di concordare l’uscita dall’UE.

Se il No Deal si produrrà gli effetti successivi, nella loro gravità, dipenderanno molto anche dal livello di intensità della rottura: se questa dovesse avere un esito traumatico è ancora più incerto quali conseguenze potrebbe portare, oltre che sull’economia globale, anche sulla politica occidentale. In molti, nella speranza che non si realizzi, confidano che comunque i rapporti tra Regno Unito e paesi UE possano restare positivi anche dopo Brexit e anche nell’ipotesi di un No Deal. Ma in realtà non esistono garanzie a riguardo, perché una volta consumato il divorzio quale sarà lo stato reale delle relazioni future sarà tutto da vedere nel tempo.

L’ipotesi “ottimista” lascia intendere che molti paesi dell’UE potrebbero condividere ancora con la Gran Bretagna da un lato relazioni economiche e commerciali stabili, date dall’importanza che il mercato britannico riveste per le esportazioni di molti paesi, Italia in primis, e dall’altro la presenza nel comune spazio di sicurezza determinato dalla NATO. Si  confida così nel fatto che possa restare in piedi una cooperazione strategica in campo militare o nello settore della sicurezza, anche in prospettiva del percorso della futura difesa europea. A questo riguardo la tesi viene avvalorata dal fatto che oltre alla convenienza politica, vi sono alcuni progetti che riguardano investimenti nel settore industriale militare[5] che già oggi vedono paesi europei, come anche l’Italia, e UK insieme o per la presenza di importanti aziende europee sul territorio inglese. Si confida anche nella possibilità di poter stabilire accordi commerciali e doganali duraturi e nel mantenimento di un forte legame politico, culturale e soprattutto economico. Il tutto perché la prima che dovrebbe avere convenienza a mantenere rapporti stabili con l’UE in questi campi è proprio la Gran Bretagna. È indubbio che i primi ad avere l’esigenza e la necessità di restare attaccati alla sponda europea sono proprio  le imprese, le istituzioni, le università e le banche britanniche, ma anche consumatori e lavoratori, sui quali, al contrario, una Brexit dura peserebbe enormemente su portafogli, salari e risparmi[6]. Di questo, ovviamente, il mondo politico britannico è consapevole e dovrà cercare di tenerne conto, viste le potenziali ripercussioni che potrebbero prodursi nel paese.

Nel caso però che dovesse davvero realizzasi una Brexit dura e si materializzasse il No Deal, vi sono due ordini di possibili conseguenze. Da un lato, pur in presenza di una confusione iniziale, nel tempo si potrebbero quindi comunque stabilizzare i rapporti reciproci, anche in nome della comune convenienza, e ritrovare il filo di un dialogo tra le due parti in grado di portare a nuovi accordi e mantenere vive alleanze e relazioni del passato. Questa potrebbe essere una visione soft del post No Deal, in cui le ragioni della vicinanza e la convenienza sul piano politico ed economico, al di là dei problemi immediati, potrebbero prevalere e salvare le relazioni reciproche. Probabilmente è quello che anche alcuni sostenitori della Brexit comunque sperano.

Ma se invece, in assenza di un accordo finale, la rottura dovesse essere  traumatica, con un’intensità  al momento non quantificabile, tutte le buone intenzioni di reciproca collaborazione e cooperazione potranno davvero mantenersi? E se, invece, come la storia tante volta ha insegnato, si producesse il contrario, se una Brexit senza accordo dovesse produrre effetti negativi a catena, come le pedine del domino, investendo i rapporti tra UE e Regno Unito, ma anche di conseguenza le relazioni bilaterali tra stati membri dell’UE e UK? Chi garantisce che poi, una destabilizzazione dei rapporti, in un contesto globale di competizione tra le potenze e rivalità crescenti, non potrebbe avere effetti su tutto il campo delle relazioni transatlantiche, irrompendo anche negli equilibri interni alla NATO o anche sulla prosecuzione di progetti e accordi già avviati? In tutto questo gli Stati Uniti che ruolo potrebbero giocare in ragione dei possibili sviluppi della loro politica estera e anche interna? Visto il contesto e il confronto internazionale attuali sono tutti quesiti che è lecito porsi.

Oltre Manica una delle motivazioni alla base della Brexit è stata l’idea, o la promessa, di riportare il Regno Unito alla grandezza perduta e allo status del grande potenza di un tempo[7]. Negli ultimi anni i sentimenti di nostalgia e rimpianto per il passato “glorioso” sono andati crescendo di pari passo con il risentimento e il rancore per il benessere perduto. Questo è avvenuto in Gran Bretagna e in maniera diversificata tutta Europa, dopo la crisi del 2008 e a causa degli effetti perversi della globalizzazione sulle classi medie, producendo conseguenze immediate sugli orientamenti elettorali di molti cittadini europei in direzione di posizioni politiche più radicali, estremistiche, populiste e sovraniste. La vittoria del Leave, nel referendum sulla Brexit, non fu dovuto solo alla disinformazione e alle fake news, ma a ragioni più profonde che riguardano ormai da anni gli orientamenti di una parte rilevante di elettorato, non solo in Gran Bretagna ovviamente ma in tutti i paesi europei, Francia, Italia, Olanda, e anche Germania. Non è stato un caso se il consenso più forte, il Leave e i movimenti politici che lo sostennero e che oggi sostengono Brexit anche senza accordo, fu ottenuto nelle aree rurali dell’Inghilterra profonda, nelle periferie operaie e minerarie in crisi da decenni. Ovvero là dove gli effetti della crisi economica e le conseguenze delle disuguaglianze crescenti hanno colpito più in profondità le persone e i loro livelli di qualità della vita.

A detta di molti sostenitori della Brexit l’importanza economica e finanziaria della piazza britannica, la forza militare del paese, la sua presenza globale, obbligherebbe in tanti, a partire dai paesi europei stessi, a venire a patti e stabilire accordi bilaterali con la Gran Bretagna anche dopo la sua uscita dall’Ue senza un accordo. Il che è probabile, ma non è certo al cento per cento. Perché, orgoglio e risentimento sono sentimenti potenti che possono influire rispetto alle decisioni degli Stati anche a livello geopolitico e diplomatico: in presenza di una rottura traumatica potrebbero contribuire a guastare le relazioni con il Regno Unito molto più a lungo di quanto si immagini, impedendo anche alle ragioni del pragmatismo di avere la meglio e magari invece innescando dinamiche di rivalità o competizione negative per tutti.

In realtà è proprio il Regno di Sua Maestà a correre gravi rischi in caso di una Hard Brexit, nonostante la sua importanza internazionale. Il sistema economico inglese è molto dipendente oggi dalla finanza globale, dagli investimenti esteri e dalle importazioni, e qualora venti di burrasca dovessero abbattersi sul paese a causa di una Brexit troppo traumatica le conseguenze sull’economia nazionale potrebbero essere davvero drammatiche. Per questo chi sembra avere davvero più da perdere da una rottura senza accordi sembrerebbe proprio il Regno Unito, al netto delle illusioni degli isolazionisti e dei nazionalisti britannici. In un sistema interdipendente e globale come quello in cui siamo immersi le ricadute di una rottura tra Europa e UK potrebbero essere potenzialmente esplosive su tutto il sistema economico, finanziario e politico globale. Ma questi rischi, ancora oggi, non hanno allontanato ne il pericolo del No Deal, ancora esistente, ne spinto al ravvedimento i britannici, ancora in tempo per bloccare il percorso. Anzi, i rischi di una rottura gravida di pessime conseguenze, in presenza di questi continui rinvii, si fanno sempre più concreti.

George Orwell, nel suo capolavoro 1984, immaginava un mondo in cui la Gran Bretagna sarebbe stata parte di una grande potenza globale, insieme agli Stati Uniti, chiamata Oceania. Del resto gli abitanti del Regno Unito guardano da sempre tanto all’Europa quanto all’America del nord e nell’idea fantapolitica di Orwell, questo sguardo atlantico avrebbe portato alla costruzione di un super stato anglo-americano in competizione con l’Europa e la Russia fuse nell’Eurasia. Certamente a Orwell non mancavano suggestioni geopolitiche, ma al netto delle ipotesi fantapolitiche di uno dei più grandi romanzi della narrativa contemporanea, ad alcuni, dopo Brexit, è davvero sembrato che la Gran Bretagna volesse allontanarsi dalla sponda europea per ritrovare invece un rapporto più stretto con quella americana. Non sono mancate le dichiarazioni pubbliche che hanno in qualche modo avvalorato questa ipotesi[8].

Ma la storia, anche recente, in realtà ci ha trasmesso il contrario. Dal dopo guerra il Regno Unito è stato il ponte che ha anche permesso al legame transatlantico tra Europa e Nord America di rimanere solido. È sempre stato l’alleato più fedele e convinto degli Stati Uniti in Europa per tutto il Novecento e oltre, ma è anche stato un paese che contemporaneamente ha dato un grande contributo alla stabilità e alla sicurezza europea. Pur essendo entrato tardivamente nell’Unione o non avendo mai aderito all’Euro, ha avuto storicamente un peso, molto rilevante, nelle vicende continentali da quando è diventata una grande potenza marittima e si è confrontata con le le grandi potenze di terra del continente. Non vi sono state grandi guerre recenti, nel territorio europeo, in cui in qualche modo gli inglesi non hanno detto la loro spesso con una grande abilità strategica nello scegliere gli alleati vincenti. L’epopea napoleonica è stata l’esempio più evidente di tutto questo. Anche nel processo di unificazione italiano, nell’Ottocento, il ruolo inglese fu decisivo, ma basta ricordare quanto il sacrificio e l’impegno inglese sia stato enorme sul campo da battaglia continentale durante le due guerre mondiali.

È immaginabile una Gran Bretagna che si allontana, anche in nome di un possibile rapporto privilegiato con gli USA, dall’Europa e dalla politica europea? È un evento difficile da immaginare, ma per quanto improbabile, ma dopo un eventuale No Deal e una Hard Brexit potrebbe diventare un fatto da non escludere, nel momento in cui si ipotizzano scenari futuri che tengano conto delle differenti possibilità.

Qualora si dovesse realizzare un eventuale scenario simile, potrebbe rivelarsi un fatto non banale, non solo per quanto riguarda il futuro dell’Unione, da cui i britannici si stanno chiamando fuori, ma in generale per gli effetti immediati e diretti che un divorzio traumatico potrebbe provocare a livello economico, ma anche su tutto il campo politico occidentale, con possibili ripercussioni sui rapporti transatlantici. Del resto, come scrive Neil Ferguson[9], probabilmente l’idea stessa di Occidente, non sarebbe possibile senza il contributo della cultura e del pensiero politico, filosofico e giuridico britannico.

Se le isole britanniche dovessero politicamente allontanarsi dagli alleati europei, e questo dovesse prodursi in combinato con un’eventuale accentuazione dell’isolazionismo americano, che ripercussioni potrebbero prodursi sulla NATO? Potrebbe in qualche modo venire meno nel tempo il ruolo di guida delle leadership americana, e della sponda britannica, fino ad oggi fondamentale per gli equilibri dell’Alleanza? Di fronte a un simile evento anche la NATO, uscita vittoriosa dalla Guerra Fredda e sopravvissuta brillantemente nel nuovo secolo, potrebbe subire le conseguenze del divorzio del Regno Unito dall’Unione Europea. Con gli USA comunque sempre più rivolti verso il Pacifico, e rapporti in tensione tra gli alleati europei, la NATO potrebbe risentirne, indebolendosi, e venendo sostituita nei fatti, magari, da forme di cooperazione politico-militare con singoli partner e su singoli dossier.

Che Brexit alla fine si produrrà è molto probabile. La mutevolezza degli scenari impone cautela, ma è difficile, oggi, immaginare che questo processo innescato tre anni fa sia interrotto e invertito. Tenere conto degli scenari e dei rischi per i reciproci rapporti politico-diplomatici tra paesi europei e Regno Unito e per il futuro delle relazioni euroatlantiche, su cui il ruolo del Regno Unito è sempre stato fondamentale, può essere un esercizio necessario. A questo proposito, non solo per limitare il più possibile rischi e conseguenze che potrebbero davvero essere pericolose, ma anche per rilanciare la forza delle istituzioni democratiche europee e britanniche e la necessità delle relazioni transatlantiche, il tentativo, comunque, della chiusura di un accordo finale per scongiurare un No Deal dovrebbe essere un imperativo da perseguire a tutti i livelli e da tutti gli attori.

Per il mondo atlantico e l’Europa è sempre meglio una Brexit concordata, magari che lasci aperto qualche spiraglio per un futuro, potenziale, ripensamento, a una Brexit traumatica, che potrebbe vedere un negativo impatto sul presente e ridurre le possibilità di dialogo nell’immediato futuro.

Enrico Casini è Direttore di Europa Atlantica


[1]Il discorso di insediamento di Boris Johnson a Dowining Street, su Agi, 25 luglio 2019, https://www.agi.it/estero/boris_johnson_discorso_insediamento-5909101/news/2019-07-25/

[2] Brexit, rapporto Yellowhammer: il “no-deal” provocherà ritardi, carenze di cibo e medicine – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Brexit-rapporto-Yellowhammer-ritardi-e-carenze-cibo-e-medicine-04fd3a95-185e-4828-8388-370a06f25a4e.html

[3]L’implosione dei conservatori britannici, Il Post, 7 settemre 2019, https://www.ilpost.it/2019/09/07/crisi-conservatori-britannici-brexit/

[4]Si suggerisce per un approfondimento su questi temi il rapporto Ispi, La fine di un mondo, a cura di A. Colombo, P. Magri, Ipsi, Milano 2019

[5]Difesa, Italia partner del Regno Unito nel programma “Tempest”: “Costruiremo insieme un caccia europeo di sesta generazione, da Il Fatto quotidiano, https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/09/10/difesa-italia-partner-del-regno-unito-nel-programma-tempest-costruiremo-insieme-un-caccia-europeo-di-sesta-generazione/5444049/

[6]G. Ottaviano, Hard Brexit, tutti i rischi che corre Londra, da Il Sole 24 Ore, https://www.ilsole24ore.com/art/hard-brexit-tutti-rischi-che-corre-londra-AFWEde

[7] Boris Johnson: “Brexit il 31 ottobre. Diventeremo il più grande Paese della Terra” – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Boris-Johnson-Brexit-il-31-ottobre-Diventeremo-il-piu-grande-paese-della-terra-f59fced3-b1f3-4769-b441-e297f2e868a0.html

[8]Trump dangles ‘very big’ trade deal in front of Brexit Britain, Reuters, August 25, 2019

[9]N. Ferguson, Occidente. Ascesa e declino di una società, Mondadori, Milano, 2017

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