La comunicazione al tempo del Coronavirus

Il lato oscuro della psicologia di un popolo: la comunicazione, la paura del virus, le reazioni individuali. Una breve riflessione

La scoperta del coronavirus (Covid-19) in Europa, e nel nostro Paese, ha innescato una serie di dinamiche sia a livello comunitario territoriale che a livello istituzionale che necessitano di una riflessione approfondita.

Dal 31 dicembre 2019, quando le autorità cinesi hanno segnalato un focolaio di polmonite da cause sconosciute nella città di Wuhan, ed in particolare dal 9 gennaio 2020, quando una task-force cinese ha identificato il nuovo Covid-2019, si sono susseguite numerose notizie di un nuovo virus che aveva costretto ad una quarantena di massa la provincia cinese dell’Hubei. L’assenza di vaccino, la mancanza di una terapia specifica con sola possibilità di supporto sintomatico hanno costretto le autorità sanitarie cinesi all’isolamento forzato di 56 milioni di persone nella provincia focolaio. La rapidità di trasmissione di un agente infettivo completamente sconosciuto ha obbligato un paese che vanta uno dei maggiori export mondiali a ricorrere ad interventi drastici che hanno concorso ad alimentare paure sia sanitarie che economiche.

Come esseri umani siamo spesso esposti a forme di comunicazione che possono alimentare paura nei confronti di ciò che non conosciamo e nel caso in cui questo “ignoto” sia di natura sanitaria, quindi potenzialmente lesivo per la nostra incolumità fisica, la paura può diventare angoscia incontrollata. In un’emergenza sanitaria è necessario saper cosa dire e come dirlo proprio perché tale situazione va a toccare una sfera del singolo cittadino dove i normali processi di rielaborazione cognitiva non sono messi in campo. Quando il pericolo è percepito a livello della propria incolumità, non ragioniamo considerando tutte le possibili opzioni, ma tendiamo ad un ragionamento semplificato perché più funzionale alla nostra sopravvivenza. Se sei nella Savana davanti ad un leone non ti chiedi se il leone è sazio o meno ma rapidamente fuggi il pericolo, ed in questa emergenza sanitaria il processo di pensiero individuale non è stato molto diverso. Di fronte al pericolo il Singolo mette in campo delle strategie psicologiche che non tengono conto della salvaguardia comunitaria proprio perché il suo comportamento evolutivo lo porta verso un livello più regredito.

La percezione di ciò che ci fa paura ci suggerisce cosa fare per evitare di correre un determinato pericolo. Inizialmente, in questo caso, per sfuggire all’epidemia di Covid-19 è sembrato bastasse evitare soggetti di nazionalità cinese o persone provenienti dai focolai, aumentando il senso di segregazione imposto dalle misure sanitarie.

L’insorgenza del primo caso in Italia ci ha trovati già saturati da oltre un mese di immagini distopiche provenienti dalla Cina, dove i media mostravano ospedali costruiti in dieci giorni, disinfestazioni di massa, megalopoli isolate.  Tralasciando l’impatto comunicativo che ha avuto l’iniziale accentuazione del senso di protezione comunitario, inteso come risposta ad un evento avverso da parte di un popolo-nazione e la sua reazione rispetto a chi era esterno al nostro paese, è fuor di dubbio, e largamente condiviso sia tra le forze politiche che tra i media, che le decine di affermazioni, interviste, e apparizioni televisive abbiano comportato diversi errori di comunicazione. Una possibile criticità non è stata quella di aver comunicato, quasi in tempo reale, l’espandersi dei contagiati o il numero dei possibili casi di infezione, ma di averlo fatto non tenendo conto di quale impatto psicologico avrebbe potuto avere sull’intero Paese.

Gli errori di comunicazione che si sono verificati sono stati tra i più classici, ovvero non considerare la discrepanza tra emittente e ricevente, dove l’emittente (inteso sia come esponenti politici, sia come scienziati) enfatizzava in un primo momento la pericolosità della situazione, per poi sostenere che il nuovo virus “è poco più di un’influenza”, con una non sempre esatta coincidenza nel giudizio sulla malattia ( anche  a livello di mondo scientifico) creando una cautionary tale che non convinceva l’ascoltatore e che anzi creava messaggi ambigui, alterando il canale del messaggio, cercando di parlare in termini percentuali in un auditorio dove non tutti sono avvezzi a capirne il significato, ed inoltre, mostrando una comunicazione verbale non coerente con la non-verbale. Tra i vari canali di informazione molti dati sono arrivati tramite i social network in cui i messaggi passano rapidamente, girano numeri ed impressioni a caldo che non sono frutto di meditata riflessione creando spesso un overload informativo che tende a semplificare l’informazione per il destinatario finale che la percepisce emotivamente più che analizzarla razionalmente. Questo canale comunicativo in emergenza, specialmente sanitaria, dove si rende necessaria la comunicazione di un’unica versione ufficiale, semplice e comprensibile da tutti i cittadini, può generare informazioni inesatte e perfino discrepanti. Di fatto la scarsa tendenza all’analisi del Singolo accentua il “bias di conferma” dove ognuno si focalizza su ciò che si vuole sentire dire comportando un’ulteriore vulnerabilità all’errore. Parole come “morti” (evento massimo che viene depotenziato concentrandosi solo sull’idea che sono anziani pluripatologici), “pazienti in terapia intensiva”, “isolamento” azionano maggiormente il senso di autoprotezione dell’individuo rispetto a parole come “pochi sintomi” o “raffreddore”.

I sanitari ed i politici Italiani non hanno mai detto che il nostro Paese sarebbe stato sterminato dal Covid-19, affermando anzi che, fin dai primi 1500 casi cinesi, l’80% delle persone contagiate avrebbe sviluppato sintomi lievi e il restante 20% però, compresi i possibili esiti infausti (percentuale comunque molto limitata) avrebbe avuto bisogno di cure specialistiche erogate in setting specializzati.

Ciò che ha reso ancora più ansiogena la comunicazione di eventi e provvedimenti in Italia è stato da un lato l’allarmismo diffuso dai media, tradizionalmente propensi un certo “sensazionalismo” nel diffondere le notizie, dall’altro il pullulare di pareri contrastati tra virologi, politici, prese di posizione contro l’operato del Governo e contro gli ospedali, conflittualità tra istituzioni, incoerenze di procedure e divieti. Tale confusione però, non è stata solo una reazione Italiana, poiché proprio in questi giorni vediamo come  si stia manifestando anche in altri paesi europei in concomitanza  della diagnosi di nuovi casi di infezione in Francia e Germania (salone dell’auto che chiude, Musei che restano chiusi per alucni giorni, grandi manifestazioni pubbliche annullate, Ministri che parlano di epidemie, mettere in discussione Schengen). Senza creare troppo allarmismo un dato di fatto su cui riflettere è che l’Italia è un paese di persone anziane, e questa vulnerabilità che non è solo anagrafica ma anche geopolitica, potrebbe comportare il rischio di tassi di mortalità superiori rispetto a paesi dove l’età media è di 25 anni.  Come però afferma Nassim Taleb nel suo famoso libro “Il Cigno Nero” (2014) “la nostra macchina per le inferenze, quella che utilizziamo nella vita quotidiana, non è stata progettata per un ambiente complicato in cui un’informazione cambia radicalmente quando viene modificata leggermente la disposizione delle parole che la compongono”.  Alla popolazione Italiana sono arrivate  immagini dei posti di blocco nelle aree rosse, che anche se mostravano misure necessarie per contenere l’epidemia, associate ai filmati di lunghe file ai supermercati non erano  coerenti con il messaggio verbale rassicurante delle comunicazioni e creavano un’interferenza tra ciò che veniva detto e ciò che veniva visto, ma soprattutto, come insegnano gli studi sulla memoria iconica, ciò che viene visto, in particolare se ambiguo, aziona in maniera diretta e con apprendimento a lungo termine i nostri sistemi di autodifesa.

Ogni persona pone, istintivamente, maggior attenzione ai messaggi che riguardano sé stesso o il proprio ingroup, tralasciando o facendo meno attenzione a quelli riguardanti un altro gruppo sociale o etnico. Inoltre, le nostre azioni ed il nostro modo di pensare dipendono dal contesto in cui viene presentata la questione ed il nostro comportamento tende a non seguire il valore logico dell’informazione, ma l’attivazione del nostro sistema socio-emotivo. Molti dei contenuti proposti in questi giorni dai media sono stati inerenti al Bene Pubblico e alla Società. Il Singolo con l’isolamento del proprio comune, o con il suo isolamento è stato chiamato in questo caso a farsi carico del Bene Collettivo, considerando che il suo agire potrebbe influire sulla collettività. Per responsabilizzare i cittadini ad azione sul Bene Comune si sarebbe dovuto ovviare al problema che si presenta quando il singolo riesce a codificare le sole informazioni personali. Di fronte ad informazioni che hanno una prevalente ricaduta individuale è prevalsa una risposta individualistica versus la collettiva, (stessa cosa sta avvenendo in questi giorni in Germania). Il singolo, sentendosi personalmente minacciato, ha cercato di procurarsi più scorte alimentari possibili al supermercato; ha fatto approvvigionamento di mascherine e non considerandole un dispositivo di protezione professionale ha trascurato che sarebbero mancate proprio dove servivano di più, negli ospedali, dove i sanitari sono in prima linea con i malati. Il Singolo, nella ricerca disperata dell’autoconservazione, delimitato dai bias cognitivi della sopravvivenza non ha pensato che se il personale sanitario si ammalasse, in un paese che scarseggia già di professionisti sanitari, non avrà chi lo potrà assistere e curare.  Inoltre, sempre per i propri bias cognitivi, ed in preda a paure ancestrali, il Singolo non si rende conto che come per qualsiasi dispositivo di protezione necessita saperlo usare e che quindi, magari, quella protezione che crede di aver ottenuto non è servita a niente.

Le reazioni, in particolare quelle dei primi giorni dell’emergenza, fanno riflettere come molte persone abbiano una scarsa coscienza collettiva e siano portate a tutelare prevalentemente il proprio nucleo familiare o al massimo la propria comunità percependo come lontani ed estranei concetti come Regione o come Paese-Nazione, anche per la debolezza di radici storiche salde nell’ inconscio collettivo. In quest’ottica appare comprensibile come sia stato più funzionale lo stimolo-risposta immediato che stimolo – riflessione – risposta a lungo termine. Si possono pertanto spiegare comportamenti individualistici ed irrazionali sull’acquisto di mascherine e razzie ai supermercati. La comunicazione dell’epidemia ha stressato l’emergenza di un nemico invisibile in grado di creare molta più ansia di colui che si palesa davanti e lo si può identificare. La ricerca del paziente zero e la conta dei contagiati ha evidenziato l’ignoto del virus che alberga in ogni possibile persona ed ha reso il Singolo un possibile pericolo per ogni altro Singolo, facendo saltare la resilienza comune che invece sarebbe necessaria per affrontare emergenze di vasta portata. Con questi contenuti comunicativi, moltiplicati a dismisura anche dalla risonanza e dalla presenza del tema virus sui media, è stata amplificata l’angoscia dell’ignoto, che a differenza della reazione emotiva ad un attacco terroristico dove è possibile identificare gli attentatori, far intervenire le forze speciali e quindi eliminare il problema, ha indotto nelle persone un controproducente senso di panico ed impotenza.

In ambito sanitario esiste la comunicazione dell’evento avverso e per avere un buon esito segue precise regole. Chi comunica una notizia infausta inerente la salute del singolo fornisce poche e chiare notizie, mai ambigue o interpretabili, lo fa con lo staff che ne condivide forma e contenuti. Lo fa prestando attenzione ai tempi di comunicazione, alla capacità di comprensione del ricevente e alle possibili reazioni emotive. Accoglie e rielabora quelle reazioni fornendo nuovamente informazioni chiare ed univoche. Ma la cosa più importante nella comunicazione di una prognosi infausta è l’attenzione a fornire sempre la possibilità di ciò che si può fare. È la volontà di passare il messaggio chiaro che c’è sempre una possibilità di azione ed intervento quando uno staff di esperti si prende cura di te e lo fa con la competenza che deriva dal pensiero scientifico. Nella comunicazione di malattie infauste trasmettere il solo concetto che anche quando non si può guarire, si può curare, migliorare la qualità della vita, controllare i sintomi più disturbanti è di grande sollievo per il singolo. È ciò che cattura, nella disperazione, l’attenzione del ricevente che si può così focalizzare su ciò che è possibile, su ciò che verrà fatto per lui.

Un comportamento proattivo riduce la sensazione di abbandono, solitudine, incertezza e può anche contenere la disperazione. Il “tu non sarai solo” diventa il messaggio che comporta e aiuta ad accettare. Riflettiamo allora, tenendo in mente questo modello di comunicazione. Se di fronte all’ineluttabilità di dover affrontare, come Comunità, isolamento forzato, rinunce, doppi turni, riduzione delle entrate economiche di una famiglia, enfatizzare ciò che di eccellente sta facendo il nostro Paese dal punto di vista sanitario aiuterebbe a mantenere la calma e focalizzare possibili azioni collaborative del singolo. Sarebbe opportuno fornire comunicazioni chiare e fruibili a tutti, univoche e non interpretabili, anche  a livello locale. Aderenti alla realtà, ma non a ciò su cui il singolo non ha controllo, il messaggio che deve passare, dopo una chiara e sintetica descrizione della situazione, è che uno staff di eccellenza è a lavoro per salvaguardare la Nazione e che devono essere fornite indicazioni perché ognuno collabori per il bene del singolo, della sua famiglia e della sua comunità. Dire come ciascuno può collaborare per portare in porto la nave durante la tempesta potrebbe canalizzare energia positiva tagliando i rumors di fondo che alla fine nessun vuol sentire. 

David Simoni, è psicologo e dottore di ricerca in scienze cliniche. Si occupa di psicologia politica unendo  un’esperienza decennale ed una formazione nel campo della neuropsicologia e della psicologia cognitiva con la psicologia sociale. È responsabile del settore ricerca dell’Associazione Cerchio Blu di Firenze.

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni di Europa Atlantica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *