Brexit: quale sarà lo scenario futuro?

Il Razionalismo sembra aver smarrito la via nel Regno Unito e gli eredi dei grandi interpreti di quella corrente di pensiero, a Londra, hanno generato un contesto dal quale sembra complesso uscire.

Si parla, ovviamente, di Brexit ed avventurarsi in quello che può essere lo scenario futuro, anche prossimo, è un esercizio piuttosto complesso. Proviamo quindi a definire alcuni elementi utili a comprendere i tratti che definiscono uno sfondo, lasciando al lettore il compito di aggiungere i dettagli.

L’Unione Europea e le sue istituzioni hanno dimostrato tutta la loro risolutezza e di essere l’unica certezza di efficienza e di risultato per il popolo europeo, compreso quello britannico. Le istituzioni ed i 27 hanno tenuto una linea chiara, di rispetto del voto referendario britannico, di costernazione per l’abbandono dell’alleato e di facilitazione delle attività di uscita del Regno Unito. Alcune “red lines” sono state tenute ferme, seppur si è ritenuto di dover aprire a possibilità di collaborazione rafforzata, ivi compreso il ritiro unilaterale dell’articolo 50, laddove la Gran Bretagna, lo richiedesse. L’impegno quindi è evitare il “no deal”; il negoziatore per l’EU Michel Barnier, a rigurado, ha dichiarato che “la nostra determinazione è evitare uno scenario di questo tipo, ma abbiamo anche la responsabilità di essere lucidi”.

La lucidità ha molto a che fare con quanto accade a White Hall; infatti, contravvenendo a secoli di supremo esercizio dell’arte del governo, oggi, sembra che le élite britanniche siano bloccate da spinte divergenti e siano ben lontane nel trovare un accordo politico e parlamentare che possa essere adeguato sia per l’EU, sia per i 27 stati membri e questo non fa che rafforzare la posizione contrattuale di Bruxelles. 

In questo quadro, noto ai più, il tema della sicurezza e della difesa è quello che sembra fissare le uniche certezze da ambo i lati della Manica e tale argomento è stato ripreso sia dal Commissario Europeo per l’Unione della Sicurezza, Julian King, sia dal Segretario di Stato alla Difesa di Sua Maestà, Gavin Williamson.

Paradossalmente, i grandi investimenti ed i grandi benefici che sono figli dell’integrazione nel settore meno integrato dell’Unione, non sono forieri di valutazioni altrettanto positive, almeno nel Regno Unito, sui ben maggiori benefici ed investimenti figli dell’intero processo di integrazione europea.

Quello che appare chiaro è che la Gran Bretagna continuerà ad essere parte delle azioni che avranno luogo nel quadro della Common Security and Defence Policy (CSDP) attraverso il Framework Participation Agreement (FPA). La cooperazione dovrebbe essere attiva sia in fase di pianificazione che di partecipazione. Inoltre, Londra potrà partecipare ai progetti della European Defence Agency (EDA) mediante un Administrative Agreement già blindato dall’EU. Infine, nei settori di cyber security, della lotta all’immigrazione irregolare e dell’antiterrorismo rimarranno attive le cooperazioni esistenti, mentre, sul piano industriale, enti britannici potranno beneficiare dei finanziamenti dello European Defence Fund (EDF).

Gli interessi euro-britannici nel settore difesa sono decisamente congruenti, in quanto se da un lato Bruxelles ha accelerato il cammino verso il raggiungimento dell’autonomia strategica, è evidente, a tale proposito, il ruolo della Gran Bretagna (ilRegno Unito è il paese europeo che spende maggiormente nel campo della difesa e da solo contribuisce alla spesa per la sicurezza dell’Unione per più del 7%. Metà delle portaerei e dell’armamento nucleare strategico dell’Unione è britannico, così come il 16% del naviglio militare e dei velivoli di combattimento sono UK. Tali cifre si fermano al dato quantitativo e non esplorano l’ancor più eclatante dato qualitativo in termini di usabilità dello strumento militare e della sua proiettabilità).

Inoltre, il Regno Unito è fondamentale per il finanziamento della ricerca EU nel settore militare (il 43% del totale degli investimenti effettuati dai paesi partecipanti alle attività dell’EDA sono UK – cfr. Clindengal Institute, 2017) e per le attività legate alla CSDP (nel 2017, contingenti britannici sono stati impegnati in ben 5 delle 6 missioni militari condotte).

Il beneficio è però biunivoco, in quanto la multidimensionalità della minaccia (terrorismo, rischi connessi al dominio cyber non fronteggiabili da un solo stato nazionale e focolai d’instabilità che affliggono l’immediato vicinato europeo e che sono causa delle migrazioni che tanta parte hanno avuto, nel risultato del referendum) non può essere gestita in via unilaterale.

Questo quadro si innesta in alcune valutazioni geopolitiche che non possono prescindere dall’analisi di contesto che stiamo cercando di fare. Provando, quindi, ad allontanare la fuga prospettica, troviamo due attori, che sono estremamente coinvolti nell’affaire: parliamo, ovviamente, della Russia e degli Stati Uniti.

Quello a cui assistiamo è un progressivo disimpegno americano in Europa, fedele ad una impostazione pre-wilsoniana dell’interpretazione del ruolo statunitense nell’ordine mondiale, ed un graduale riacutizzarsi dello storico interesse “ad ovest” della Russia. In ambedue i casi, l’Unione Europea non ha altra alternativa se non quella di essere un attore geopolitico forte, a meno di non volersi condannare all’irrilevanza.

Date queste condizioni, Londra, non naviga in acque tranquille, ben comprendendo le implicazioni del progressivo disimpegno dell’alleato d’oltreoceano e della riconsiderazione della presenza USA in Medio Oriente. Per tale ragione, la cooperazione UK-EU non può venir meno in nessun caso.

Volgendo lo sguardo ad est, Mosca fu la capitale meno “traumatizzata” dal voto referendario del 2016. Londra fuori dall’Unione, infatti, potrebbe significare meno influenza USA su Bruxelles, unita ad una NATO più debole e una posizione di vulnerabilità dell’EU nei confronti di Mosca e degli alleati di Putin tra i 27.

Alla luce di queste poche valutazione, è possibile dire che la “Global Britain” è uno slogan, uno dei tanti abusati dai Brexiteers, e quello che più sembra razionale oggi è puntare su una European Britain e forse su un complessivo ripensamento dell’ostinata volontà di procedere con Brexit, anche in virtù del fatto che gli ultimi sondaggi dicono che se si andasse al voto in un secondo referendum, il “remain” vincerebbe per almeno di 16 punti percentuali.

Il Great Game della Brexit è aperto; solo gli eventi ci diranno come si chiuderà. Per il momento sappiamo che a fine maggio l’Europa andrà al voto, con o senza il Regno Unito e nuovi elementi saranno messi sul piatto, senza, ad oggi, avere alcuna certezza, su quali essi saranno.

Antonello Fiorucci, laureato in Scienze internazionali e diplomatiche con tesi di laurea sulla rivoluzione degli affari militari (studio comparativo tra le due guerre del Golfo 1991-2003), presso l’Università di Bologna, sede di Forlì. Ha frequentato il master in studi diplomatici presso la Sioi dove ha anche completato il corso di formazione in esperto di politiche europee ed europrogettazione. Ad oggi svolge attività di consulenza e formazione sulle politiche ed i finanziamenti europei, presso soggetti pubblici e privati. Già autore di pubblicazioni su tematiche relative alla politica internazionale e agli studi strategici su periodici on-line e cartacei.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *