La Polonia in Ue tra passato e futuro. Tre domande per Varsavia

L’analisi di Teresa Coratella del think tank European Council on Foreign Relations (Ecfr) per la newsletter di Europa Atlantica sui Trenta anni dalla caduta del muro di Berlino, pubblicata su Formiche.net

Quando si chiede ad un cittadino polacco quale sia la figura simbolo e maggiormente rappresentativa della Polonia, le risposte variano spesso tra due o tre personaggi della cultura di massa e popolare: si passa da Giovanni Paolo II a Lech Walesa, senza dimenticare mai Zibi Boniek. Se invece si propone la stessa domanda agli inizi di novembre, la risposta è una sola: il generale polacco Józef Piłsudski, simbolo dell’indipendenza polacca e della nascita della seconda Repubblica di Polonia, avvenuta dopo la spartizione russa-prussiana-austriaca di ben 123 anni prima.

La figura di Piłsudski viene così celebrata ogni 11 novembre, tra le date più significative della storia dello stato polacco, insieme a quella del 3 maggio, festa di quella Costituzione del 1791 considerata tra le più illuminate e democratiche di Europa e del mondo.
Le celebrazioni polacche di questo anno hanno avuto un’inaspettata eco in Italia, attirando un’atipica attenzione dei media e dei commentatori politici. Purtroppo, non perché avessero avuto luogo a due giorni dal trentennale della caduta del Muro di Berlino, evento che rese la Polonia finalmente libera dopo 50 anni di occupazione prima nazista e poi sovietica e che permise allo stato polacco di diventare democrazia, entrare nella Nato, diventare membro dell’Ue, oltretutto tra i più prosperi economicamente.

L’attenzione italiana ed europea è invece scaturita dall’importante manifestazione organizzata a Varsavia da formazioni partitiche, e non, di estrema destra a colpi di slogan antisemiti, antieuropei, anti Lgbt, antiglobalizzazione, anti-Occidente. Come la consuetudine italiana ci insegna, se gli organizzatori hanno parlato di 150mila partecipanti, le forze dell’ordine hanno subito ridotto a 50mila, dato che rimane comunque impressionante.
Sebbene il nuovo governo a guida Pis non abbia accettato di aderire al corteo, è diventato subito bersaglio di forti critiche da parte di opposizione e analisti stranieri per il sostegno ad alcune delle posizioni dell’estrema destra polacca, soprattutto quelle in chiave anti-Europa e con forti connotazioni contro lo stato di diritto. Posizioni che hanno animato la campagna elettorale e che hanno contribuito alla riconferma del PiS che con il 44% dei voti governerà nuovamente la Polonia per altri 4 anni, probabilmente a colpi di welfare state e populismo.

Se la Polonia del 1989 incontrasse quella del 2019, cosa le chiederebbe? Tre sono gli argomenti su cui immagino avvenire la conversazione: economia, partner strategici ed allargamento.
La prima domanda, la più naturale: dove è finito lo spirito di Solidarność, quello che permise ai polacchi di rialzarsi, di rimboccarsi le maniche e fare della Polonia il paese con le più altre stime di crescita d’Europa? Se guardiamo alla Polonia di oggi, la Solidarność appare fioca ed oscurata da un senso di chiusura e negatività nei confronti del diverso, dell’Europa e di tutto ciò che costituisca una minaccia per il Paese, con ripercussioni non solo sul tessuto sociale, politico e religioso ma anche economico.
Secondo il recente rapporto Ecfr “Give the People What They Want: Popular Demand for a Strong European Foreign Policy’, pubblicato lo scorso settembre, gli europei vogliono che l’Ue diventi un attore forte, indipendente, non conflittuale e sufficientemente potente da evitare di schierarsi o di essere alla mercé di potenze esterne. Alla domanda se i cittadini europei si sentano protetti dalla Cina, argomento di conversazione molto divisivo e su cui l’Europa ancora non riesce ad adottare un approccio unitario, la risposta dei polacchi è esplicativa dello stato d’animo della società polacca del 2019: il 33% ritiene che la Polonia debba fare di più, il 23% vorrebbe che l’Ue faccia di più mentre solo l’11% si ritiene protetto. Inoltre, i polacchi si sentirebbero al meglio rappresentati economicamente prima dal proprio governo, poi dal governo e dall’UE e come terza opzione all’Ue.

La seconda domanda, forse la più banale, tuttavia sempre attuale per chi conosce la storia polacca, riguarderebbe certamente il grande vicino scomodo, ossia la Russia: Polonia del 2019, come vedi e guardi a quella Russia che per quasi 50 anni mi ha tenuto isolata dall’Occidente attraverso quel muro che ho contribuito a far cadere nel 1989?
Alla domanda su quale parte prendere in caso di conflitto tra Russia e Stati Uniti, gli intervistati polacchi hanno risposto in maniera sorprendente: il 33% a favore di Washington, il 6% a favore di Mosca mentre il 45% non preferirebbe nessuno. Questo dato mostra come i cittadini polacchi non ripongano la stessa fiducia di una volta negli Stati Uniti, quel partner strategico e previlegiato che nell’Europa unita ha offerto protezione, difesa militare e sostegno economico. Tuttavia, altresì interessante da notare, come in realtà la Polonia sia il Paese, tra i 14 intervistati, con il più alto grado di sostegno agli Stati Uniti.
Il 48% dei polacchi ritiene che la Russia stia tentando di destabilizzare le strutture politiche in Europa e che i governi europei non proteggano adeguatamente il proprio paese dalle interferenze straniere, seconda solo a Romania (56%) e Svezia (50%). La domanda sulle sanzioni verrebbe poi naturalmente, con la Polonia capolista sulla necessità di inasprimento di esse: il 55% degli intervistati non ritiene che le sanzioni siano abbastanza dure, percentuale seguita da Svezia con il 46%, Danimarca con il 45%, Spagna con il 42% per finire con la Slovacchia al 19%.

Il terzo e spontaneo quesito sarebbe ovviamente quello sull’allargamento, con una Polonia del 1989 totalmente ignara dei benefici che ne avrebbe tratto nel giro di pochi anni. Anche qui i dati sono sorprendenti: il 31% dei polacchi intervistati, terzi solo dopo Grecia e Romania, vorrebbero che tutti i Paesi dei Balcani occidentali aderissero all’Ue, senza alcuna distinzione, mentre solo il 9% in Germania, Francia ed Olanda condivide questa posizione. L’apertura nei confronti di un nuovo allargamento dimostra come il Paese sia oggi consapevole del previlegio di aver beneficiato di un tale processo e di come sia pronto ad accettare le sfide derivanti dal coinvolgimento di nuovi attori.
I dati sulla Polonia mostrano un Paese fortemente diviso, soprattutto tra città e zone rurali, tra chi vede nell’Europa il futuro del proprio Paese e chi invece preferisce la chiusura politica, economica e religiosa e sociale come metodo vincente. Il confronto/scontro con Bruxelles continuerà sicuramente soprattutto su dossier come stato di diritto, cambiamento climatico, struttura politica e riforme sociali.

I prossimi 4 anni saranno dunque determinanti per il Paese, con conseguenze, soprattutto economiche e sociali, i cui effetti verranno a galla negli anni a venire.
Sarebbe quindi molto curioso ritrovarsi nella futura conversazione tra la nostra Polonia di oggi e quella del 2049.

Teresa Coratella

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