Droni: Sorveglianza, Sicurezza, Guerra

Una famiglia sempre più estesa di oggetti volanti ridisegna le strategie e le sfide per fronteggiare minacce di vario genere. Ma apre anche uno scenario di grandi opportunità.

L’impatto dei droni nella società moderna continua a crescere in maniera esponenziale. Maggiore è l’affidabilità e l’efficienza, più numerosi diventano gli scenari operativi di impiego.

Già oggi i droni vengono impiegati con successo in una vasta gamma di attività inquadrabile come “lavoro aereo”.

Nel mondo numerosi corpi di polizia li adottano per attività di sicurezza; enti pubblici li usano per attività di monitoraggio delle strutture civili o analisi dei flussi migratori; società private li impiegano per assolvere alle più disparate funzioni come la consegna di pacchi – Amazon docet – o le riprese cinematografiche nelle produzioni hollywoodiane.

Oltre le attività professionali, i droni sono oggi reperibili a prezzi ragionevoli presso la grande distribuzione; un aeromodellista senza particolare preparazione per le sue attività ludiche utilizza gli stessi droni impiegati nel lavoro aereo.

Tra le attività possibili con i droni, dal 19 Dicembre del 2018 ne viene ufficialmente sdoganata un’altra sicuramente d’impatto: paralizzare scali aeroportuali di grandi dimensioni costringendo alla cancellazione centinaia di voli e lasciando a terra, senza rimborso, centinaia di migliaia di persone.

I fatti. Alle ore 21 (ora locale) di mercoledì 19 Dicembre London-Gatwick, secondo aeroporto di Londra e nono in Europa per numero di passeggeri – Fiumicino, primo in Italia, dopo anni passati a contendersi la posizione ora è stabilmente decimo – chiude. La chiusura si protrae quasi ininterrottamente per le successive trentasei ore; lo scalo riapre solo la mattina di venerdì 21 dicembre per poi venire nuovamente chiuso alcune ore nel pomeriggio e riaprire definitivamente in serata.

La stima dei disagi, sempre difficile da quantificare in eventi di grandi dimensioni, parla di quasi ottocento voli cancellati e centoquarantamila passeggeri lasciati a terra.

A causare la chiusura dello scalo londinese la presenza di un numero imprecisato di droni – forse soltanto uno in momenti diversi ma non è stato chiarito – rilevati in volo sopra le piste e avvistati almeno una cinquantina di volte nel corso delle ore di crisi. La “malizia” riscontrata nei voli in questione, spesso a pochi minuti dall’annuncio di riapertura dello scalo, lasciano intuire la volontà esplicita di paralizzare l’aeroporto. Sono state ipotizzate ipotesi più o meno fantasiose ma ad oggi non si conosce la motivazione alla radice del gesto.

Il ministro dei Trasporti britannico Chris Graying afferma che si è trattato di una situazione “senza precedenti nel mondo” e che “contiene lezioni da apprendere”. In realtà non è la prima volta che i droni interferiscono con le attività aeroportuali o generano situazioni di imbarazzo nel contesto della protezione delle infrastrutture critiche: senza tornare al caso più famoso del 2015 in cui droni non identificati vennero visti volare indisturbati sopra le centrali nucleari francesi, solo nel 2018 l’aeroporto di Wellington (Nuova Zelanda) è stato chiuso per trenta minuti per motivi analoghi mentre a Tijuana (Messico) un Boeing 737 ha subito danni dopo un impatto con un drone in fase di atterraggio.

A differenza dei casi citati l’impatto mediatico dell’evento di Gatwick è stato dirompente, sia per i numeri che si portava dietro sia per il senso di assoluta impotenza trasmesso dagli organi di comunicazione nazionali ed internazionali.

La stampa generalista ha tra l’altro focalizzato la sua attenzione sul fatto che la chiusura fosse motivata dalla mancanza di informazioni sulle intenzioni dei presunti sabotatori. In realtà il problema è di natura ben più basilare: in qualsiasi aeroporto del mondo, per questioni di sicurezza, in prossimità delle piste di decollo ed atterraggio non deve essere presente alcuna entità volante, vivente o inanimata che sia, indipendentemente dalle motivazioni che la spingono a volare nello scenario.

Se però nel corso degli anni sono stati identificati sistemi efficaci per tenere i volatili lontani dagli scali aeroportuali, per quanto concerne i droni è ancora tutto in divenire e, almeno a Gatwick, nulla era stato predisposto.

Il problema dell’accesso di droni in aree teoricamente off-limits è, attualmente, di difficile se non impossibile soluzione. Sebbene numerose sperimentazioni vengano portate avanti in ogni angolo del globo su sistemi “anti-drone”, le variabili in gioco assolutamente eterogenee – protocolli di comunicazione terra/drone, scenario in cui l’infrastruttura critica si colloca, capacità dei droni attuali in termini di velocità ed autonomia, etc. – rendono difficile una trattazione integrata del problema, da cui l’impossibilità di trovare “la Soluzione”, tecnologica o procedurale che sia.

Nel caso di Gatwick ad esempio dopo ventiquattrore di immobilità totale sono stati chiamati in causa i cecchini dell’esercito i quali, giunti sul posto, hanno dovuto escludere qualsiasi tipo di intervento mirato all’abbattimento a causa dell’eventualità che proiettili vaganti potessero colpire le abitazioni vicine. L’abbattimento tra l’altro non sarebbe comunque la soluzione ottimale nella maggior parte dei casi: basti pensare ai casi in cui il drone vola su assembramenti di persone (concerti, manifestazioni politiche, etc.) e,soprattutto, se utilizzato per finalità terroristiche ed equipaggiato con cariche esplosive.

La verità è che, sullo scenario da proteggere, un drone non autorizzato non solo non ci dovrebbe arrivare, ma non ci si dovrebbe neanche avvicinare. Ma come proteggere un perimetro di decine di chilometri – come nel caso di un aeroporto – da oggetti volanti spesso larghi non più di venti centimetri e capaci di volare a settanta chilometri orari? L’impossibilità di rispondere a questa domanda in maniera credibile alimenta la creatività sia nei produttori – che devono garantire come sicuri i propri mezzi – sia nei security manager delle grandi infrastrutture con alti standard di sicurezza.

DJI, leader mondiale nella produzione di droni commerciali, ha dotato i propri mezzi di un sistema di geolocalizzazione “smart” capace di inibire il decollo nelle no-fly zone. Sempre DJI ha di recente presentato Aeroscope, piattaforma dedicata per gli operatori di security capace di rilevare tutti i droni – ovviamente di marca DJI – in una determinata area. Per quanto DJI domini il mercato con circa il 70% dei droni in circolazione, oltre a porsi il problema del restante 30% bisogna anche pensare ad una criticità di base che non può essere affrontata né dai grandi produttori né dai security manager: i droni sono sistemi meccanicamente ed elettronicamente semplici. Internet è piena di guide alla progettazione di droni fai-da-te. Oggi la fabbricazione di un drone  non richiede particolari conoscenze aeronautiche e tutti i componenti necessari sono tranquillamente reperibili sul mercato e facilmente integrabili. A voler ripensare a quel 70% di droni teoricamente “coperti” poi bisogna puntualizzare che tutte le limitazioni proposte dal produttore per finalità di security sono oggi facilmente aggirabili tramite guide dedicate sempre presenti in rete.

E’ possibile in sostanza identificare un parallelismo tra il problema dei droni e gli esplosivi IED ed anche se nel secondo caso si è proceduto con la limitazione della reperibilità dei componenti precursori, nel primo purtroppo si sta assistendo ad un processo – pericolosamente – opposto. Il risultato è che oggi con un drone da 400€ è possibile volare a 70Km/h a 50km di distanza, azzerando le comunicazioni aria/terra tramite l’impiego di un autopilota e rendendo di fatto il drone, magari caricato con cariche esplosive temporizzate, assolutamente irrintracciabile. Ed è solo la punta dell’iceberg: nessuna agenzia di intelligence del mondo oggi può esimersi dal considerare i droni come pedine importanti, se non essenziali, nello scacchiere delle guerre – anche cyber – che verranno.

 

Marco Tesei ha conseguito la laurea in ingegneria aeronautica nel 2013 presso l’Università di Roma Tre. Le sue aree di ricerca sono le nuove tecnologie per la security, i droni e i sistemi di supporto decisionale basati sull’intelligenza artificiale. Vive a Roma.

 

 

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