Asimmetria e antiterrorismo nel tempo dei droni

L’analisi di Marco Tesei per la pubblicazione “2001-2021: Vent’anni di guerra al terrore” (Ed. START Insight) realizzata in collaborazione con Europa Atlantica

L’11 settembre ha rappresentato un evento epocale ed, in quanto tale, ha inevitabilmente portato profondi cambiamenti nel campo della sicurezza. Nello specifico, l’11 settembre è stato il pilastro che ha definitivamente segnato il cambiamento di prospettiva sul significato di “guerra asimmetrica”.

Da sempre l’asimmetria è stata intesa ed interpretata dando per scontato il concetto originario di guerra – la parola “werra” viene introdotta dai germanici durante il tardo impero e va a scalzare il “bellum” latino – che vede due schieramenti contrapposti. L’asimmetria è stata per secoli associata semplicemente al patrimonio militare, tecnologico ed umano a favore di uno schieramento o dell’altro. Sempre secondo la visione “canonica”, in caso di profonda disparità tra i due contendenti nel patrimonio di cui sopra, si parla di asimmetria.

Negli anni Novanta – e la Prima Guerra del Golfo è probabilmente una sublimazione dell’asimmetria canonicamente intesa, con gli Stati Uniti capaci di trasformare il proprio vantaggio tecnologico e umano in supremazia militare – una visione alternativa comincia ad accreditarsi. Due militari cinesi, Liang e Xiangsui, scrivono un libro dal titolo “Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione”. In sintesi, i due autori, probabilmente anche influenzati dal proprio contesto (all’epoca la Cina era tecnologicamente arretrata), prendono in considerazione le guerre contemporanee, la crescita del terrorismo e l’avvento della globalizzazione, sostenendo di fatto che possono convivere diverse interpretazioni di asimmetria militare. Gli autori slegano l’asimmetria dal concetto canonico di guerra: non più due schieramenti militarmente contrapposti bensì soltanto “due schieramenti”; non necessariamente milizie regolari (o irregolari), ma anche (o più semplicemente) entità con interessi contrapposti e capaci di confrontarsi. Gli schieramenti, poi, non è detto che debbano necessariamente confrontarsi sul piano militare: qualsiasi scenario (finanziario, commerciale, culturale etc.) diventa “campo di battaglia” e quindi parte integrante della guerra.

Nella concezione proposta, l’asimmetria di fatto “esplode” e vanno a trovare spazio entità profondamente diversificate prima difficili da inquadrare, dai gruppi terroristici agli hacker. La “guerra non convenzionale” trova a sua volta identità nella nuova definizione nonostante sia spesso associata al negativo – appunto, non convenzionale – della guerra canonicamente detta: il più debole militarmente o tecnologicamente, escogita soluzioni alternative e non convenzionali (negli scenari menzionati sopra) per ridurre il divario con la controparte.

Gli stessi autori identificano proprio in Osama Bin Laden un teorico di quella che sarebbe diventata di lì a breve la guerra del nuovo millennio: non convenzionale ed asimmetrica. Era il 1996; passeranno altri cinque anni e l’ascesa di Al-Qaeda con la successiva risposta americana basata sulla Guerra al Terrore (cosiddetta “Dottrina Bush”) renderanno le guerre asimmetriche una prassi per i successivi vent’anni.

Prima si accennava a scenari e strumenti diversi. Uno degli “strumenti” privilegiati che hanno visto la propria consacrazione proprio all’alba del nuovo millennio, intrinsecamente asimmetrico per molti motivi di cui parleremo, è il drone. Strumento bellico noto ed utilizzato fin dalla prima metà del ventesimo secolo, era già impiegato durante la guerra in Vietnam per attività di ricognizione. Tuttavia, è neanche un anno dopo l’11 settembre che avviene “l’ultimo passo”: il drone, da ottimo strumento per attività ISTAR (intelligence, surveillance, target acquisition, reconnaissance), diventa arma. Nel 2002 i primi missili Hellfire vengono impiegati su velivoli autonomi a pilotaggio remoto per colpire obiettivi di interesse militare.

Clausewitz diceva che “la guerra è un duello su vasta scala”. La parola stessa “duello” deriva da “bellum”, per quanto modificata introducendo “duo” in modo da rendere ancor più chiaro il concetto: due contendenti. Due contendenti che si incontrano su un campo di battaglia e dove il migliore “disarma o abbatte” (sempre per dirla con Clausewitz) l’avversario. Il drone introduce qualcosa di nuovo: l’avversario non è fisicamente presente sul campo di battaglia. Il tema della superiorità aerea è di un secolo antecedente all’uso dei droni, ma sono i droni che per primi portano questa innovazione dirompente: il nemico non è presente e la sua manifestazione fisica sul campo è addirittura sacrificabile.

Il generale Westmoreland in Vietnam preconizzava la Network-Centric-Warfare parlando di come le informazioni ed i computer avrebbero influenzato la guerra del futuro. Lo stesso Westmoreland parla di “controllo di tiro automatizzato”: il drone è l’anello di congiunzione tra la NCW e la guerra del futuro, dove a sacrificarsi sul campo di battaglia saranno pezzi di ferro automatizzati, senza rischio di vite umane.

Dal 2001 con la seconda Guerra del Golfo prima e l’Afghanistan poi, la guerra al terrorismo ha giustificato un impiego sempre più massiccio dei droni per attività militari attive ed eliminazione/distruzione di obiettivi. Se da un lato la fazione “militarmente inferiore” punta sull’eliminazione generalizzata di soldati tramite attività di guerriglia volte ad influenzare l’opinione pubblica, il lato “tecnologicamente superiore” si aggiorna riducendo il numero di soldati in prima linea attraverso l’impiego di sistemi automatizzati. David Deptula, ufficiale dell’Air Force, nel 2007 parlava di “proiettare forza senza emanare vulnerabilità”. Definizione semplicemente perfetta.

Dal 2001 gli Stati Uniti hanno operato con droni armati (o UCAV, unmanned aerial combat vehicle) in tutti gli scenari che li hanno visti coinvolti, con ampio uso in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Somalia e Yemen. Un successo talmente dirompente – ampiamente impiegato anche durante l’amministrazione Obama – da entrare nelle agende strategiche di tutte le principali nazioni del mondo. Vent’anni di evoluzione tecnologica ed abbattimento dei costi hanno così portato una moltitudine di nuovi attori a dotarsi di sistemi UCAV. Laddove non arriva la tecnologia proprietaria – dopo decenni di sostanziale duopolio da parte degli USA e Israele, ora altre nazioni sono in grado di produrre droni sofisticati in casa –, arrivano i soldi.

Nuovi esportatori come Turchia, Russia e Cina, ma anche Iran ed Emirati Arabi, hanno consentito anche a paesi tecnologicamente arretrati di dotarsi di sistemi UCAV. Il Center for the Study of Drone (Bard College di New York) stima che oggi nel mondo ci siano circa trentamila droni militari, di cui un terzo solo negli Stati Uniti. Nel 2010 neanche quaranta nazioni disponevano di tale tecnologia, ad oggi sono un centinaio. Solo in Medio Oriente, tredici stati si sono dotati di sistemi UCAV, mentre la Cina fornisce droni al Pakistan e all’Egitto. La Turchia è poi particolarmente attiva, con le aziende Turkish Aerospace e Baykar Defense: la seconda già nel 2014 produceva il primo UCAV (Bayraktar TB2) ora ampiamente impiegato non solo in patria, ma anche in Azerbaijan, Libia, Qatar ed Ucraina. Gli stessi Stati Uniti restano principali esportatori, prevalentemente impegnati a rifornire gli alleati istituzionali (NATO, anche l’Italia) e strategici nello scacchiere geopolitico (Taiwan).

Tornando alla asimmetria, i droni come detto rappresentano di sicuro un fattore. Eppure, a voler studiare i droni nel contesto bellico emerge una peculiarità non comune: il drone influenza le modalità di “guerra asimmetrica” da ben due punti di vista distinti.

L’asimmetria canonica è stata menzionata in precedenza: i moderni UCAV sono strumenti ad altissima tecnologia, capaci di rientrare nelle disponibilità solo di entità statali opportunamente organizzate e finanziate e vengono impiegati con la finalità di “disarmare e abbattere” il nemico.

Il drone, tuttavia, può essere sia strumento ad altissima tecnologia sia dispositivo intrinsecamente semplice, spesso di derivazione aeromodellistica, e di facilissimo reperimento sul mercato. E così il sottobosco di aeromodellisti, ingegneri ed amatori, se inseriti in un contesto bellico, hanno avuto vita facile per adattare il giocattolo commerciale ad attività di guerriglia e terrorismo. Basta un drone da qualche migliaio di euro, delle palline da volano ed esplosivo in quantità adeguate a trasformare un drone in un piccolo bombardiere, con costi di sistema infinitesimali se paragonati ad un singolo missile Hellfire. È facile reperire in rete foto o anche progetti di droni equipaggiati con pipe-bomb (dei tubi caricati ad esplosivo ed elementi metallici, di fatto un “fucile a pallettoni” a colpo singolo) che per quanto non dispongano di sofisticati sistemi di puntamento, possono comunque risultare strumenti efficaci in contesti di guerriglia urbana. È inoltre possibile sfruttare il drone come vettore di trasporto per informazioni, droga, materiale radiogeno o esplosivo, consentendo di adattare la stessa tecnologia (il drone), a seconda del contesto, come vettore o esso stesso come arma sacrificabile. Come proteggersi da uno strumento così versatile, di facile reperimento e modulare, in un contesto bellico? Nonostante tutta la tecnologia ed i finanziamenti a disposizione della controparte “forte”, la questione è comunque spinosa. Il drone, in sostanza, è parte integrante delle nuove guerre non convenzionali, appunto asimmetriche, dove alla messa sul campo di uno strumento a basso costo è necessario rispondere con un ampio effort per difendersi dallo stesso. I sistemi “anti-drone” – e le virgolette sono d’obbligo, in quanto non può esistere una soluzione univoca ad uno strumento così polivalente – hanno costi esponenzialmente superiori al drone stesso che dovrebbero neutralizzare. Un drone è in grado di colpire e danneggiare un velivolo dal costo infinitamente superiore, bloccare aeroporti, sabotare una delle principali raffinerie del mondo o svolgere attività dimostrative (indisturbati), volando su aree teoricamente super protette come centrali nucleari. Tutto molto “asimmetrico”.

In conclusione, è possibile affermare che il “dualismo” rappresentato dai droni nel contesto di guerra moderna (ed asimmetrica) sia destinato a durare ancora a lungo. Almeno fin quando la maturazione tecnologica sarà tale da normalizzare il loro contributo sullo scacchiere, contributo ad oggi ancora tutto da esplorare e comunque influenzato dai fondi a disposizione, dal payload installato e, più in generale, dalle finalità di utilizzo. L’11 settembre ha così contribuito in maniera determinante non solo ad innescare un nuovo modo di fare la guerra, ma anche a nuovi strumenti per combatterla.

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