Joe Biden, una speranza in più per l’Africa

Le prospettive possibili, tra continuità e nuove priorità, della strategia americana verso l’Africa dopo l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, nell’analisi di Enrico Borghi.

Negli ultimi 20 anni la politica estera degli Usa in Africa, al di là di variazioni di toni e stile impiegati, si è sviluppata, concretamente, lungo una linea di continuità che ha trasceso gli schieramenti politici ed è rimasta perlopiù immutata.

Tale continuità è stata tradotta dai tre Presidenti del ventennio 2000-2020 (George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump) in una serie di priorità sostanzialmente invariate: interventi di contro-terrorismo, politiche di cooperazione allo sviluppo, ad esempio i programmi presidenziali lanciati da Bush (President’s Emergency Plan for AIDS Relief, PEPFAR) e Obama (Young African Leaders Initiative; Feed the Future; Power Africa), nonché i piani di assistenza umanitaria.

Per assecondare gli obiettivi strategici legati al rafforzamento delle relazioni commerciali e degli investimenti statunitensi n Africa, a fronte di un costante declino sperimentato negli ultimi anni – nel 2018 l’Africa contava per l’1,6% del commercio globale degli Usa, e per lo 0,8% degli investimenti diretti esteri, la metà circa rispetto ai valori apicali toccati nel 2010 – l’amministrazione Trump ha varato il programma governativo Prosper Africa.

L’iniziativa si propone di fornire supporto tecnico all’attività degli attori privati statunitensi, mobilitando risorse e armonizzando le iniziative già in campo. Si inserisce nel solco tracciato dall’African Growth and Opportunity Act (AGOA) – introdotto da Clinton nel 2000, rafforzato da Bush, prorogato da Obama nel 2015 per ulteriori 10 anni e mantenuto in vita da Trump, che consente alle merci africane di accedere liberamente ai mercati statunitensi.

Peraltro, durante l’amministrazione Obama (2008-2016) si è assistito, paradossalmente per un presidente democratico, a un processo di militarizzazione ed incremento ulteriore della presenza statunitense in Africa, attraverso il rafforzamento del dispositivo dell’ Africa Command in e nel Corno d’Africa.

Altrettanto paradossalmente, Trump ha esplicitamente dimostrato, nell’ambito del motto “America First”, un crescente disinteresse degli Stati Uniti nei confronti delle missioni militari in Africa, con conseguenti pressioni per un ridimensionamento della presenza e dell’impegno finanziario degli Stati Uniti in Africa; tuttavia le resistenze del Congresso hanno di fatto assicurato che le principali iniziative nel continente restassero in vigore.

L’attentato di Tongo Tongo ha reso visibile all’opinione pubblica americana la presenza di contingenti statunitensi in Sahel, rimasta fino a quel momento meno evidente di quanto non fosse nei teatri di crisi in Medioriente e Asia centrale. Hanno, al contempo, fornito all’amministrazione un’occasione per mettere in discussione il contributo americano alla lotta contro i gruppi armati jihadisti, in un’area in cui è fondamentale il supporto logistico – in termini di intelligence, sorveglianza e riconoscimento, rifornimenti aerei, trasporto strategico – assicurato alle forze militari francesi dell’Operazione Barkhane.

Nel gennaio del 2020 l’allora segretario di stato alla difesa, Mark Esper, chiariva agli alleati la volontà americana di ridimensionare l’impegno militare in Sahel nel quadro di una più generale riorganizzazione delle truppe statunitensi all’estero che dovrebbe consentire di concentrare gli sforzi militari e le risorse economiche in aree del mondo considerate strategicamente più rilevanti a controbilanciare l’influenza crescente di Pechino e Mosca.

A oggi Africom conta circa 6 mila unità nel continente, tra cui 500 forze speciali in Somalia, poco meno dei 7.200 uomini di cui disponeva nel 2018. La capacità del dispositivo non ha subito tagli drastici, e la presenza americana in Africa resta articolata in una rete capillare di basi temporanee e permanenti.

Strategia di contrasto allinfluenza sino-russa in Africa

D’altro canto a partire dalla fine del 2018 , la “Nuova Strategia per lAfrica, presentata dall’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, durante un intervento alla Heritage Foundation, ha costituito il pilastro della politica estera Usa nella macro-regione. Filo conduttore del documento, la volontà strategica di controbilanciare la presenza cinese e russa in Africa attraverso il rafforzamento delle relazioni commerciali con il continente, nel quadro di una competizione globale in cui gli stati africani sono considerate pedine di interessi strategici globali e scenari in cui realizzare dinamiche di conflitti a bassa intensità e proxy-war (guerra per procura).

Da questo punto di vista, sotto un profilo politico-diplomatico, l’approccio dell’amministrazione Trump ad alcuni dossier africani è stato legato strettamente alla politica mediorientale e al sistema di alleanze degli Usa nella regione (Israele, Egitto, Arabia Saudita).

La rimozione del Sudan dalla lista degli stati sponsor del terrorismo (SST), in cambio del pagamento di un indennizzo alle vittime degli attacchi terroristici alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam nel 1998 – Khartoum ne era considerata politicamente responsabile, poiché il regime di Omar al-Bashir aveva ospitato al-Qaida e Bin Laden in territorio sudanese nel corso degli anni ’90 – e, soprattutto, della normalizzazione delle relazioni con Israele, ne ha fornito plastica dimostrazione.

Altrettanto eloquente è stata la posizione assunta dal governo nella controversia legata allo sfruttamento delle acque del Nilo. Gli Usa, che hanno ospitato a Washington i negoziati tra Egitto, Sudan ed Etiopia per il conseguimento di un accordo sui tempi di riempimento della Grande Diga del Rinascimento Etiopico (GERD), hanno assunto un ruolo percepito da Addis Abeba come parziale, favorevole all’alleato egiziano.

Secondo John Bolton, “le grandi potenze globali, Cina e Russia, stanno deliberatamente e aggressivamente sviluppando i loro investimenti nella regione allo scopo di ottenere un vantaggio competitivo sugli Stati Uniti”, sottolineando che la Cina ricorresse a “tangenti, accordi opachi, uso strategico del debito per tenere gli stati africani prigionieri delle volontà e delle richieste cinesi)”.

 Bolton ha aggiunto che la Russia, dal canto suo, tentasse di “accrescere l’influenza nella regione tramite accordi economici segnati da corruzione […] sviluppando relazioni politiche ed economiche senza alcun riguardo per una governance trasparente, responsiva e per i principi di rule of law” .  La minaccia agli interessi di sicurezza nazionale statunitensi risiedeva, in sostanza, nell’attivismo di Mosca e Pechino, che avrebbe recato pregiudizio all’indipendenza delle nazioni africane e, di conseguenza, alle opportunità di investimento statunitensi nel continente.

Le prospettive dopo lelezione di Biden.

L’elezione di Biden non determinerà verosimilmente un sostanziale cambio di rotta nella politica africana di Washington, coerentemente con una continuità strutturale in larga misura attribuibile al consenso parlamentare bipartisan che ne fa materia estranea allo scontro politico.

C’è da attendersi che le principali iniziative economico-commerciali in vigore, così come i piani di assistenza umanitaria e allo sviluppo, restino inalterati, e che una presenza militare di rilievo sia confermata, soprattutto negli scenari di crisi considerati più sensibili, dal Sahel al Corno d’Africa.

L’Africa potrà beneficiare di una rinnovata adesione del governo americano ai principi del multilateralismo – dal clima alla salute, dal commercio al peacekeeping – che dovrà essere sancita attraverso il ripristino della partecipazione Usa agli accordi di Parigi, l’adozione di un approccio nuovamente costruttivo in seno agli organismi internazionali e il sostegno alla nuova area di libero scambio africana.

Nel quadro della competizione strategica con la Cina e la Russia in Africa, è lecito aspettarsi che a uno scontro frontale possa sostituirsi un confronto meno conflittuale e, sotto certi aspetti, più cooperativo, ma non per questo meno saldo nella ricerca di una supremazia statunitense. La promozione di pratiche democratiche e del rispetto dei diritti umani nel continente costituirà probabilmente una priorità per la diplomazia americana, e il ritorno a uno stile presidenziale più convenzionale dovrebbe porre le basi per la costruzione di nuove partnership con gli stati e gli organismi regionali africani.

Per quanto concerne il dossier Libia, è plausibile ipotizzare che il generale Khalifa Haftar, potrebbe essere tra i primi ad essere colpiti dalla sconfitta del presidente degli Stati Uniti uscente, Donald Trump.

A riferirlo, il quotidiano al-Jazeera, secondo il quale il presidente neoeletto sembra aver assunto una posizione diversa rispetto al suo predecessore in merito alla percezione dei regimi arabi e al ruolo di Haftar, il quale era ben visto dall’ex capo della Casa Bianca, Trump.

In particolare, quest’ultimo, nel corso di una telefonata all’inizio dell’offensiva del Liberation National Army (Esercito di Liberazione Nazionale – LNA) contro Tripoli, intrapresa il 4 aprile 2019, aveva definito l’operazione di Haftar un tassello della lotta contro il terrorismo, volta a salvaguardare le strutture petrolifere del Paese Nord-africano. In questo modo, specifica al- Jazeera, il generale libico comprese di aver avuto il via libera di Washington ad invadere Tripoli.

Nonostante il lasciapassare statunitense e l’appoggio di Emirati Arabi Uniti (UAE), Egitto, Francia, Russia ed Arabia Saudita, l’LNA non è riuscito, però, a portare a termine la sua missione. A seguito delle conquiste delle forze di Tripoli che, grazie al sostegno della Turchia, a partire da maggio 2020, hanno cominciato a registrare notevoli progressi, l’esercito di Haftar si è visto costretto ad indietreggiare progressivamente dai propri obiettivi.

Il generale dell’LNA è uscito dal conflitto libico gravato da pesanti accuse di violazioni dei diritti umani, come testimoniato anche dalle cause legali aperte in Virginia, che vedono Haftar accusato di omicidi e torture, ed è proprio su tale questione che il Partito democratico di Biden, particolarmente interessato al tema dei diritti umani e della libertà di espressione, potrebbe rivolgere la propria attenzione nel futuro prossimo. Analisti e politici ritengono che gli alleati di Haftar abbiano consigliato al generale di approfittare dei prossimi mesi, che precedono l’insediamento di Biden, per riorganizzare la propria strategia, e per mostrare la sua buona volontà ad avviare un dialogo politico, con lo scopo di assicurarsi un ruolo sul palcoscenico libico.

In tale quadro, il consigliere del presidente del Governo di Accordo Nazionale per le relazioni con gli Stati Uniti, Muhammad al-Darrat, ha affermato che la vittoria di Biden alla Casa Bianca non avrà conseguenze immediate per la Libia nella fase attuale, ma potrebbe presto ridurre il margine di manovra di alcuni Paesi alleati di Washington, i quali interferiscono nel dossier libico in modo negativo. A detta di al-Darrat, la Libia non verrà inclusa tra le priorità del presidente Biden. Tuttavia, alcuni funzionari della nuova amministrazione che assumono posizioni nelle istituzioni interessate al fascicolo libico, come il Ministero degli Esteri, il Consiglio di sicurezza nazionale, il Ministero della Difesa, potrebbero imporre sanzioni alle parti che alimentano il conflitto libico.

A tal proposito, ha dichiarato al-Darrat in un’intervista con al-Jazeera, l’amministrazione Biden potrebbe mirare a ridurre l’influenza russa in Libia facendo pressione sugli alleati di Haftar che hanno favorito l’ingresso di Mosca in Libia, attraverso l’imposizione di sanzioni, oltre a muoversi più velocemente e in modo diretto con i Paesi che supportano il generale, mentre continuerà a sostenere il processo politico volto a portare stabilità politica e sicurezza nel Paese, e a perseguire i responsabili di crimini, Haftar.

D’altro lato, l’amministrazione Trump ha chiuso un occhio sull’intervento militare della Turchia in Libia e sul suo sostegno alle truppe tripoline, ma, con i cambiamenti alla presidenza, gli Stati Uniti non consentiranno più ad Ankara di minare la pace e la sicurezza internazionale, in quanto è anch’essa membro NATO, un’Organizzazione che si prevede riceverà maggiore supporto dal neoeletto Biden.

Enrico Borghi è Deputato, membro della Commissione Difesa e del Comitato Parlamentare per la sicurezza della Repubblica.


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