Gibuti, nel 2011 fu davvero una “Primavera”?

Nel 2011, tra gennaio e aprile, anche Gibuti fu traversato da manifestazioni che invocavano un cambio di regime e maggiore rispetto dei diritti umani. Le proteste furono represse rapidamente e il Presidente Guelleh resta ancora oggi al potere, in attesa delle elezioni dell’aprile 2021. Gibuti, Paese subsahariano legato al mondo arabo, ebbe una propria Primavera? Forse.

La breve Primavera di Gibuti

Per quanto il fenomeno sia stato più intenso e incisivo in Nordafrica e in Medio Oriente, le Primavere arabe hanno ispirato – direttamente e indirettamente – alcuni movimenti anche nei Paesi subsahariani. Tra questi rientra Gibuti, interessato da una breve ondata di proteste comprese tra il gennaio e l’aprile 2011 che per tempistiche e contiguità dello Stato al mondo arabo – senza esserne del tutto parte – possono essere inserite nel contesto di quegli eventi capaci di cambiare rapidamente molte tendenze geopolitiche.
Prima di riflettere sulle caratteristiche della Primavera di Gibuti potrebbe essere utile contestualizzare i fatti e ripercorrere in breve gli accadimenti di dieci anni fa. Le manifestazioni nel piccolo, ma strategico Paese sul Golfo di Aden cominciarono alla fine del gennaio 2011, quando la capitale Gibuti fu attraversata da diverse manifestazioni contro il Presidente Ismail Omar Guelleh, che nel 2010 aveva modificato la Costituzione per potersi garantire un terzo mandato alle elezioni del successivo aprile. Guelleh, tuttora in carica dal 1999, già ai vertici della polizia segreta e nipote del precedente capo dello Stato, Hassan Gouled Aptidon, è accusato di aver istituito un regime autoritario, nel quale le violazioni dei diritti umani e la corruzione sono pratiche comuni. Il 25 gennaio 2011 migliaia di cittadini scesero in strada a Gibuti in segno di protesta, ma il culmine fu raggiunto alcune settimane dopo, il 18 febbraio, quando manifestanti e partiti politici di opposizione si riunirono per chiedere il ripristino della Costituzione, maggiori libertà e le dimissioni del Presidente. La reazione delle Autorità fu molto dura e negli scontri si registrarono almeno due vittime. Nei giorni successivi il Governo procedette con centinaia di arresti e con un’opera intensa di censura dei mezzi di comunicazione, chiudendo i luoghi di ritrovo dei manifestanti e silenziando le opposizioni. Secondo alcune testimonianze non mancarono nemmeno casi di tortura. Il ministro della Giustizia, Mohammed Barkat Abdillahi, rimosse persino un giudice con l’accusa di eccessivo garantismo nei confronti degli imputati, accusati di danneggiamenti, aggressioni e manifestazioni non autorizzate. Lo stesso Guelleh ha negato a più riprese che le proteste avessero carattere politico, liquidandole come «espressioni di un malessere puramente sociale» strumentalizzate dalle opposizioni. I dimostranti avevano programmato un corteo ogni venerdì fino all’8 aprile, data delle elezioni presidenziali, ma le Autorità dispersero qualsiasi assembramento (in particolare il 25 febbraio e il 4 marzo), presidiando la capitale, arrestando importanti esponenti politici e bandendo dal Paese alcune organizzazioni per i diritti umani. Le opposizioni furono compatte nel boicottare le urne, perdendo quindi anche formalmente il diritto di tribuna nelle due settimane precedenti il voto, durante le quali potevano essere autorizzate soltanto le iniziative pubbliche di partiti che presentassero candidati. Le consultazioni si svolsero come previsto l’8 aprile, consegnando a Guelleh la vittoria (81%) sul rivale indipendente Mohamed Warsama Ragueh, a fronte di un’affluenza del 70%.

Alcuni fattori avversi interni

L’immagine che emerge dal rapido panorama della potenziale Primavera di Gibuti è di una rivolta breve, piuttosto concentrata nelle rivendicazioni e nel dibattito, tendenzialmente distaccata rispetto a una dimensione internazionalistica e alla fine priva di risultati – al punto che non tutti i commentatori concordano nell’inserire direttamente i fatti del 2011 nell’elenco delle rivolte arabe. In questo senso si potrebbe sostenere che le proteste di Gibuti abbiano certo risentito del clima generale in Nordafrica e Medio Oriente, ma siano state poi declinate in un contesto più subsahariano che arabo. La capacità di Guelleh di tenere sotto controllo la capitale, comprimendo l’onda delle manifestazioni in un intervallo di poche settimane e riuscendo addirittura ad anticipare le mosse delle opposizioni, così come la rivendicazione di una vittoria elettorale basata su un’affluenza elevata potrebbero essere connesse alla costante tensione che il Presidente ha impresso a Gibuti, anche tramite la sistemica narrazione emergenziale sulla lotta al terrorismo – Guelleh si propose come alleato degli USA già all’indomani dell’11 Settembre. Dagli anni Duemila il Paese è stato più volte interessato da manifestazioni anti-governative sedate violentemente, soprattutto in circostanze elettorali (2005, 2013, 2015-2016), e Guelleh ha sempre accusato gli oppositori di puntare alla destabilizzazione e alla divisione della comunità nazionale. Questo aspetto può essere ulteriormente ampliato sulla base della storia di Gibuti, laddove Guelleh e il suo Raggruppamento Popolare per il Progresso (RPP) sono considerati direttamente legati all’indipendenza dalla Francia (1977), sulla scia della dinamica, presente in vari casi subsahariani, per la quale la partecipazione alla lotta per la decolonizzazione garantisce legittimazione e onorabilità, oltre a rendere accettabile  il rinnovamento solo nell’alveo della continuità. In merito è importante citare un altro aspetto, cioè che la Primavera di Gibuti è avvenuta a meno di venti anni dall’apertura al multipartitismo tramite la riforma costituzionale del 1992. La misura, sostenuta da un referendum, consentì la legalizzazione del Fronte per la Restaurazione dell’Unità e della Democrazia (FRUD), il partito dell’etnia afar, che rappresenta il 35% della popolazione di Gibuti, a fronte del 60% costituito dal clan somalo degli issa (di cui è membro Guelleh). Il FRUD fu cooptato nella maggioranza parlamentare già nel 1997, una mossa che consentì sia di mantenere il potere nelle mani dell’RPP, presentando il Governo come coalizione derivante dall’esperienza nazionale della decolonizzazione, sia di confermare formalmente l’impegno al pluralismo (mascherato) e alla democrazia (protetta), sia, infine, di trasmettere un senso di unità e pacificazione. Le forze governative di Gibuti e alcuni rami del FRUD si erano infatti fronteggiati in una guerra civile combattuta a più riprese tra il 1991 e il 2001. A Gibuti nel 2011 era ancora viva quindi la memoria del conflitto interno, ma era anche nota la situazione nei Paesi vicini – Eritrea, Somalia, Etiopia e Yemen, – al punto che il timore di ricadere nel disordine poteva essere ben cavalcato dalla narrazione emergenziale di Guelleh contro il «malessere sociale strumentalizzato». Tra l’altro la stessa demografia di Gibuti può contribuire a motivare la scarsa integrazione internazionale delle rivolte locali, che hanno preso spunto dai movimenti in Nordafrica, ma che al contempo si sono presentati in un Paese sicuramente musulmano sunnita, appartenente alla Lega Araba e nel quale l’arabo è una lingua ufficiale, eppure non etnicamente arabo, né poi così storicamente e politicamente esposto sul versante del panarabismo.

Il ruolo geostrategico di Gibuti e la presenza straniera

Un elemento importante per il fallimento delle proteste del 2011 – e delle seguenti – è inoltre la stabilità richiesta e al contempo favorita dalla presenza militare straniera a Gibuti, in un contesto di ridotte dimensione (circa 900mila abitanti in 23mila chilometri quadrati). La strategicità del Paese nell’agone internazionale deriva innanzitutto dalla sua posizione lungo fondamentali direttrici geopolitiche tra il Mar Rosso, l’Oceano Indiano e il Corno d’Africa, sulla sponda occidentale dello Stretto di Bab el-Mandeb, incastonata tra Etiopia, Eritrea e Somalia. Gibuti è crocevia e piattaforma militare per i principali attori internazionali e i rispettivi interessi divergenti. La Francia – garante dell’indipendenza e dell’integrità territoriale di Gibuti in virtù dello specifico trattato del 21 dicembre 2011 – mantiene nel Paese una delle principali basi militari all’estero, per conservare una capacità di proiezione sia verso l’Oceano Indiano, sia verso l’Africa centrale. A Gibuti è presente dal 2002 anche l’unica base permanente degli USA in Africa, la celebre Camp Lemonnier, che ospita la Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA) dell’AFRICOM, emblema dei forti rapporti del Paese con Washington. Tramite Camp Lemonnier gli Stati Uniti possono agire tanto nel Corno d’Africa (soprattutto in Somalia), quanto nella Penisola araba, estendendo il raggio verso il Medio Oriente e l’Oceano Indiano. Analogamente Gibuti è un caposaldo per le missioni internazionali anti-pirateria, dall’operazione Ocean Shield della NATO (conclusa nel 2016) all’operazione Atalanta (EU NAVFOR Somalia), fino alla multinazionale Combined Task Force 151. Tutti i maggiori protagonisti globali sono presenti in qualche modo nel Paese, compresa l’Italia, che nel 2013 ha inaugurato la Base Militare di Supporto Amedeo Guillet. A Gibuti è stata realizzata anche la prima base militare giapponese all’estero del dopoguerra. Da alcuni anni, però, l’attore in ascesa è la Cina, che ha inserito le proprie installazioni militari, inaugurate nel 2017, all’interno del più ampio progetto della Via della Seta Marittima, investendo – non sempre con successo, come nel caso della ferrovia Addis Abeba-Gibuti – anche in progetti infrastrutturali internazionali che possano unire il sistema portuale locale ai mastodontici e ambiziosi corridoi logistici programmati in Africa nei prossimi anni, dall’asse Sud Sudan-Kenya (LAPSSET) fino alla rete di collegamento tra le due coste oceaniche del Continente. La presenza cinese non sta certo passando inosservata agli USA, che più volte hanno manifestato le proprie rimostranze al Presidente Guelleh, deciso però a tenere aperti quanti più tavoli possibile. Nemmeno gli attori arabi sembrano propensi ad accettare l’attivismo di Pechino nell’area: gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno cominciato a investire in modo consistente nell’alternativa a Gibuti, il vicino porto di Berbera, nel Somaliland, accelerando l’avvicinamento per reazione di Mogadiscio ad Ankara.

Verso le elezioni del 2021: stessa storia?

Gi elementi accennati (il controllo dell’apparato della sicurezza e dell’opinione pubblica, il multipartitismo mascherato con cooptazione degli avversari, il timore dell’instabilità e del terrorismo, le identità etniche e la presenza straniera) possono essere parte di una lettura a più livelli del fallimento delle proteste del 2011 a Gibuti, rimaste ai margini delle Primavere arabe. La peculiare natura del Paese, formalmente inserito nel mondo arabo, a cavallo tra Africa e Medio Oriente, ma integrato nelle dinamiche subsahariane, ha inciso sui movimenti dell’epoca forse più della repressione attuata dal Governo, così come la necessità di stabilità richiesta dai partner esteri per il ruolo geopolitico del Paese, base strategica per le minacce multidimensionali della zona e per le linee di proiezione in Africa e nell’Oceano Indiano. A distanza di dieci anni ben poco è rimasto della tiepida Primavera di Gibuti. I tentativi dell’opposizione di ottenere un cambio di regime si sono scontrati anche successivamente contro Guelleh ed è molto probabile che le imminenti elezioni dell’aprile 2021 seguano una tendenza analoga al passato, con limitazioni ai diritti delle opposizioni e con il Presidente in posizione di netto vantaggio per il quinto mandato.

Beniamino Franceschini, è laureato in Studi Internazionali all’Università di Pisa, si occupa di geopolitica e di comunicazione politica. È vicepresidente dell’associazione Il Caffè Geopolitico, per la quale coordina anche il desk Africa subsahariana.


Immagine tratta da Pixabay

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