La scelta di Trump tra “America first” e Cina

L’annuncio improvviso dato dal Presidente Donald Trump del ritiro delle truppe americane dalla Siria, a cui potrebbe fare seguito anche una riduzione degli uomini impegnati sul campo in Afghanistan, ha prodotto una specie di terremoto politico internazionale e nazionale, con ripercussioni immediate, vedi le dimissioni di James Mattis da Segretario alla Difesa. Ma le scosse di assestamento, dopo un simile sisma, sono destinate a ripetersi ancora nei prossimi giorni, negli Usa e nel resto del Mondo. Europa compresa.

Al netto delle indiscrezioni giornalistiche e delle valutazioni che in queste ore stanno emergendo, in gran parte negative, probabilmente sarebbe opportuno aspettare un po’ di tempo per capire meglio cosa accadrà e vedere davvero come si sostanzia sul campo questo annuncio twittato. Perché le ripercussioni operative, e anche di carattere strategico e politico, che potrebbe avere non sono banali: un ritiro non è mai semplice da realizzare e dalla Siria, come dal Medio Oriente, è sempre difficile allontanarsi. Un po’ di calma dunque, al momento, non guasta.

Ciò non toglie che basandoci sulle notizie attuali qualche valutazione non sia giusto farla. Perchè effettivamente la notizia è molto seria.

È evidente che questa scelta potrebbe essere frutto della coerenza con la tanto sbandierata idea dell’”America first”, vero cavallo di battaglia trumpiano in campagna elettorale e nei primi due anni di mandato, marcatamente figlia della tradizione isolazionista e nazionalista americana. Che del resto Trump ambisce a rappresentare e rilancia quotidianamente in più settori: economico, politico, commerciale. Quindi, l’idea potrebbe essere quella di un ripiegamento da un fronte scomodo e costoso a vantaggio, magari, di un maggiore interesse alla sicurezza interna, magari anche sulla difesa dei confini meridionali dell’Unione. Potrebbe inoltre essere il frutto dell’idea che gli USA non possono più essere i “poliziotti del Medio Oriente”, come del resto Trump ha detto e in diverse occasioni ha fatto intendere anche agli alleati occidentali. Ma in fondo, come tanti opinionisti hanno fatto notare in queste ore, il disimpegno trumpiano in Siria ricorda quello obamiano in Iraq. Lo stesso Obama in Siria aveva evitato di affondare i “Boots on the ground” anche nel momento del bisogno.

Una mossa di politica estera che guarda alla politica interna, in sintonia con quanto già adottato, a livello economico e a livello politico. Certo, in questi anni non sono mancate le svolte repentine e qualche contraddizione, da parte del Presidente, soprattutto in politica estera. Per questo la notizia va maneggiata con cura. Ma il ritiro potrebbe forse essere una scelta effetto di un altro importante tema di ordine strategico per il futuro: lo spostamento definitivo verso il Pacifico degli interessi e delle attenzioni americane. La competizione con la Cina in atto, sviluppato per ora soprattutto sul piano economico, tecnologico e cibernetico e in prospettiva capace di modificare gli equilibri geopolitici mondiali, sta assorbendo sempre più risorse da parte americana ed è al centro delle attenzioni dell’amministrazione presidenziale da tempo. Da qui, forse, possiamo ipotizzare la necessità di spostare uomini dal Medio Oriente, per magari concentrarsi sul Pacifico, come del resto aveva iniziato a fare sempre di più anche Obama. Dal punto di vista di Trump, dedicarsi esclusivamente alla Cina e al Pacifico, anche a livello militare, con un approccio sempre più incentrato sull’ hard power potrebbe avere un senso o essere coerente con la sua idea di politica estera, che privilegia approccio muscolare e accordi bilaterali. Come Korea insegna.

Detto questo, si tratta di una scelta che non possiamo sottovalutare perché potrebbe avere sul piano regionale e internazionale numerosi effetti. Innanzitutto potrebbe rappresentare una svolta e una vittoria inaspettata per l’Iran: da un simile scenario di disimpegno americano in Siria i primi che vincono sono evidentemente gli Iraniani. Anche più della Russia. Lo stesso Iran verso cui Trump aveva rialzato recentemente i toni del confronto. Iran che si potrebbe trovare la strada libera in Siria e potrebbe dare seguito al proposito di unificare sotto la sua egemonia tutta l’area che da Damasco giunge fino a Teheran. Passando anche per Beirut e Baghdad. Questa è la possibilità che spaventa moltissimo Israele.

Certamente all’Iran la presenza in Siria costa ed è già costata molto, al netto dei vantaggi militari ed economici che potrebbe trarre dall’avere strada libera, di sicuro la durezza degli Usa verso il regime degli Ayatollah non si attenuerà nei prossimi anni, proseguendo sul sentiero delle sanzioni economiche e diplomatiche, che su Teheran pesano notevolmente. Ma resta il dato odierno, ovvero che l’Iran potrebbe intanto approfittare, meglio degli altri, di questa imprevista svolta strategica.

Anche la Russia certamente potrà trarre un vantaggio, sul breve periodo, vista la sua presenza e il suo ruolo in Siria. Aumenterà probabilmente anche il proprio status nell’area. Ma è da verificare quanto, alla luce dei problemi di ordine interno ed economico che la Russia sconta e dell’isolamento internazionale attuale, i Russi potranno ancora restare così esposti e coinvolti in Siria. Al netto delle basi militari e degli interessi diretti nell’area, prolungare ancora a lungo l’esposizione attuale ( con i costi economici e i rischi conseguenti) potrebbe essere nel tempo sempre più difficile. La Russia di Putin, di cui spesso in Occidente si ha un’idea falsata per cui la si ritiene più forte e stabile di quanto in realtà non sia, palesa al contrario sempre di più problemi gravi di ordine interno di tipo economico. Forse il solido sistema di potere russo inizia a fare qualche scricchiolio? E poi, siamo davvero convinti che un ritiro americano non potrebbe spingere anche i Russi a ridurre la propria pressione in loco nel tempo? Infine, usciti di scena gli USA, non potrebbe nascere qualche frizione tra Mosca e Teheran sulla gestione della situazione in Siria? Al momento è difficile dirlo, di sicuro nelle scelte future della politica estera di Putin molto dipenderà anche dalla stabilità interna del suo paese.

Un effetto serio invece potrebbero essere le ricadute, non solo politiche ma anche di ordine “psicologico”, verso gli alleati degli Stati uniti. Non solo quelli impegnati in Siria o ai suoi confini, come i Curdi o Israele, che non hanno preso bene la notizia, ma anche i paesi europei coinvolti in Medio Oriente e i membri della NATO stessa, a cui più volte il Presidente ha chiesto maggiore impegno ed equilibrio nelle spese. Perché nei loro confronti l’impatto potrebbe essere negativo, dando l’idea che la politica estera americana sia diventata molto variabile e presagendo anche altre future svolte repentine, e perché questa scelta di ritiro di truppe riguarda anche l’Afghanistan, dove la NATO è presente da molti anni.

Infine il tema terrorismo, che riguarda la Siria, dove Daesh ancora resiste, anche se ridotto e indebolito e potrebbe approfittare per tentare di riemergere, ma riguarda soprattutto l’altro paese interessato, l’Afghanistan appunto. Ecco, l’Afghanistan, come la Siria, è un crocevia strategico a livello internazionale per i movimenti dei gruppi terroristici oltre che per gli interessi geopolitici di numerosi paesi. Sul fronte della lotta al terrorismo l’ipotesi di un disimpegno americano in Afghanistan, con una riduzione delle presenza sul campo, potrebbe essere una notizia anche peggiore di quella del ritiro dalla Siria. L’Afghanistan potrebbe tornare ancora di più ostaggio della minaccia e della presenza dei Talebani, come delle organizzazioni terroristiche da al Qaeda alle stesse milizie affiliate a Daesh presenti. Del resto già oggi è interessato da una presenza di radicali jihadisti e di gruppi armati avversi al governo afghano che potrebbero approfittare notevolmente del ritiro americano.

Certamente Trump potrebbe anche aver deciso di operare davvero uno strappo radicale, dopo anni di impegno americano all’estero, avviando concretamente una strategia di disimpegno progressivo degli USA, per lo meno da aree conflittuali come il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Si tratta di una scelta che ha una sua base di ordine politico e forse anche un poco propagandistica. Guarda alle elezioni tra un paio di anni e vuole rilanciare la strategia dell’America first. Forse potrebbe indurre anche a presagire un aumento di impegno verso il Pacifico, ma soprattutto, forse, è il sintomo evidente della volontà di ridurre la propria influenza in alcune sue aree del resto del mondo. E per questo, alla lunga, potrebbe essere una scelta miope. Perché come la storia recente insegna, dal Novecento a oggi, quando gli Usa si ritirano, non è che i problemi poi non arrivano comunque a bussare alle loro porte. Indubbiamente potrebbe essere un errore, perché quando si lascia uno spazio geografico o geopolitico vuoto qualcuno lo occupa sempre. Ma è sicuramente in sintonia con i richiami isolazionisti radicati in un pezzo della società e della tradizione politica americana a cui Trump guarda e parla. A cui vorrà rivolgersi in vista delle prossime scadenze elettorali, anche a rischio di aumentare le distanze con una parte rilevante del ceto politico americano, anche repubblicano.

In conclusione, quella di Trump potrebbe essere una scelta destinata a incidere notevolmente nei prossimi mesi sulla politica mondiale e in grado in prospettiva anche di influenzare i rapporti con noi europei oltre che con molti suoi alleati. L’America di Trump, ogni giorno di più, sembra guardare soprattutto a se stessa, ma con un occhio rivolto anche alla Cina.

Enrico Casini è Direttore dell’Associazione culturale Europa Atlantica

enrico.casini@europaatlantica.it

@casini_enrico

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