Una riflessione sulla politica estera di George H.W. Bush

A distanza di un mese dal funerale tenutosi il 5 dicembre 2018 alla Washington National Cathedral, la morte del 41esimo Presidente George H. W. Bush offre spunti di riflessione circa il ruolo degli Stati Uniti nel contesto internazionale. La presenza alle esequie di quattro ex presidenti (Jimmy Carter, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama) e di Donald Trump ha inevitabilmente offerto alla stampa un’imperdibile occasione di paragone e di strumentalizzazione politica[1]. Per quanto in politica la forma sia spesso sostanza, una riflessione più profonda sulla legacy di George H.W. Bush risulta interessante per approfondire alcuni aspetti del ruolo degli Stati Uniti nel sistema internazionale.

Eletto presidente nel 1989 dopo una lunga e prestigiosa carriera politica e diplomatica (Nazioni Unite e Repubblica Popolare Cinese in particolare), George H. W. Bush incentrò il proprio mandato principalmente sulla politica estera[2]. Il fallimento del programma di riforme intrapreso da Gorbaciov nel 1985 teso a rivitalizzare un sistema politico che appariva in stato di irreversibile decadenza, nel 1989 condusse tumultuosamente al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine del confronto bipolare. La fine della logica della Guerra Fredda, che per decenni aveva costituito la pietra angolare del sistema internazionale, ebbe come conseguenze una serie di mutamenti epocali nella distribuzione globale del potere economico, militare e politico[3].

Il mandato di George H. W. Bush (1989-1993) si snodò quindi inevitabilmente lungo la ridefinizione dell’egemonia americana in un contesto internazionale completamente variato, in cui una netta discontinuità nella conduzione della politica estera era imposta da fattori esogeni. Non solo il passaggio da un ordine mondiale bipolare ad un sistema monocentrico, ma anche il riemergere di numerose crisi regionali che la Guerra Fredda aveva sopito o congelato costituirono il banco di prova dell’unica superpotenza globale rimasta. Mentre a livello teorico si sviluppava un dibattito acceso riguardante se e con quali modalità la potenza americana avrebbe dovuto essere esercitata, il susseguirsi degli eventi imponeva agli Stati Uniti di agire.

In primo luogo, era essenziale definire le relazioni con ciò che restava dell’Unione Sovietica, detentrice del secondo arsenale nucleare mondiale. Bush portò a termine, prima con Gorbaciov poi con Eltsin, l’accordo sulla limitazione degli armamenti nucleari concretizzatosi definitivamente nel 1991 e nel 1992 con la firma rispettivamente dai trattati START I (Strategic Arms Reduction Treaty) e START II. Lo stesso atteggiamento prudente venne mantenuto dagli Stati Uniti nei confronti della disgregazione dell’Unione Sovietica (anche tramite accordi commerciali) i cui Paesi si riunivano dal 1991 nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e verso la fine del blocco socialista con la democratizzazione dei Paesi dell’Europa orientale. Per quanto invece riguarda il tema europeo più delicato, cioè l’inevitabile riunificazione della Germania, gli Stati Uniti ne favorirono l’istituzionalizzazione all’interno della Comunità Europea, nel processo che porterà nel febbraio 1992 alla firma del trattato di Maastricht.

La fine dell’equilibrio bipolare favorì inoltre l’esplosione di numerose crisi interne e regionali che il sistema bipolare aveva fino a quel momento paralizzato. L’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nell’agosto 1990 venne rapidamente sanzionata dalle Nazioni Unite che, dopo il mancato ritiro iracheno, intervennero militarmente[4] con una coalizione (29 Paesi) guidata dalla NATO che tra il 16 gennaio e il 28 febbraio 1991 sbaragliò le forze di Saddam Hussein. Una volta ottenuto quanto previsto dal mandato delle Nazioni Unite, la coalizione si ritirò. Quando le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia del giugno 1991 sfociarono in guerra aperta, dopo il fallimento europeo, gli Stati Uniti contribuirono all’approvazione della Risoluzione 724 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Piano Vance)[5]. Con la fine del sostegno di Mosca, nel gennaio 1991 la Somalia precipitò in una drammatica guerra civile che coinvolse le Nazioni Unite (prima con la missione UNOSOM[6], poi con la missione a guida americana UNITAF).

Le sfide di questo intenso periodo vennero gestite da Washington secondo una combinazione variabile di realismo politico e fiducia nella effettiva nascita di un nuovo sistema di relazioni internazionali post-Guerra Fredda[7]. Non tutte le azioni descritte si rivelarono dei successi per gli Stati Uniti e per la comunità internazionale, spesso contribuirono anzi a mostrare i limiti dell’egemonia americana. Tuttavia emerge, durante l’amministrazione di George H. W. Bush, una continua ricerca di consenso internazionale tramite le Nazioni Uniti e di collaborazione con gli alleati, in particolare con quelli della NATO.  Il tratto distintivo della politica estera statunitense in questa fase è dato dalla consapevolezza che l’egemonia globale americana, per quanto incontrastata a livello economico, militare e politico, non costituiva in sé garanzia di supremazia. La gestione e l’esercizio di tale egemonia poteva funzionare invece solo se limitata e completata da un processo di legittimazione e di inclusione militare e politica[8].

 

[1] Ad esempio: The Washington Post “George H.W. Bush’s funeral was a powerful renunciation of Trump”. Disponibile online: https://www.washingtonpost.com/opinions/george-hw-bushs-funeral-was-a-powerful-renunciation-of-trump/2018/12/05/e8c2a8a0-f8d2-11e8-8c9a-860ce2a8148f_story.html?noredirect=on&utm_term=.d5731830882b

[2] Kissinger H., Ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2014.

[3] Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali. Vol. 3: Dalla fine della guerra fredda a oggi, Laterza, Roma, 2016.

[4] United Nations, Security Council Resolution, S/RES/678 (1990).

[5] United Nations, Security Council Resolution, A/RES/724(1991).

[6] United Nations, Security Council Resolution, S/RES/751(1992).

[7] Del Pero M., Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011, Laterza, Bari, 2011.

[8] Di Nolfo E., Il disordine internazionale. Lotte per la supremazia dopo la guerra fredda, Mondadori, Milano 2012.

 

 

Valerio Cartocci ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali nel 2016 presso l’Università degli studi di Firenze. Le sue aree di ricerca sono la storia della politica estera italiana, i Balcani e la fine della Guerra fredda. Vive a Milano.

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