Lo sguardo atlantico di Papa Paolo VI

L’ultima tiara usata da un Papa è quella dell’incoronazione di Papa Montini, canonizzato come San Paolo VI il 14 ottobre dello scorso anno. Non la si trova in Vaticano ma negli Stati Uniti. È conservata nella Basilica della Immaculate Conception a Washington, santuario nazionale americano. Nel 1964, dopo pochi mesi di pontificato, il Santo Padre fece sapere che avrebbe venduto la tiara e il ricavato sarebbe stato donato in beneficenza. Così Francis Spellman, cardinale arcivescovo di New York, la acquistò con una sottoscrizione che raccolse un milione di dollari.

Ma fu il discorso che pronunciò il 4 ottobre 1965 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in vista del ventesimo anniversario della fondazione dell’Onu, a lasciare il segno indelebile della presenza di Papa Montini, primo Pontefice in terra americana. Più che un discorso, fu un “supplemento d’anima” per una nazione sempre più spesso spaesata e soulless, nonostante la quantità di servizi sociali di ispirazione cristiana – ospedali, centri d’accoglienza, mense, asili, scuole, università – messi a disposizione – insieme con una classe dirigente di formazione cattolica – ai vertici politici, militari e giudiziari del paese.

Questo “raggiungere l’America” di Paolo VI fu pianificato con accuratezza dalla Santa Sede. Ci sono infatti una serie discorsi ufficiali del Papa di preparazione e di commento al ritorno, in particolare un messaggio all’Italia e un intervento al Concilio Vaticano II in assise plenaria. E due episodi sono in questo senso significativi nelle cronache pontificie.

In una testimonianza il segretario monsignor Macchi ricorda: “Fui costretto a svegliarlo alle tre di notte, quando il 23 novembre del 1963 giunse la notizia che, a Dallas, era stato assassinato il presidente degli Stati Uniti” che il Papa aveva ricevuto poco tempo prima. “Il Pontefice fu molto scosso. Mezz’ora dopo, in piena notte, fece chiamare gli operatori TV, indossò gli abiti papali per un’intervista televisiva per la Abc. Papa Montini pianse senza controllo dinanzi alla foto che Kennedy gli aveva donato con il suo autografo”.

Il particolare legame con gli Stati Uniti può essere testimoniato anche dal discusso incontro che ebbe il 18 settembre 1964 ricevendo in udienza privata in Vaticano il pastore protestante Martin Luther King. Tre giorni dopo l’assassinio, la Domenica delle Palme, il Santo Padre lo ricordò all’Angelus con le seguenti parole: “Possa l’esecrando delitto assumere valore di sacrificio; non odio, non vendetta, non nuovo abisso fra cittadini d’una stessa grande e nobile terra si faccia più profondo, ma un nuovo comune proposito di perdono, di pace, di riconciliazione nell’eguaglianza di liberi e giusti diritti s’imponga alle ingiuste discriminazioni e alle lotte presenti”.

Ma Paolo VI guardava a questo orizzonte ancor prima di essere Papa. Quando era cardinale  aveva già avuto modo di andare  negli Stati Uniti durante i suoi anni come Arcivescovo di Milano, dettaglio questo alquanto interessante per il tempo. Nel 1960, infatti, visita la University of Notre Dame Du Lac, in Indiana, conosciuta come “Notre Dame University”, uno dei più importanti centri universitari cattolici degli Usa per la  presenza di un’Ambrosiana Microfilm Collection presso il suo Medieval Institute. In quell’occasione gli fu conferita la laurea honoris causa, insieme al presidente degli Stati Uniti d’America Dwight David Eisenhower.

Da Monsignore, Sostituto della Segreteria di Stato, Montini si incontrava con De Gasperi quasi tutte le domeniche e, in una di queste del 1948, venne fuori un’idea su chi poteva spiegare direttamente a Pio XII che cosa fosse il Patto Atlantico. Si scelse la persona più adatta. Un “ultralaico”, ambasciatore italiano a Washington proveniente dal Partito d’azione: Alberto Tarchiani. Nacque così l’udienza di Alberto Tarchiani con Pio XII, l’8 settembre dello stesso anno.

Tornando al viaggio americano di Montini da Papa, trascorse quattordici intense ore a New York: attraversò Manhattan e il Queens, pregò nella Saint Patrick’s Cathedral, incontrò il presidente Lyndon Johnson, celebrò la Messa solenne per la Pace nel Bronx e prima di ripartire per l’Italia visitò il padiglione del Vaticano all’Expo.

Il discorso alle Nazioni Unite non si limitò al prevedibile “paternamente invitiamo a pregare per la pace, in questo momento ancora difficile e turbato”, ma volle presentare un volto del Papato che ampliava fin oltre l’Atlantico l’orizzonte visuale della finestra del Palazzo Apostolico. Montini disse infatti: “Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse, con umiltà e amore”.

È come se la moderna liberty americana, rivendicazione dei diritti dell’uomo, ritrovasse grazie a Paolo VI la sua fonte ispiratrice: “Noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: ‘Andate e portate la buona novella a tutte le genti’. Ora siete voi che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, sì, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi”.

Il Papa stava operando una rivoluzione copernicana: non era più la visione di un mondo che gravitava attorno a Roma, ma era Roma con gli altri Stati che gravitava attorno al sole della fratellanza universale. E sanciva questo cambio di paradigma proprio al di là dell’oceano, dove alti grattacieli avevano preso il posto dell’antico obelisco di San Pietro. “Voi segnate – esortò Papa Montini rivolgendosi all’assemblea dell’Onu – una tappa nello sviluppo dell’umanità, dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare. Voi sancite il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno”.  Così ha da essere; questo è il Nostro elogio e il Nostro augurio, e, come vedete, Noi non li attribuiamo dal di fuori; ma li caviamo dal di dentro, dal genio stesso del vostro Statuto”.

Montini ha conosciuto lo Stato liberale, il fascismo, la rinascita democratica con i partiti di massa, i primi segni della crisi. Nato all’alba del nuovo secolo, nel 1897, a Concesio, cresciuto nell’ambiente del cattolicesimo bresciano del Novecento, rappresentato da Giuseppe Tovini, avvocato, creatore di giornali, banchiere e fondatore di quel Banco Ambrosiano che nel 1982 dopo il crack di Roberto Calvi e della P2 sarà salvato da un altro bresciano, il professor Giovanni Bazoli. Le famiglie Montini e Bazoli sono profondamente intrecciate: il padre del futuro pontefice, Giorgio Montini, e il nonno del futuro presidente di Intesa-San Paolo, Luigi Bazoli, sono colleghi e eletti insieme deputati nel Partito popolare di don Luigi Sturzo nel 1919. Dopo il fascismo e la guerra entreranno nell’Assemblea Costituente come deputati della Dc il fratello di Montini, Ludovico, e il padre di Giovanni, Stefano, rimasto vedovo per la morte prematura e atroce della moglie Beatrice.

Fede manzoniana, cattolicesimo liberale, antifascismo, fiducia nell’educazione, laicità e autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche: una tradizione. Il momento da vivere è quello di una doppia modernizzazione: della Chiesa e dell’Italia. Non viene da una famigli contadina, come Roncalli, o aristocratica, come Pacelli, o operaia, come sarà Wojtyla. Montini è il curiale borghese, il papa borghese: colto, curioso delle novità, innovatore prudente, attento alle forme del cambiamento, con la consapevolezza di un ruolo storico. Costruire una doppia classe dirigente, nella Chiesa e nella politica e nella società italiana. Non conosce l’immobilismo, il relativismo etico, il cinismo immutabile, eterno del “partito romano”.

Come frutto di questa linfa, in quel discorso davanti all’America la mente acuta di Paolo VI evidenziò una differenza che non è solamente una sfumatura lessicale, ma il pilastro di una nuova filosofia diplomatica di altissimo livello: dalla “coesistenza” alla “collaborazione”. E in un tempo di guerra fredda fu da New York, dall’Assemblea dell’Onu, che decise di offrirla e non dalla più ‘comoda’ cattedra vaticana che gli avrebbe permesso di porsi a una equa distanza. “Non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli – spiegò il Pontefice. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo”.

Così il Papa indicò la strada che si doveva percorrere per raggiungere l’obiettivo: “Non si tratta soltanto di nutrire gli affamati; bisogna inoltre assicurare a ciascun uomo una vita conforme alla sua dignità. Ed è questo che voi vi sforzate di fare. Noi sappiamo con quale ardore voi vi impegniate a vincere l’analfabetismo e a diffondere la cultura nel mondo; a dare agli uomini un’adeguata e moderna assistenza sanitaria, a mettere a servizio dell’uomo le meravigliose risorse della scienza, della tecnica, dell’organizzazione: tutto questo è magnifico (…). Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità. Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!”. Parole profetiche.

“Santità, meno male che lei si è fatto prete e non è entrato in politica. Avremmo avuto a lungo un posto da presidente del Consiglio in meno”, gli disse Cossiga che lo conosceva dai tempi della Fuci, gli universitari cattolici. Il montinismo era la mediazione culturale di tanto alto livello che diventava diplomazia. Il Papa, secondo una lezione appresa nel mondo bresciano, non aveva paura di maneggiare le cose, in un governo che è moderazione, equilibrio, forza, convinzione.

Paolo VI è stato un principio e un principe riformatore, ma era convinto che le riforme potessero avvenire solo se mosse da una classe dirigente. Questa può essere la chiave di lettura del suo sguardo atlantico, da quell’oceano dove aspettava di sentire arrivare un soffio di vento nuovo che spazzasse via l’aria stagnante.

Alessia Ardesi, bresciana, giornalista televisiva, ha lavorato nell’ufficio stampa di Palazzo Chigi durante l’ultimo governo di Silvio Berlusconi e lo ha poi seguito come assistente fino al 2016. Si occupa di progetti sul terzo settore ed è impegnata nel dialogo col mondo ecclesiale

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