L’oceano e il mare/1

A settant’anni dal Trattato dell’Atlantico del Nord, un bilancio storico del ruolo della NATO nel Mediterraneo e dell’Italia nel sistema di difesa, dalla firma del Trattato fino all’investimento delle forze integrate nel cruciale scacchiere marittimo nel 1967. Prima parte.

L’impegno militare statunitense si fondava infatti politicamente sulla dottrina del presidente Harry S. Truman, che legava la sicurezza nazionale degli Stati Uniti all’aiuto ai popoli liberi in lotta contro il totalitarismo. Formulata nel 1947, la dottrina fu applicata nel 1948 in sostegno dei governi di Grecia e Turchia, dunque due paesi mediterranei furono legati alla sicurezza nazionale statunitense, elemento questo che accompagnò la preparazione del trattato dell’Atlantico del nord e dell’organizzazione che dal trattato sarebbe derivata, la NATO appunto. Il retroterra dell’applicazione della dottrina Truman era, anche in senso geografico, la collocazione dell’Italia nel campo occidentale ovvero impedirne la neutralità o addirittura il passaggio nell’ orbita sovietica. La sconfitta del fronte popolare nelle prime elezioni della repubblica italiana fugò la terza possibilità; la realizzazione della prima, nella sua massima espressione dell’adesione dell’Italia al Trattato dell’Atlantico del Nord, fu un processo tutt’altro che scontato.

Il governo francese si impegnò affinché la Repubblica italiana fosse fra gli stati firmatari del trattato, il 4 aprile 1949. Come ricorda la storiografia, vari motivi presiedettero a questo orientamento, fra i quali è opportuno qui menzionare sia l’incremento dato dalla partecipazione italiana all’aliquota dei paesi cattolici firmatari, sia il bilanciamento al baricentro geografico del trattato, posto nel nord del continente europeo. Queste considerazioni sono senz’altro analiticamente valide rispetto al gioco politico fra gli Stati dell’Europa occidentale, ma dal punto di vista americano la rilevanza strategico-politica del mediterraneo era già un assioma, come lo erano altri cruciali bacini del pianeta. Vi era certamente una forte cogestione di queste aree col Regno Unito, nella quale gli Stati Uniti stavano passando da gigante comprimario a superpotenza protagonista. Una linea di tendenza nella special relationship, che si sviluppò negli anni successivi, iniziando però dal Mediterraneo. In questo mare il subentro avvenne prima rispetto ad altre bacini orientali, datando solitamente il suo inizio col ricordato sostegno statunitense al governo greco. I francesi si trovavano invece in una situazione che comprendeva un braccio di Mediterraneo nell’ambito nazionale, poiché l’Algeria non era semplice colonia ma parte del territorio metropolitano della Francia. Questo aspetto marcava una differenza sensibile fra la partecipazione francese e quella britannica al comando integrato delle forze marittime mediterranee della NATO, perché la sponda algerina del territorio francese non poteva essere trattata al pari delle altre colonie dell’impero e dunque necessitò di un processo di decolonizzazione assai più difficile.

La Repubblica italiana

Problemi di cui era scevro l’altro grande alleato NATO del Mediterraneo, avendo la Repubblica italiana perduto le colonie dell’impero fascista. La posizione italiana era in bilico fra il flebile consenso interno che l’adesione al trattato aveva riscosso, e la necessità strategica delle piazzeforti sul territorio italiano nell’economia del confronto fra i due blocchi. È utile ricordare le difficoltà del capo del governo, Alcide De Gasperi, nel far convergere il suo stesso partito sulla scelta atlantica. D’altronde nell’Italia cattolica si riversavano le complicazioni che storicamente il Vaticano visse con gli Stati Uniti d’America, sebbene rilevanti elementi della vita ecclesiale avessero preso una netta posizione in favore del trattato atlantico. Sulla necessità strategica del territorio italiano, è invece bene ridimensionare la rilevanza dell’ovvio carattere peninsulare, per storicizzare invece le varie fasi di evoluzione della partecipazione italiana al sistema difensivo della comunità atlantica come elemento mediterraneo. Infatti il rilievo strategico delle basi che il governo statunitense stabilì sulle isole e sul continente italiano, nelle corde del Trattato, mutò con la ridefinizione degli assetti politici mediterranei. Cioè l’importanza dell’Italia nel controllo marittimo si accrebbe con lo svolgersi del percorso di decolonizzazione in Mediterraneo, non solo dell’Algeria ma soprattutto di Malta, congiuntamente al consolidamento delle strutture della NATO. A queste due dinamiche si intersecava l’evoluzione tecnologica degli armamenti, e la politica che ne derivava, cioè lo sviluppo dei vettori balistici armati con testate nucleari.

L’entrata nella cosiddetta “età dei missili” ridusse il valore deterrente dell’aereonautica, non essendo più questa l’unico vettore delle armi nucleari, così come era stato impostato nei primi anni delle armi nucleari: bombardieri in cielo in turnazione costante, che garantivano la retaliation anche in caso di distruzione dei centri di comando. Nel 1960 la NATO schierò i missili strategici PGM-19 Jupiter, prima in Puglia e successivamente nella provincia di Smirne, che minacciarono direttamente l’Unione Sovietica con testate nucleari. Scelta dalle molte implicazioni, ma che dal punto di vista geografico pareva esprimere il valore del territorio italiano verso l’interno del continente, come fianco meridionale della NATO assieme alla Turchia, e non verso il mare. Tuttavia, bisogna considerare che lo schieramento dei missili giungeva al termine di un periodo di fluida definizione delle strutture di comando NATO, a cui sarebbe seguita una fase – perdurante sino ad oggi – dove il carattere mediterraneo dell’Italia divenne un aspetto cardinale della sua integrazione nel sistema atlantico.

La costellazione dei centri di comando era stata inizialmente tracciata secondo un disegno che vedeva a Napoli la sua stella principale. Lì era stato istituito nel 1951 il comando alleato del sud, che comprendeva anche il comando delle forze navali del Mediterraneo. Già nel 1952, in parallelo con l’adesione al trattato della Grecia e della Turchia, il Comando delle forze navali nel Mediterraneo fu riorganizzato a Malta e posto sotto comando britannico. L’ingresso dei due Paesi, storicamente nemici, oltre a segnare un successo politico dell’alleanza foriero di positive complicazioni, pose la necessità di ricalibrare il baricentro di comando marittimo. L’isola di Malta, ancora possedimento britannico, era un asset strategico in questa ridefinizione. Il comando di Napoli fu convertito nell’Allied Forces Southern Europe (AFSOUTH), uno dei due comandi strategici operativi del Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE), stabilito nel 1953 a Rocquencourt nell’Ile de France. Dunque i britannici ebbero il Comando Gibilterra Mediterraneo (COMGIBMED) e il Comando Mediterraneo Sudorientale (COMMEDSOUTHEAST), i francesi il Comando Mediterraneo Occidentale (COMMEDWEST), gli italiani il Comando Mediterraneo Centrale (COMEDCENT), i greci il Comando Mediterraneo Orientale (COMEDEAST) e i turchi il Comando Mediterraneo Nordorientale (COMEDNOREAST), che estendeva le sue competenze su tutto il Mar Nero. Con gli accordi di Evian del 1962 che resero l’Algeria indipendente dalla Francia, il Comando NATO del Mediterraneo Occidentale (COMMEDWEST) fu spostato da Algeri a Tolone, perdendo spazio strategico.

Crisi e trasformazione

Nell’autunno del 1962, la crisi dei missili a Cuba riportò il fulcro della guerra fredda sulla questione degli armamenti nucleari. Dopo lo schieramento dei missili in Italia e Turchia, a cui si aggiungevano i missili schierati in Gran Bretagna, la scelta filosovietica del governo rivoluzionario cubano parve sparigliare le carte del gioco strategico. Gli Stati Uniti uscirono dalla crisi con una vittoria di immagine, politicamente importante, perché i russi rinunciarono ad installare i missili a Cuba, ma dovettero strategicamente pagare dazio della dismettendo i missili in Italia e Turchia. Una decisione ambivalente, intrapresa dalla presidenza di John Fitzgerald Kennedy, che investiva i due paesi mediterranei. Infatti i missili Jupiter furono ritenuti dagli americani tecnologicamente superati, rispetto ai nuovi missili UGM-27 Polaris, lanciabili da navi e soprattutto da sottomarini. Come sempre le scelte tecnologiche sono inseparabili dalle decisioni politiche. Ammesso che i missili Polaris erano di poco più recenti degli Jupiter, ciò non significava che questi ultimi, schierati da appena due anni, fossero già obsolescenti. Di conseguenza fu proprio l’impegno politico statunitense nella difesa della lontana Europa ad essere nuovamente percepito come incerto. Infatti se la risposta a un’invasione sovietica era consegnata al lancio di missili dai sottomarini, invece che da basi poste sul territorio degli Stati alleati e soggetti in prima battuta a una possibile aggressione, l’intervento statunitense diveniva ancor più discrezionale. Esso era il cuore dell’alleanza, pertanto un suo affievolimento – vero o percepito che fosse – scuoteva i fondamenti della NATO. Bisogna aggiungere che il Trattato non prevedeva automatismi di risposta di fronte all’aggressione di un Paese membro, dunque la qualità delle assicurazioni agli europei si dava su un piano di carattere politico sempre contingente, con la ricerca di costanti conferme. Che la decisione statunitense fosse parte della dottrina kennediana della risposta flessibile, non vi erano dubbi: gli Stati Uniti avrebbero reagito proporzionalmente alle minacce sovietiche, senza passare immediatamente all’attacco nucleare. All’interno di tale approccio dottrinario però, la condivisione degli armamenti nucleari veniva ridotta, e la vicenda italiana fu di questo rappresentativa. Infatti la marina italiana aveva già dal 1961 predisposto l’incrociatore Giuseppe Garibaldi ad equipaggiarsi con i Polaris, e progettato il Vittorio Veneto con la stessa caratteristica, solo che alla fine gli Stati uniti non conferirono i missili. In questo clima di costante ridefinizione, il presidente francese Charles de Gaulle nel 1966 decise l’uscita delle forze francesi dalle strutture integrate della NATO, compiuta l’anno successivo. Il peso della decisione francese fu ovviamente dirompente, e portò inedite trasformazioni alle strutture dell’alleanza. Nello scenario mediterraneo, il comando di Tolone fu chiuso e le sue competenze trasferite a Napoli. Nello stesso anno però anche il comando navale del Mediterraneo a guida britannica fu sciolto in seguito all’indipendenza di Malta e alla crescita di un orientamento neutralista dell’isola.

Dunque il NAVSOUTH di Napoli, che delle Forze alleate mediterranee ereditava il ruolo, fu attivato con la ristrutturazione organizzativa del 1967, divenendo pivot del comando marittimo per il Mediterraneo, non solo per quello centro-occidentale di diretta competenza. Congiuntamente a questo rinnovato ruolo per l’Italia, si aprì una fase in cui la NATO iniziava anche ad elaborare un nuovo ruolo per il Mediterraneo. In sintesi, il bacino non era più soltanto il collegamento marittimo del fianco meridionale della NATO, ma un’area strategica di primo piano.

Matteo Gerlini insegna storia e politica della ricerca scientifica nell’Università di Roma “La Sapienza”. È membro dell’Independent Scientific Evaluation Group del programma NATO Science for Peace and Security

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