Come la NATO può reagire ai cambiamenti in corso (anche dovuti al Covid-19). L’analisi di Gerlini

Conversazione di Europa Atlantica con Matteo Gerlini, Coordinatore scientifico della NATO Defense College Foundation e membro italiano dell’Independent Scientific Evaluation group del Programma NATO SPS.

Lo scorso martedì la NATO ha presentato il proprio sostegno, attraverso il programma SPS (Science for Peace and Security) di un importante progetto scientifico promosso dall’Istituito Superiore di Sanità italiano in collaborazione con gli ospedali universitari di Roma Tor Vergata e Basilea. Si tratta di un significativo passo in avanti dell’Alleanza, nel senso del sostegno alla ricerca contro il Covid-19, dopo mesi di grande impegno da parte della NATO, nel supporto e nel soccorso dei paesi colpiti dall’epidemia.  Questa scelta è significativa anche perché conferma, come è stato nel lavoro di coordinamento messo in campo per gli aiuti contro la pandemia, quando la NATO stia allargando la sua capacità di iniziativa e di attività anche in dimensioni diverse da quella esclusivamente militare, rispetto a crisi ed emergenze di natura diversa. Del resto, fin dalla fine della Guerra fredda, l’Alleanza ha saputo rinnovare e adattare il proprio concetto strategico più volte, riorganizzandosi per venire incontro alle nuove esigenze di difesa e sicurezza collettiva dei suoi membri. Oggi, la necessità di un salto in avanti ulteriore per l’Alleanza viene probabilmente anche, oltre che dalle ricadute geopolitiche della pandemia, da quanto sta avvenendo a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e grandi potenze.

Quanto l’esperienza di questa pandemia potrà influire anche sui futuri assetti e sulle strategie della NATO e come la NATO stessa si sta adattando al nuovo contesto di competizione internazionale, sono stati alcuni dei temi oggetto del confronto tra Europa Atlantica e il Dott. Matteo Gerlini*, Coordinatore scientifico della NATO Defense College Foundation e membro italiano dell’Independent Scientific Evaluation group del Programma NATO SPS, che ha incoraggiato l’Istituto superiore di sanità nella proposta del progetto.

Dott. Gerlini, da studioso della storia della relazioni internazionali ed analista, a suo avviso, quanto la pandemia del Covid-19 può incidere sulle relazioni internazionali?

Purtroppo non siamo più nella possibilità, ma nella attualità. La pandemia ha investito in pieno le relazioni internazionali, con la “mega disruption” in alcuni settori strategici del commercio mondiale, ovvero nel nerbo della cosiddetta globalizzazione liberista. Questo significa che la nuova geografia delle alleanze e di conseguenza delle relazioni internazionali sarà tracciata attorno alle modalità di gestione della presente e ancor di più delle future pandemie: cioè alla gestione di emergenze sanitarie e sociali protratte, e quindi delle loro implicazioni per le economie. Sulla base di queste modalità comuni – queste sì, ancora nel regno delle possibilità – saranno disegnate le reti relative alla ricostruzione delle società e delle economie, con investimenti strategici nei Paesi beneficiari e relative intese politiche con i soggetti investitori. Così saranno le alleanze di domani. Questa dinamica va intesa in senso ampio, non come attesa di un’anacronistica riedizione del Piano Marshall; per gli Stati più disastrati del nostro continente, come soggetto investitore e ricostruttore penso in primo luogo all’Unione Europea.

E in particolare a livello transatlantico?

Il legame transatlantico non mi pare indebolito dalla pandemia, perlomeno non più di quanto fosse messo in discussione in precedenza. Resta comunque assodato che la Difesa europea è gestita dalla NATO, e che l’UE sia su questo tema non un soggetto sostitutivo ma complementare – e sempre più integrato, aggiungerei – con l’organizzazione atlantica. Né d’altronde la pandemia pare aver esacerbato le precedenti divergenze fra le due sponde, o più propriamente fra gli Stati Uniti e gli alleati. Siccome queste divergenze riguardavano principalmente il burden sharing nelle spese per gli armamenti, dovremo rivedere questa domanda quando la recessione dispiegherà completamente i suoi effetti, forse fino alla depressione. Invece nelle conseguenze della pandemia sulle relazioni transatlantiche è molto più rilevante tornare su un cambiamento radicale intrapreso dalla presidenza Trump, cioè la fine del Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’area di libero scambio fra Europa e Stati Uniti, che sarebbe stata completata dall’analoga col Canada. Vale la pena di ricordare questo progetto naufragato, perché pur con tutte le difficoltà che la sua approvazione avrebbe comportato, probabilmente esso avrebbe fornito maggiori margini per la ripresa delle esportazioni, dunque di quella parte delle economie europee che di queste vive. Facciamo un esercizio contro fattuale per capire cosa si è perduto in quella occasione, e che la recessione economica non sarà affrontata a livello transatlantico in un’area di libero scambio analoga a quella dell’Unione Europea. Scevro da qualsiasi giudizio di valore, è un mero dato di fatto su cui è utile riflettere.

La NATO come si è attivata, e con quali strumenti, di fronte a questa nuova emergenza?

Proprio per questo la NATO ha offerto, come riportato nella lettera del segretario generale Jens Stoltenberg al Corriere della sera, la sua logistica, frutto della integrazione fra le forze armate dei paesi membri. Credo che non esistano supply chains integrate comparabili a quelle della NATO, e ciò ha sicuramente facilitato una gestione tutt’altro che semplice del trasporto delle forniture. Ma vi è stato anche un impegno della NATO, sebbene su scala minore, nel promuovere il contrasto al COVID-19 tramite la ricerca scientifica. Il programma Science for Peace and Security ha finanziato uno studio di avanguardia sulla diagnostica del SARS-CoV-2 presentato dal nostro Istituto superiore di sanità in partnership con l’ospedale di Basilea. Ho avuto la possibilità, quale membro del panel di valutazione del programma, di invitare l’ISS a presentare del progetto, che prospetta una soluzione  promettente a un problema tuttora è ben lungi dall’essere risolto, cioè un rilevamento rapido e affidabile degli anticorpi al coronavirus. Il progetto è stato finanziato in gran velocità, senza fare scontare ai proponenti i farraginosi procedimenti burocratici che contraddistinguono invece spesso i programmi UE, e questo grazie all’investimento della Rappresentanza italiana al Consiglio atlantico.

Emergenze simili, probabilmente potranno interessare e condizionare gli equilibri geopolitici e la sicurezza internazionale anche nei prossimi anni. Cosa possono fare la NATO e i paesi atlantici, in futuro, per affrontare emergenze simili qualora dovessero riproporsi?

Potrebbero compiere l’auspicio di De Gasperi, cioè attuare l’articolo secondo del trattato Nordatlantico[1]. I firmatari del trattato dovevano diventare una comunità di stati che avrebbe perseguito una cooperazione economica perché la sicurezza nasce dal benessere e dalla stabilità. Tale cooperazione è solo parzialmente avvenuta, per un assieme di motivi e resistenze da entrambe le sponde dell’Atlantico; probabilmente questa attuazione del trattato non sarà ripresa, visto che il multilateralismo pare in crisi. Storicamente però i governi italiani hanno spinto molto su questi capi del trattato, e forse varrebbe la pena di riprendere il tema della solidarietà atlantica per un’ipotetica agenda diplomatica di domani. Converrebbe a molti: il finanziamento al progetto di diagnostica anti COVID del programma scientifico NATO è solo un piccolo esempio di quello che potrebbe divenire la comunità atlantica.

Henry Kissinger nei giorni scorsi ha pubblicato sulle colonne del Wall Street Journal una analisi sui possibili rischi globali successivi a questa crisi. Secondo lei, anche guardando al fatto che questa emergenza si è inserita in un momento di forte tensione internazionale e di ritorno alla competizione tra Grandi potenze, dopo la fine della Pandemia, cosa dovranno fare sul piano più politico Stati Uniti ed Europa?

Kissinger fa riferimento al piano Marshall, quindi al ruolo degli Stati Uniti nella ricostruzione dell’Europa. Ma fa riferimento anche al progetto Manhattan, cioè alla costruzione dell’arma nucleare. Non possiamo crederla parola dal sen fuggita, allora una vena di preoccupazione dovrebbe sorgere in noi: se riproporre il piano Marshall sarebbe oggi anacronistico, una riedizione di una politica di monopolio nucleare sarebbe perniciosa. Certamente Kissinger chiama a una maggior coesione, a partire dalla condivisione di valori fra gli Stati di quello che un tempo si sarebbe chiamato occidente, ma ciò avveniva quando gli Stati Uniti avevano accettato un impegno stabile all’estero e i costi che questo comportava. Il disimpegno statunitense non è iniziato con Trump, e per certi versi nemmeno con Obama, è un processo lungo e complesso, ma possiamo dire che oggi gli Stati Uniti sono una superpotenza protezionista, capace di proiettarsi rapidamente ovunque nel mondo senza volerci restare più del minimo sindacale. Restano l’unica, vera superpotenza militare: ma i tempi di Truman, Eisenhower e Kennedy e dell’impegno americano per l’Europa sono andati per sempre. Anche ad opera dei presidenti per i quali Kissinger ha servito.

A Londra, lo scorso dicembre, la NATO ha discusso anche del tema dell’ascesa cinese. Cosa potrebbe accadere, dopo questa pandemia, nel confronto tra USA e Cina e che ruolo potrà giocare la NATO secondo lei?

È presto per dirlo. La peggiore lente attraverso cui guardare il confronto fra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese è quella della guerra fredda. Del vecchio scontro ideologico è rimasto poco, sufficiente a malapena per riattizzare vecchi ardori da una parte e dall’altra. Invece il problema dello scontro interno all’interdipendenza economica globale è cruciale e potenzialmente distruttivo: la tregua stretta fra Trump e Xi Jinping dopo l’introduzione dei dazi americani sancisce una situazione ancora sbilanciata a favore dell’export cinese, che Trump ha cercato di mitigare. Ma dell’esternalizzazione delle industrie in Cina non hanno beneficiato solo i cinesi, anzi. Il livello di interdipendenza economica fra la Cina e il resto del mondo è tale che non è credibile pensare a nuovi muri di Berlino, e la muraglia cinese resterà un monumento storico. Il che rende ancora più pericoloso il confronto fra le due sponde del Pacifico, che si manifesta sempre di più sul quarto e quinto spazio, cioè lo spazio cibernetico e lo spazio orbitale. La NATO è ancora nella retroguardia di questo scontro, e probabilmente ci resterà perché focalizzata sulla Russia – tendenza tornata alla ribalta negli anni recenti, dopo un periodo di dialogo NATO-Russia – e perché geograficamente distante dal competitor asiatico.

Settantacinque anni fa l’Europa riconquistava la libertà. In questi decenni, quanto è stata importante la NATO per garantire sicurezza e libertà insieme all’Unione Europea?

Non poco. È riuscita a limitare la pressione russa, nei casi in cui questa si è manifestata, ma soprattutto, fatta esclusione per il conflitto cipriota fra greci e turchi, è riuscita a difendere gli europei da loro stessi, gestendo la rinascita della potenza tedesca. E questo è stato possibile grazie a un vincolo esterno, quello atlantico, che troppo spesso pensiamo sia una prerogativa della politica italiana. Invece lo stesso processo di unificazione europea fu più che caldeggiato dagli Stati Uniti, che allora lo incentivarono in cambio del loro impegno militare nel vecchio continente. Dobbiamo ricordare che i primi piani di contrasto a un’invasione sovietica ponevano la vera linea difensiva lungo la catena dei Pirenei, e che solo in virtù degli sforzi di integrazione degli europei – seppur rapsodici – gli americani accettarono il dislocamento delle loro forze armate a difesa della linea dell’Elba: sforzi che inclusero il riarmo della Germania occidentale, rimasto comunque a un livello tuttora molto basso. D’altra parte non possiamo dimenticare che il baricentro democratico dell’Alleanza Atlantica aveva conosciuto sin dall’inizio l’eccezione autoritaria portoghese e successivamente la dittatura militare in Grecia e i colpi di stato in Turchia; ma la democrazia e la libertà sono sempre state l’asse portante della NATO, confinando questi casi all’eccezione, appunto.

Secondo lei, da studioso di storia, quali sono state e quali sono ancora le ragioni della fedeltà atlantica dell’Italia?

Più che di fedeltà parlerei di convenienza: la Repubblica italiana ha ottenuto dalla partecipazione all’Alleanza Atlantica più di quanto abbia dato. In essa, e grazie a essa, ha recuperato un ruolo accettato e costruttivo in Europa, e si è ritagliata uno spazio nel mediterraneo, incomparabilmente più rilevante rispetto al passato monarchico e fascista, perlomeno fino alla crisi istituzionale del 1992. Ha ricostruito le sue forze armate su base democratica, ed ha acquisito un’importanza nel consesso atlantico seconda solo agli Stati nucleari della NATO. Questo al netto della basilare amicizia con gli Stati Uniti d’America o dell’interesse francese – al momento della firma del trattato – ad avere l’Italia nell’Alleanza. Nel 1949 l’opzione atlantica non era maggioritaria nella Democrazia cristiana, ma senza di essa tutta la storia italiana sarebbe cambiata e verosimilmente la partecipazione italiana al progetto di unificazione europea sarebbe stata assai più travagliata. Invece il significato odierno della scelta atlantica è un problema che si pone per tutti i membri dell’Alleanza, ma che in Italia nessuno mi pare voglia seriamente mettere in discussione, inclusi i sovranisti con l’iPhone: autarchici sì, ma con i beni dell’internazionalizzazione stretti in mano.

Fonte immagine sito ufficiale Nato

* Le opinioni espresse sono a titolo personale e non rappresentano posizioni ufficiali della NATO.


[1] “Le parti contribuiranno allo sviluppo di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli, rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una migliore comprensione dei principi su cui queste istituzioni sono fondate, e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. Esse si sforzeranno di eliminare ogni contrasto nelle loro politiche economiche internazionali e incoraggeranno la cooperazione economica tra ciascuna di loro o tra tutte”.

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