L’impatto possibile del Coronavirus su politiche europee e relazioni transatlantiche. L’analisi di Marco Valigi

Conversazione di Europa Atlantica con Marco Valigi, docente e ricercatore universitario a Milano e Bologna, su l’impatto della pandemia nella politica internazionale e sulle scelte politiche europee, a partire dalla Difesa europea.

Alcune settimane fa, in un editoriale sul Wall Street Journal, Henry Kissinger ha messo in guardia sulle possibili ricadute che la pandemia del nuovo Coronavirus SARS-Cov-2 potrebbe avere, anche dopo la sua fine, a livello internazionale. Non tanto e solo per ciò che riguarda le ricadute dell’emergenza sanitaria, quanto anche per i suoi effetti a livello economico e politico.

Abbiamo approfondito i temi legati all’impatto della pandemia a livello internazionale e, in particolare, i suoi possibili effetti anche in Europa e nelle relazioni transatlantiche con Marco Valigi, docente all’Università Cattolica di Milano e Research Fellow con una borsa finanziata dalla European Investment Bank presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna.

Dottor Valigi, partendo dalla riflessione di Henry Kissinger sul Wall Street Journal, dal suo punto di vista, che effetti potrebbe avere l’attuale pandemia a livello internazionale? Potrebbe davvero contribuire a ridefinire gli equilibri globali?

Kissinger sottolinea come il mondo si trovi a un crocevia. La capacità di agire attraverso scelte lungimiranti, dunque, potrà significare l’alternativa tra il successo e il fallimento politico. Una tesi condivisibile, evidentemente.

Quanto agli effetti della pandemia, l’implicazione più profonda di questo fenomeno è che, probabilmente, sta modificando il concetto di sicurezza e la relazione tra Stato e cittadino. Fino a qualche decennio fa la sicurezza riguardava la protezione che lo Stato garantiva ai cittadini rispetto a una minaccia esterna, tipicamente uno Stato nemico. A partire dagli anni Novanta, il dominio della sicurezza si è espanso. Ciò premesso, l’emergenza COVID non rappresenta un mutamento incrementale. Il nuovo Coronavirus, piuttosto, è un game changer. Dinnanzi a una minaccia come il COVID – indiscriminata, imprevedibile, capillare e la cui volatilità ha quasi annullato la distinzione tra dimensione interna ed esterna della politica – gli Stati, che nell’epoca della digital transformation parevano relegati a un ruolo subalterno ad altri attori sociali, tornano a essere i protagonisti della politica attraverso la produzione normativa. Proprio le norme, che regolano e indirizzano il comportamento di tutti gli attori sociali a partire dai cittadini, infatti, sono state sinora la principale arma che ha consentito di contenere e contrastare la minaccia rappresentata dal virus. 

Quanto agli equilibri globali, forse, la pandemia contribuirà indirettamente ridefinirne i connotati. In particolare, in ragione delle risposte che i leader delle due principali potenze, gli Stati Uniti e la Cina, non hanno saputo dare nel corso di questi mesi, potrebbe aumentare il margine di manovra per altri attori internazionali. La Russia, ad esempio.

Dinnanzi all’erompere del COVID, tanto Trump quanto Xi non hanno assunto un ruolo di responsabilità in senso al sistema internazionale. Nel caso degli Stati Uniti si è trattato dell’ennesima opportunità perduta da parte di questa amministrazione di definirsi come fattore coagulante dei valori liberal-democratici occidentali e consolidare la collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico. In quello della Cina, invece, l’opacità dei suoi leader e i tentativi di insabbiamento messi in atto dal regime sul finire del 2019, ancora una volta, hanno gettato un’aura sinistra sul regime. Insomma, per ora, l’opportunità che Pechino si accrediti, attraverso condotta responsabile, come possibile leader di un sistema a trazione non americana è rimandata.

Già prima dello scoppio della pandemia eravamo in presenza di un clima crescente di tensione e competizione tra le grandi potenze globali. Alla luce dei possibili rischi e delle ricadute dell’epidemia a livello internazionale, se questa competizione tra potenze dovesse aggravarsi, che rischi corre nello specifico l’Europa, anche alla luce delle sue divisioni interne?

Più che dalle minacce esterne, credo che i maggiori rischi per l’Europa provengano da se stessa. In base a una chiave di lettura, una crisi della portata del COVID e le tensioni sorte tra Cina e Stati Uniti sulla gestione del contagio costituivano una non trascurabile opportunità politica per i leader europei.

Il comportamento di Washington e Pechino, infatti, ha evidenziato come questi due Paesi, la cui potenza ha una base incredibilmente estesa, difettino di leadership internazionale. Entrambi non hanno saputo o voluto guidare il sistema internazionale fuori della crisi. Piuttosto, hanno cercato di distogliere l’attenzione dalle rispettive omissioni e carenze, rivolgendo generiche accuse all’avversario. Una classica diversione dal problema principale, ovvero la mancanza di know-how per arrestare la diffusione del nuovo Coronavirus e la costruzione di una narrativa fondata sull’idea di “nemico esterno” – nulla di nuovo né di particolarmente originale rispetto ai più elementari principi del realismo politico.

L’attuale picco di tensione tra Washington e Pechino è connotato da una matrice tattica e congiunturale, volta a minare il consenso di cui gode l’avversario. Torno dunque a ribadire, che per il Vecchio continente si sia trattato di un’opportunità. Nostro malgrado, i decisori europei non hanno saputo sfruttarla per rilanciare il ruolo dell’Unione sul piano dei suoi valori fondatovi e di una comune operatività.

Se l’Europa avesse individuato un comune denominatore nell’essere la patria dello stato sociale e, attorno a quel valore, concertato la propria azione, probabilmente, avrebbe affrontato la crisi con maggiore efficacia, accresciuto la coesione interna all’Unione e infine la propria autorevolezza verso l’esterno. Diversamente dal volgersi alla competizione tra Pechino Washington in veste di osservatore interessato, probabilmente, l’UE si avvierebbe ora a disporre degli strumenti e della necessaria fiducia in se stessa per fronteggiare eventuali ritorni del virus attraverso un modello unitario, alternativo e svincolato tanto degli USA quanto dalla Cina.

Evidentemente, rispetto a questa prospettiva, il nodo della centralizzazione del bilancio svolge un ruolo altrettanto centrale che la capacità/determinazione europea di assumere un certo tipo di leadership internazionale. Senza le risorse e processi di gestione chiari e mutuamente condivisi, l’Europa rimarrà un’idea condannata a trasformarsi in una sorta di vezzo formale – un complesso di tecnicismi e regolamenti che farebbero disilludere anche il più appassionato degli amanti.

A partire dal suo recente studio sulle medie potenze, l’UE, comprende al suo interno alcuni importanti paesi che potremmo definire comunque delle “medie potenze”. Tra questi anche l’Italia. Secondo lei è possibile immaginare che l’Unione Europea, di cui questi paesi fanno parte, possa diventare una grande potenza, oppure è destinata a restare solo un insieme di varie medie potenze?

Domanda interessante. Tuttavia, inizierei chiedendomi se, rispetto all’attuale ingegneria del sistema internazionale, l’eventuale trasformazione dell’Europa in una grande potenza potrà giovare all’Europa stessa e, magari, conferire stabilità al sistema. La risposta è no. Assurgere a terzo polo, spingerebbe l’UE verso un pericoloso confronto geopolitico con la Russia, senza assicurare vantaggi nelle relazioni con USA e Cina a tanto evidenti giustificare quel rischio. D’altro canto, rimanere un aggregato disomogeneo di medie potenze preclude la possibilità di agire efficacemente soprattutto in politica internazionale.

Le previsioni sono sempre rischiose e raramente si azzeccano. Tuttavia, osservando la condotta dei primi ministri europei, ritengo che pur trovandosi immersi in un mondo nel quale è a tal punto evidente che le grandi potenze siano altre, insistano nel riproporre comportamenti ancorati manieristicamente a un passato morto e sepolto. Si tratta di una scelta che condanna i rispettivi Paesi e l’Europa all’irrilevanza.

Quando non si è più grandi potenze il solo modo per contare qualcosa è di perseguire grandi politiche – lo disse De Gaulle. Di visoni innovative, in questi tempi, non mi pare se ne abbia avuto traccia.

Quanto la Difesa e la politica estera comune potrebbero aiutare per far fare all’Europa un salto in avanti verso l’unione politica? Pensa che la crisi del coronavirus potrà pregiudicare questo percorso unitario?

Difesa e politica estera sono terreni che, se conquistati alla causa dell’Unione, faranno senza dubbi progredire l’integrazione politica. Resta comunque da domandarsi che tipo di integrazione. Altrimenti, si rischia di rendere difesa e politica estera cause di un qualcosa (l’unione politica) di cui in realtà dovrebbero essere effetti o più correttamente mezzi.

Quanto agli effetti della crisi sanitaria rispetto alla realizzazione di un apparato difensivo europeo, i due temi sono collegati indirettamente dal grande nodo irrisolto delle istituzioni europee, quello del bilancio. Mi spiego. Le misure avviate dalla Commissione Junker in materia di difesa hanno tracciato una linea piuttosto chiara rispetto alla direzione che l’Europa si avviava a intraprendere. Evidentemente però gli effetti economici prodotti dalla pandemia in corso potrebbero generare delle resistenze da parte dei governi nazionali, soprattutto in assenza di un bilancio unitario, ovvero centralizzato rispetto ai flussi in ingresso e in uscita. Pregiudicare il cammino avviato, dunque, no. Tuttavia, dei rallentamenti o delle titubanze, qualora si manifestassero, non mi sorprenderebbero.

A fronte di una prima fase della crisi durante la quale l’incapacità dei governi europei di parlare con una voce unitaria è risultata anche più vistosa che in altre circostanze, proprio per la portata del fenomeno e la sua natura sistemica, negli ultimi giorni, la situazione sembra esseri aperta verso mutamenti più favorevoli.  La proposta di von der Layen di un Recovery Fund da 750 miliardi di euro, se fosse approvata, avrebbe la capacità di saldare il tema finanziario a quello ideazionale, in uno schema nel quale le due dimensioni si rafforzerebbero l’una con l’altra. Sotto l’ombrello della solidarietà europea, il settore della difesa potrebbe agire da vettore di crescita economica e innovazione. Auspicabilmente, poi, il trasferimento di tecnologie dall’ambito militare a quello civile rappresenterà la pietra angolare dell’intero processo.

A proposito di ricadute della crisi in Europa, immagina che il nascente progetto della Difesa europea potrebbe subire ripercussioni, anche di tipo economico oltre che politico?

È plausibile. Tuttavia, uno dei metodi più classici di rilanciare il ciclo economico dopo aspre crisi è attraverso il ricorso a politiche neokeynesiane, che vedono lo Stato protagonista nel ruolo di investitore o più correttamente di risk-taker.

Fatto salvo l’impianto dello European Defence Fund, la cui struttura mi sembra eccellente, il progetto, forse, meriterebbe di essere ripensato in funzione di uno scenario mutato. Un’ipotesi ragionevole mi parrebbe quella di individuare dei meccanismi attraverso i quali valorizzare le tecnologie militari i cui spin-off mostrano connessioni più evidenti con l’ambito medico-sanitario e di gestione delle emergenze.

Quanto è importante per l’Unione Europea, anche sul piano economico e industriale, investire nella dimensione della difesa europea?

Quello della difesa è un settore molto frammentato. Le duplicazioni nei diversi Paesi che compongono l’Unione non mancano e la gestione del comparto su base nazionale non sempre consente di raggiungere masse critiche adeguate a confrontarsi con giganti quali USA, Cina e Russia. Investire su scala europea, conseguentemente, è cruciale per rendere sostenibile il comparto difesa, epurandolo delle aziende obsolescenti e valorizzando le eccellenze nazionali, e per assicurare all’Europa una posizione internazionale influente, in primo luogo all’interno della NATO.

Nel mondo dei prossimi anni, quanto diventerà rilevante il tema dell’autonomia strategica europea?

Difficile a dirsi. Dal mio punto di vista lo è sempre stato, anche nei rapporti transatlantici. Una maggiore autonomia europea infatti porterà equilibrio nel legame naturale tra liberaldemocrazie. Con un Europa autonoma strategicamente e militarmente efficiente, chi siede a Washington potrebbe anche riconsiderare le quotazioni – a dire il vero mai così basse dell’inizio della Guerra fredda – degli amici di un tempo.

Recentemente il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha partecipato alla riunione dei ministri della Difesa europei. Quanto è strategico, anche alla luce dei possibili effetti della crisi del Coronavirus, il rapporto di cooperazione tra UE e NATO?

Credo si sia trattato di un gesto che, sul piano della simbologia del potere abbia una valenza affatto secondaria. In una fase storica nella quale il Presidente degli Stati Uniti si è mosso ignorando quasi del tutto il legame che sussiste tra le due sponde dell’Atlantico, il comportamento di Stoltenberg ha ribadito la continuità istituzionale tra Unione Europea e NATO.

In maniera affatto rumorosa, la NATO si è smarcata dal personalismo di Trump, agendo in vista di garantire condizioni operative eventualmente favorevoli al prossimo Presidente degli Stati Uniti. Quanto all’impatto del virus sul valore della relazione tra l’Europa e l’Alleanza Atlantica tenderei a concludere che sia marginale. La relazione tra NATO è UE si regge da sola senza bisogno di essere rinsaldata da una minaccia esterna.

Quanto il rilancio delle relazioni transatlantiche può essere importante per il rafforzamento di UE e NATO?

Ritengo sia cruciale. Servono tuttavia ricette nuove. Mentre l’impressione, in questa fase, è che lo sguardo dei decisori politici, troppo spesso, si sia rivolto a modelli passati, penso ad esempio al piano Marshall. Di contro, gli ideatori delle politiche pubbliche che rilanciarono l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale ebbero il coraggio e la creatività di immaginare un futuro, scommettendoci senza riserve e senza farsi scudo di eventuali modelli fortunati implementati dai loro predecessori. Questo tema, tuttavia, meriterebbe uno spazio più ampio di una singola domanda. Magari, chissà, in una prossima intervista.


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