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La sfida di Joe Biden: dalla corsa elettorale alla Presidenza

La vittoria di Joe Biden non era affatto scontata all’inizio della corsa presidenziale. Adesso, tra pandemia e crisi economica globale, il nuovo Presidente si trova di fronte ad alcune sfide fondamentali non solo per il futuro dell’America, ma di tutto l’Occidente. Nel giorno dell’insediamento ripercorriamo brevemente le tappe di questo lungo percorso iniziato con le primarie democratiche

In questo anno difficile, per il mondo e per gli Stati Uniti, e dopo i quattro anni di amministrazione Trump, era chiaro che il risultato elettorale americano e che tutto il lungo percorso che avrebbe portato alle elezioni sarebbero stati seguiti con grande interesse, non solo in America.

Adesso, concluso questo travagliato tragitto, con l’insediamento ufficiale di Joe Biden e Kamala Harris, si apre una nuova fase, importante per gli Stati Uniti, ma anche per gli alleati.

La sfida che si apre davanti al nuovo presidente sarà davvero molto impegnativa, sia per le questioni urgenti che immediatamente dovrà affrontare che per la necessità di dover dare subito un segno di forte cambiamento rispetto al predecessore. Anche gli ultimi fatti e il modo in cui l’esperienza Trump si è conclusa, testimoniano un clima difficile con cui, Joe Biden, dovrà misurarsi fin da subito. A partire dalla prima sfida da vincere: la crisi pandemica.

La lunga corsa elettorale ha occupato tutto l’anno appena concluso, parallelamente allo sviluppo della pandemia. Si può dire con una certa sicurezza che la pandemia abbia, non poco, condizionato sia lo sviluppo della campagna elettorale, dominando il dibattito pubblico, che probabilmente il risultato finale e la sconfitta di Donald Trump. Nonostante il Covid, il ticket Biden-Harris è riuscito a raccogliere un risultato storico, sul piano generele dei consensi e della partecipazione al voto, vincendo anche in stati come Arizona e Georgia dove la vittoria democratica mancava da molti anni e ribaltando il risultato di altri stati del Midwest, che quattro anni fa erano stati decisivi per la vittoria di Trump.

La vittoria democratica potrebbe rappresentare una svolta dopo 4 anni di amministrazione Trump. Questo almeno è quello che si augurano in molti, non solo tra gli elettori di Biden, ma è quello che anche le prime dichiarazioni del neopresidente fanno presagire. Non sappiamo dire quanto grande sarà il cambiamento, ma dai programmi elettorali, e dai primi propositi manifestati dal nuovo Presidente, è abbastanza immaginabile che sia sulla politica estera, che quella interna, il cambio sarà molto risoluto. Oltre ovviamente ad un cambio netto, già evidente in questi giorni, rispetto alla lotta alla pandemia e nell’interpretazione del ruolo del Presidente: da questo punto di vista Joe Biden rappresenerà di sicuro un modello completamente diverso rispetto a Donald Trump.

Al di là del Covid, e del suo impatto sul paese, la corsa di Joe Biden alla presidenza è stata tutt’altro che facile. Al momento in cui si è candidato, scendendo in campo in una campagna per le primarie democratiche già molto affollata di candidati espressione soprattutto dell’ala più radicale del partito, con Elisabeth Warren e Bernie Sanders che sembravano, nei pronostici, destinati a fare la parte del leone nella competizione, non molti sarebbero probabilmente stati pronti a scomettere sulla sua vittoria. Anzi, i primi risultati erano apparsi deludenti e sembravano spianare la strada proprio all’anziano senatore “socialista” del Vermont, in vantaggio sia nel consenso delle prime elezioni primarie che nella raccolta fondi. Poi, con i primi stati del Sud e del Midwest, è arrivata la svolta. E di volta in volta in volta, forte del consenso della parte moderata del partito e, anche, di alcuni candidati ritiratisi dalla corsa, ha infilato una serie di vittorie molto nette, con cui ha staccato Sanders e inizianato a guadagnare anche il primato nei sondaggi nella base degli elemtori democratici. Passo dopo passo, Biden è diventato sempre di più l’unico candidato in grado di poter vincere la nomination, ma anche di poter contendere la vittoria a Trump, anche in virtù del consenso che stava raccogliendo sopratutto tra i ceti medi e tra i lavoratori, oltre che tra gli afroamericani, mentre il paese era attraversato da nuove tensioni sociali e razziali e lo spettro dell’emergenza sanitaria inziava a manifestarsi in Nord America.

Il timore della probabile sconfitta di un candidato troppo radicale contro Trump stava lasciando spazio, giorno dopo giorno, alla speranza che proprio intorno all’esperto politico del Delaware, popolare e famoso in tutto il paese, si potesse coalizzare un ampio fronte, per quanto eterogeneo, in grado di contendere la Casa Bianca al Tycoon. Una speranza che, a dire il vero, solo pochi mesi prima, per molti opinionisti e analisti, poteva sembrare un miraggio. Prima della discesa in campo di Biden, e fino alle prime battute della corsa democratica, molti davano per scontata una riconferma di Trump. I candidati democratici sembravano tutti troppo deboli, radicali, il partito appariva incerto e frammentato e la stessa battaglia dell’impeachment sembrava essersi rivelata come un boomerang, non solo sul piano politico, ma anche soprattutto a livello mediatico. Quando Biden si è candidato la corsa per i Democratici sembrava davvero molto in salita.

Strada facendo, per merito dell’appoggio riscosso non solo nell’opinione pubblica, ma anche dalla parte più coesa e strutturata dell’establishment del partito, Biden è riuscito a conquistare il consenso necessario ad affermarsi come l’unica vera alternativa possibile a Trump.

Tre probabilmente i fattori decisivi sul piano politico: la capacità di Biden di unire e parlare a fasce diverse di elettorato, in modo rassicurante e pacato, sia alle minoranze, quella afroamericana in particolare, come ai lavoratori e agli elettori degli stati rurali e del midwest e dall’altro lato, la necessità di sconfiggere Trump, contrapponendo al presidente uscente, in un confronto che tutti immaginavano comunque molto dificile, un partito unito e il più possibile coeso. Questo secondo elemento, parimenti importante rispetto alla capacità e all’abilità politica del candidato, ha probabilmente favorito una soluzione più rapida delle primarie, con il ritiro finale di Sanders, ma anche la desistenza di molti elettori di sinistra, che comunque, pur essendo Biden un uomo della “vecchia guardia”, un moderato e un esponente dell’estrablischment, lo hanno votato e sostenuto, pur di sconfiggere Donald Trump. E indubbiamente, la capacità dimostrata da Biden di saper unire e di parlare anche a soggetti diversi, dagli stati rurali alle periferie urbane, dalle elites dei centri cosmopoliti delle coste alle minoranze etniche ai lavoratori della classe media, gli ha permesso di riuscire nel terzo fattore decisivo per la vittoria: tenere unito il fronte elettorale fino al 3 novembre e guadagnare progressivamente consensi, mentre il Presidente, sondaggio dopo sondaggio, nel pieno della crisi del coronavirus, li perdeva.

Nonostante le difficoltà dell’emergenza e il vantaggio accumulato nei mesi nei sondaggi nazionali, per Biden il confronto con Trump non è stato affatto semplice. Lo scontro, in alcuni momenti, è stato durissimo. Come dimostrato dal primo dibattito televisivo tra i due candidati, ma anche durante il confronto a distanza giorno dopo giorno, con attacchi reciproci che hanno raggiunto livelli mai visti i passato, che in molti casi hanno dato l’impressione di essere funzionali anche a mobilitare i propri elettori contro l’avversario. Mobilitazione e partecipazione che è stata comunque fondamentale, oltre che impressionante, con numeri da record nonostante il Covid.  La pandemia del nuovo coronavirus,  arrivata negli Stati Uniti, dopo l’Europa e l’estremo Oriente nel pieno della campagna elettorale, si è progressivamente aggravata fino a novembre. Per molti decisiva per la sconfitta di Trump, è stata indubbiamente centrale nel cambiare il piano del confronto elettorale e, anche, per dare un argomento in più agli oppositori del Presidente. Pandemia che tutt’ora imperversa, ma rispetto alla quale, dopo tanti mesi di buio e paura, si inizia a intravedere una luce in fondo al tunnel, con l’inizio della campagna vaccinale.

Il risultato elettorale, incerto e combattuto fino all’ultimo, ha visto la vittoria netta di Biden (rafforzata anche dai risultati recenti delle elezioni senatoriali in Georgia), nonostante la rimonta di Trump e le difficoltà di un voto fortemente spaccato, di un paese diviso, come mai era stato nella storia recente. Trump è uscito sconfitto, pur risultando il candidato sconfitto più votato della storia e con un pezzo di elettorato incrollabile nel consenso verso di lui. Ora però Joe Biden è atteso dalla sfida più difficile: guidare il paese. Non avrà davanti a se un compito facile: non solo per le aspettative che lo circondano o per l’eredità di Trump, su cui gli storici e gli analisiti avranno tempo e modo nei prossimi anni di esprimere giudizi approfonditi. Il mondo con cui presto si dovrà confrontare è oggi molto più diviso, disordinato e in competizione degli anni in cui era Vicepresidente e, soprattutto, la pandemia potrebbe aver complicato notevolmente le cose. Certamente egli vorrà imprimere una svolta, netta, rispetto alla linea tracciata dal suo predecessore, non solo in politica estera e in politica interna, ma anche nei linguaggi, nel lessico con cui comunicherà da presidente e nei modi con cui probabilmente interpreterà il suo ruolo. Su questo cercherà di marcare la differenza. Su alcuni punti, che riguardano la grande strategia internazionale americana, pur con un lessico e con modalità diverse, e sicuramente recuperando parte del tradizionale “internazionalismo liberale” americano e una visione più “multilateralista”, Biden terrà probabilmente fede alle direttrici strategiche fondamentali del paese.

Le priorità americane, su molti punti, sono evidenti da tempo e in gran parte si concentrano intorno al mantenimento del primato mondiale sul piano economico, culturale, militare e tecnologico. Da qui, centrale resterà nella sua agenda il tema della competizione strategica con la Cina, declinato su diversi piani, da quello commerciale a quello tecnologico e militare, e magari affrontato anche con una visione, e metodi, diversi da quelli di Trump: ovvero più orientata al multilateralismo che al nazionalismo, con un diverso protagonismo dell’America nel mondo e un diverso approcio agli alleati, a partire da quelli Europei e da quelli dell’area indo-pacifica. Come del resto lui stesso ha più volte anticipato anche nei mesi scorsi. Ma il cuore della competizione resterà in confronto con la Cina: poichè essa, oggi, più di ogni altra potenza al mondo, costituisce l’unica vera potenza emergente sul piano globale in grado di mettere in discussione il potere globale americano. Non a caso viene considerata da molti analisiti americani una “minaccia sistemica” e una potenza “revisionista”, che mira a ridefinire gli equilibri globali esistenti.

Le linee di fondo della politica estera e di sicurezza che Biden metterà in campo nei prossimi anni a livello interazionale in molte regioni, e su alcuni dossier, potrebbe in alcuni punti non scostarsi molto dal solco già segnato dai suoi predecessori, a partire soprattutto da Obama, ma potrebbe anche riservare delle sorprese, dettate da nuove necessità. Certo, sul piano internazionale Biden potrebbe differenziarsi da Trump su molti punti, anche di merito oltre che di metodo, per esempio rispetto al rapporto con gli alleati Europei. La vittoria di Biden può davvero rappresentare l’occasione di un riavvicinamento delle due sponde dell’Atlantico, che entrambe, devono poter cogliere. Ma oltre alle relazioni transtlantiche, Biden potrebbe anche rilanciare temi cari ai Democratici, come la lotta al cambiamento climatico, la difesa e la promozione dei diritti umani e della democrazia e potrebbe essere anche obbligato a definire nuove strategie di azione rispetto ad alcune aree del mondo. Per esempio a partire dal Medio Oriente o dall’Africa, oltre che dal Pacifico.

Sia il tema, centrale, del rapporto con l’Europa, che quello della presenza americana in Medio Oriente e in Africa, va detto, potrebbero portare a scelte condizionate anche dalla necessità di ampliare, da un lato, il fronte di contenimento russo/cinese, puntando su una stabilizzazione e un rilancio dei rapporti con gli alleati, e dall’altro, quello di rilanciare l’influenza e la presenza americana, in aree dove negli ultimi anni è cresciuta proprio la presenza sia russa che cinese. Da questo punto di vista tutta la regione MENA potrebbe diventare una  necessità strategica non solo per la competizione con Russia e Cina, ma anche per il tema della sua stabilizzazione e pacificazione. Non è semplice dire quale linea potrebbe seguire la nuova amministrazione in questa regione, dove nel corso degli ultimi anni molte cose sono cambiate. Indubbiamente vi potrebbero essere tre priorità centrali da affrontare per la sua stabilizzazione, oltre ovviamente alla soluzione delle crisi più gravi ancora aperte, come Libia e Siria. Il pirmo tema aperto, anche alla luce dei 4 anni precedenti, potrebbe essere il confronto con l’Iran. Il secondo aperto quello del rapporto con il mondo sunnita, diviso tra i due poli rappresentati da Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita, Egitto ed Emirati dall’altra, tutti però paesi alleati o amici degli Stati Uniti. Infine, la soluzione della questione israelo-palestinese. Ad ora è difficile immaginare come, al di là di interventi mirati e di un maggiore sforzo politico-diplomatico, gli USA possano modificare di molto la propria presenza nella regione. A meno di nuove improvvise crisi, come la vicenda Stato Islamico sei anni fa. Un maggiore impegno americano nell’area, come auspicato anche dagli Alleati, non sarà facile, tenendo conto del clima in patria, con le spinte isolazionistiche che si respirano e della volontà di disimpegno che trasversalmente tocca entrambi i partiti. Biden, facendo i conti con il clima interno, sopratutto per partite ancora aperte come l’Afghanistan, dovrà agire con molta attenzione, anche perchè la sfida strategica rimane la Cina, e questo è un tema su cui a Washington sembrano tutti molto d’accordo. Però gli eventi, e nuove necessità, potrebbero condurre nei prossimi anni di fronte a tensioni e rivalità crescenti e una situazione di instabilità pericolosa, e portare il nuovo presidente a cercare di dare ordine ad una regione del mondo tra le più contese, e strategiche, dove sono concentrati gli interessi di tutte le grandi potenze mondiali e non mancano attriti anche tra paesi alleati degli USA. Inoltre vi sono dossier come la lotta al terrorismo o la sicurezza energetica, che potranno essere necessariamente sempre al centro delle attenzioni degli USA e che per esempio possono riguardare anche aree come il Sahel o il Corno d’Africa o l’Aria centrale.

Per quanto riguarda il tema dei rapporti transatlantici, Biden cercherà probabilmente di marcare una forte differenziazione rispetto al suo predecessore, rilanciando canali di confronto e collaborazione con l’Europa, in cambio di un maggiore impegno europeo sia nel Fianco Sud, oltre che su quello orientale per contenere la Russia di Putin, e la Cina di Xi. Oltre a un maggiore sforzo sul piano degli investimenti per aumentare i loro budget nel settore della difesa. In cambio possiamo aspettarci maggiore cooperazione in settori strategici, anche economici e industriali, più attenzione e disponibilità al dialogo diplomatico, per ricostruire un nuovo clima di fiducia reciproca. Biden ha sempre spinto molto, anche durante la campagna elettorale, sul tema del rilancio dei rapporti con gli Alleati e l’Europa. L’ha fatto sicuramente per motivi di ordine ideale, ma è molto probabile che l’abbia fatto anche avendo in testa di rafforzare il ruolo dell’America nel mondo, sapendo che tanti più alleati gli Usa avranno al loro fianco, quanto i valori che rappresentano potranno essere difesi e promossi.  Per questo cercherà anche un rilancio del multilateralismo, a partire dal ruolo degli USA nelle grandi organizzazioni internazionali, dall’ONU e le sue agenzie, ma anche nel WTO e nella NATO. In fondo per aggiornare le priorità strategiche della NATO e cercare di rendere comuni agli alleati alcuni imput cari a Washington, magari aggiornando il concetto strategico, potrebbe essere utile rafforzare il fronte di paesi amici degli USA, nel “grande gioco” della competizione globale tra potenze.

Ma oltre alla politica estera, che per una superpotenza come gli USA ha un peso rilevante, ma che durante la campagna elettorale ha avuto nel paese un’attenzione relatica, è evidente che le principali sfide che Biden affronterà, e su cui sarà chiamato a rispondere ai suoi elettori, saranno da subito di politica interna.

 A partire dalla necessità, promessa fin dalla campagna elettorale e dopo la sua vittoria, di “unire” il paese e ridurre le tensioni esistenti a tutti i livelli, politici e sociali. Ma oltre a questa necessità impellente, avrà due grandi priorità da affrontare subito, fondamentali probabilmente anche per riunificare il paese e allentare le tensioni che lo attraversano: crisi economica e pandemia. Su questi due fronti aperti Biden ha promesso di attivarsi immediatamente; sia sul versante economico che sanitario. In questa direzione va l’ American Rescue Plan di 1900 miliardi: un piano di salvataggio fatto di nuova spesa pubblica destinata sia alla lotta al virus che al sostegno della fasce più deboli della popolazione. Necessariamente dovrà tentare di far uscire il paese dalla crisi sanitaria ed economica, utilizzando strumenti, e linguaggi, diversi di quelli adottati da Trump, per portare con se la gran parte degli Americani. Non sarà facile, ma per uscire dalla spirale della crisi, anche i vaccini potranno aiutare. Non a caso anche su questo versante l’impegno promesso dal nuovo presidente sarà molto significativo. Invece, tra le altre questioni aperte, su cui cercherà di marcare una netta differenza rispetto a Trump, si segnalano i temi ambientali, la lotta al razzismo, l’immigrazione e le politiche fiscali. Sicuramente, come annunciato, su alcuni di questi temi cercherà di impremere fin dal suo primo giorno di mandato una svolta rispetto al recente passato e alle politche trumpiane, adottando nei primi giorni dopo l’insediamento una serie di provvedimenti orientati ad invertire la tendenza imposta negli anni precedenti. Oltre a quello economico e sanitario, anche sul piano energetico e ambientale, si gioca un altro pezzo della scommessa di Biden. Una sfida non banale, che può essere funzionale anche a ricostruire un ruolo di guida degli Stati Uniti a livello globale. A partire dal rientro negli accordi di Parigi.

Non sarà sempre facile condurre la sua agenda progressita di governo su alcuni di questi temi, dovendo fare i conti da un lato con un partito dove la minoranza radicale ha comunque un peso ancora molto rilevante e cercherà di condizionae le sue scelte il più possibile, mentre dall’altro lato, la necessità di trovare spesso una sintesi o una mediazione con una parte dei Repubblicani, potrebbero limitare l’adozione di scelte molto radicali. Ma al di là delle difficoltà del momento, è evidente che, non solo negli Usa, grandi sono le attese per l’inizio del suo mandato e per capire davvero, quanto sarà capace di aprire una fase di cambiamento.

Joe Biden avrà davanti a se anni non semplici e alcuni snodi decisivi, su molti temi, non solo per il futuro degli Stati Uniti, ma per quello del mondo e dell’Occidente. Ambiente e sicurezza, economia e salute globale, democrazia e diritti umani saranno solo alcuni dei temi su cui potrà tentare di rilanciare l’immagine e il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e la loro capacità di leadership globale. Certamente, in un momento così delicato e difficile, dalle sue scelte dipenderanno anche molte possibilità, per l’Europa e gli  Stati Uniti, di poter rinnovare insieme le ragioni di quel progetto comune fondato su solidarietà reciproca, sicurezza e democrazia, che negli ultimi decenni ha rappresentato il cuore politico dell’Occidente.

Enrico Casini è Direttore di Europa Atlantica


Immagine tratta da Wikipedia

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