La Nato e la pandemia: un passo fuori dalla comfort zone “militare” per affrontare le sfide “civili” del mondo globale

La risposta della Nato di fronte alla pandemia

Nel corso dell’ultimo anno, la pandemia globale ha rivoluzionato ogni ambito dell’esistenza.

Nonostante le difficoltà, la Nato ha messo in campo diversi strumenti in maniera multidisciplinare[1], un buon test dell’approccio a 360°gradi caro all’Alleanza. Tra questi, il Centro di coordinamento euro-atlantico di risposta alle catastrofi (Eadrcc)[2] e l’Agenzia di supporto e procurement della Nato (NATO Support and Procurement Agency -NSPA) hanno un ruolo cruciale nel coordinare, stoccare e smistare gli aiuti dell’Alleanza ai propri membri e partner. Nel caso dell’Eadrcc, il suo il personale è passato da tre unità a 30[3], potenziandone il contributo.  La NSPA, tramite il centro operativo per il Sud a Taranto (Southern operational centre – Soc), fornirà alle Forze armate italiane 6 ospedali dispiegabili e pienamente attrezzati, in consegna a partire da gennaio di quest’anno[4]. L’Alleanza ha inoltre istituito una covid-19 Task Force e un fondo – il NATO Pandemic Response Trust Fund – che ha il compito di raccogliere scorte di materiale e servizi sanitari da fornire rapidamente ad alleati e partner che avessero bisogno di acquistarlo per via di carenze nelle forniture.

In alcuni casi anche le missioni Nato hanno attivamente partecipato ad ammortizzare gli effetti del covid nei teatri nei quali sono dispiegate. E’ il caso della missione in Kosovo (KFOR) e di quella in Iraq, con donazioni di materiale medico alle istituzioni locali.

Il caso italiano e l’impatto del virus sull’Alleanza

A ciò si aggiunge il fatto che alcuni stati membri come l’Italia hanno fatto ampiamente ricorso alle loro forze armate per sostenere le autorità civili nello sforzo di contenimento e gestione dell’emergenza. Questo ha messo in luce ancora una volta alcune tendenze. In primo luogo, il ricorso alle forze armate per colmare lacune nella gestione dell’emergenza delle autorità preposte nel settore civile. Non è un caso che in Italia la carica di commissario straordinario per il covid-19 sia ora ricoperta da un generale dell’esercito, il gen. Figliuolo, con una lunga esperienza di servizio, anche in Afghanistan e in Kosovo come comandante della missione Nato KFOR tra il 2014 e il 2015. In secondo luogo, l’impatto che il covid ha avuto sulle forze armate stesse. Quest’ultime sono state da un lato un efficace e valido sostegno alle autorità civili responsabili della gestione, dall’altro hanno subito loro stesse gli effetti della pandemia.

Non solo perché le forze armate alleate non sono immuni al virus, ma anche perché quest’ultimo ha impattato le missioni internazionali e di difesa collettiva nelle quali è impegnata l’Alleanza, nonché le esercitazioni in programma. All’inizio della prima ondata, il virus si è diffuso nel battaglione multinazionale di base in Lettonia, dispiegato nel quadro della Enhanced Forward Presence[5], mentre l’esercitazione “European Defender” è stata fortemente ridimensionata. Molte unità altamente qualificate delle forze armate hanno una formazione, un know how e un addestramento specifici e specialistici, dunque non sono facilmente rimpiazzabili in caso di contagio. Si tratta di unità come le forze speciali, di commando e controllo o deputate alla difesa missilistica.[6] Le conseguenze della pandemia su vari aspetti della difesa sono stati oggetto di analisi in un report del network dell’Alleanza composto da 6000 scienziati ed ingegneri provenienti dai paesi alleati[7]. I temi affrontati nel report vanno da quello del personale e dell’intelligence alle missioni e il planning.

La Nato e la necessità di una cooperazione civile-militare

Questo potrebbe essere un primo passo per iniziare, anche attraverso il Centro Nato che ha il compito di elaborare analisi e lezioni apprese (Nato Joint Analysis and Lessons Learned Centre – JALLC), una riflessione più strutturata sulla questione della cooperazione civile-militare, ancor più in vista del percorso verso l’elaborazione del Concetto strategico dell’Alleanza per il 2030[8]

Una delle tante lezioni apprese che l’Alleanza dovrebbe portarsi a casa e che spicca come un filo conduttore sottostante fin dall’inizio della pandemia, è l’importanza di una relazione tra le componenti civile e militare che sia funzionale, ben rodata e multidisciplinare. Sarebbe bene che tale cooperazione si dispiegasse su tutti i livelli del decision-making, dal locale e nazionale, a quello europeo e transatlantico dove è chiamata in causa la Nato. Ciò non vuol dire abusare della componente militare laddove la negligenza della componente civile fallisce, ma piuttosto adattare il proprio pensiero, concetto, e metodo, e di conseguenza anche le strutture organizzative e decisionali, ad un dialogo e collaborazione strategica con il mondo civile, ad esempio creando partnership strategiche con privati che portano un valore aggiunto all’Alleanza e ai suoi membri. 

Ciò è reso necessario dal fatto che un ventaglio sempre più vasto di stakeholders provenienti dal settore civile – pubblici e privati, statali e non statali, benevoli o malintenzionati – riesce ad influire con efficacemente sullo scacchiere internazionale e plasmarlo.

Tra le nuove sfide all’orizzonte, tanto il settore delle tecnologie emergenti, quanto la protezione e resilienza delle infrastrutture critiche, degli spazi pubblici, delle supply chain, quanto elementi vitali per il corretto funzionamento delle liberal-democrazie come i processi elettorali o un’informazione di qualità non permeata da notizie false, tutte sono sfide fondamentali e nessuna ha una dimensione strettamente militare. A ciò si aggiunge il fatto che competitor della Nato come Cina e Russia hanno raffinato l’utilizzo di strategie ibride che vanno a colpire le società dell’area euro-atlantica e a minarne la stabilità attraverso strumenti che complicano una risposta nazionale o transatlantica coordinata ed efficace. Ciò sarebbe dimostrato dal ruolo che giocano Mosca e Pechino dalla diffusione di notizie false fino alla cosiddetta diplomazia delle mascherine. In un contesto di multilateralismo aggressivo[9] come quello attuale, la società civile è diventata un vero e proprio campo di battaglia in una “guerra in tempo di pace”[10]. Se la Nato vuole giocare un ruolo in questa partita, dovrebbe continuare ad uscire dalla sua comfort zone, come ha già timidamente iniziato a fare anche questa volta e come ha sempre fatto, fin dalla sua fondazione.


Karolina Muti è ricercatrice nei programmi Sicurezza e Difesa all’Istituto Affari Internazionali (IAI) e Junior Pan-European Fellow presso lo European Council on Foreign Relations (ECFR).


[1] https://europaatlantica.it/emergenza-coronavirus/2020/04/cosa-sta-facendo-la-nato/

[2] https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/4/pdf/200401-EADRCC-Requesting-assistance-in_3.pdf

[3] https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2020/10/FP_20201028_nato_covid_demaio-1.pdf

[4] https://www.nspa.nato.int/news/2021/covid-ambulances-delivery-italy

[5]https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/Periodico_2017/Documents/Numero5/ID_5_2017_enhanced_forward_presence.pdf

[6] https://www.europeanleadershipnetwork.org/commentary/the-coronavirus-pandemic-hits-nato-five-potential-implications/

[7] https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_182281.htm

[8] https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_182157.htm

[9] https://www.iai.it/it/pubblicazioni/il-futuro-della-nato-lalleanza-euro-atlantica-nella-guerra-tempo-di-pace

[10] https://www.iai.it/it/pubblicazioni/il-futuro-della-nato-lalleanza-euro-atlantica-nella-guerra-tempo-di-pace


Immagini tratte dal sito Nato.int

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