È l’ora dell’euro-atlantismo. Intervista ad Andrea Manciulli

Pubblichiamo l’intervista ad Andrea Manciulli, Presidente di Europa Atlantica, realizzata da Stefano Pioppi per Formiche.net

Il viaggio di Joe Biden in Europa dimostra che gli Stati Uniti hanno voglia di rilanciare l’asse transatlantico. Non è però solo retorica, ma un segnale concreto che il Vecchio continente deve saper cogliere. Dai vaccini alla corsa tecnologica con la Cina, dal clima al Sahel, l’Europa e l’Italia sono chiamate a definire un livello d’ambizione all’altezza delle sfide in corso. Ne è convinto Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica, raggiunto da Formiche.net per commentare il viaggio di Biden in Europa, tra G7, vertice Nato e il bilaterale con Vladimir Putin.

Biden è arrivato in Europa con toni di amicizia e alleanza. Sono improvvisamente scomparsi i quattro anni di Donald Trump?

Non si può non notare il rinnovato impegno americano per l’Europa e l’Occidente. Rispetto alla precedente amministrazione si è decisamente voltato pagina. Il viaggio di Biden è importante perché concretizza tutto questo, dimostrando che gli Stati Uniti vogliono riprendersi quell’idealità e quei valori che da sempre contraddistinguono la loro azione, cercando di dare un messaggio positivo di crescita e condivisione. È evidente nel caso dei vaccini. La scelta di Biden di acquistare dosi per metterle a disposizione di altri dà il senso della volontà concreta di impegnarsi.

E per quanto riguarda la Nato?

Si può dire lo stesso. Emerge chiara la volontà americana di rilanciare l’asse transatlantico, e di farlo non solo in modo retorico, ma anche pragmaticamente, iniziando ad affrontare insieme le nuove sfide.

Che ruolo può avere l’Italia?

L’Italia deve esprimersi in questo contesto, come ogni Stato che si chiami tale deve fare, definendo il campo da gioco per affrontare con gli alleati le nuove sfide.

Al G7 si sta parlando prima di tutto di un’azione condivisa contro il Covid-19…

La pandemia si è aggiunta alle minacce tradizionali imponendo al mondo intero la capacità non solo di saper rispondere e reagire a questo tipo di emergenze, ma anche di saperle prevenire. Il rilancio dell’Occidente passa attraverso un ruolo propositivo sul tema della Health Security, che riguarda tutti e tutto, dalla ricerca alla tecnologia, e che richiede di sviluppare nuove forme di solidarietà. Ci troviamo, fortunatamente, nella coda dell’emergenza e tutto sembra più organizzato rispetto allo scoppio della pandemia, a cominciare dal nostro Paese. Ma non è stato semplice. In passato c’è stato chi, come Bill Gates, aveva ipotizzato uno scenario come questo, ma in molti l’hanno sottovalutato. Da ora in poi non possiamo più permetterci alcuna sottovalutazione, e Biden lo sta dicendo chiaramente anche all’Europa.

Dal Covid al clima, per cui si registra una certa unità d’intenti. Cosa sta facendo la differenza?

Il fatto che il cambiamento climatico sia la seconda grande sfida che l’Occidente (e il mondo intero) ha di fronte. Ho molto apprezzato il ruolo che sul tema ha avuto la delegazione italiana alla Nato, visto l’impatto enorme che il fenomeno ha sulle nuove minacce e sulla sicurezza. Penso alle migrazioni, ai traffici illeciti, al terrorismo e alle crisi legate all’acqua. Penso alla fascia del Sahel e del nord Africa, destinata a ospitare sfide sempre più intricate. Da storico medievale non posso non notare che ci troviamo di fronte a una fase simile a quelle del passato che, in occasione di grandi epidemie o notevoli mutamenti ambientali, hanno spostato gli equilibri del Pianeta. Io credo che la Nato, come Alleanza, non possa non occuparsi di questi temi.

Ci faccia qualche esempio…

L’esempio più evidente è proprio l’Africa, e in particolare la fascia del Sahel, un’area su cui, non a caso, convergono gli interessi di molti attori. C’è poi l’Artico, che con il surriscaldamento climatico si apre alla navigazione e a rinnovate tensioni geopolitiche. Negli ultimi anni solo alcune élite di pensiero hanno prestato attenzione a tali sfide. Ma diventeranno il pane quotidiano della politica internazionale.

Biden è in Europa anche per chiedere condivisione sulla sfida posta dalla Cina, a iniziare dalla corsa tecnologica. Siamo pronti alla sfida?

I mutamenti tecnologici sono forse più evidenti visto l’enorme impatto che stanno già avendo sulla competizione globale. Sul fronte della cyber-security ritengo che l’iniziativa positiva presa da Franco Gabrielli, in accordo con Elisabetta Belloni e le agenzie, sia proprio il tentativo di rispondere a queste dinamiche. Il cyber ha mostrato a tutti, metaforicamente, che Davide può uccidere Golia. Fuori di metafora, si può essere molti piccoli ma capaci nella dimensione cibernetica per riuscire a mettere in scacco colossi e macro-aggregazioni come la Nato. Ciò cambia i parametri del confronto internazionale. Se ci aggiungiamo la sfida del terrorismo che ha mostrato quanto non siano più adeguati i confini nazionali, ci rendiamo conto della sfida geopolitica che abbiamo di fronte. In tal senso va letto il bisogno degli Stati Uniti di essere protagonisti, e quello dell’Europa di saper essere all’altezza di sfide per cui i singoli Stati, da soli, arrancano. La presidenza Biden mi sembra ben determinata su questo.

Arriviamo al Mediterraneo. Come si affrontano le sfide nel mare nostrum?

La complessità di cui sopra trova manifestazione, purtroppo, proprio nel Mediterraneo. Dopo anni in cui il bacino è stato un luogo a prevalente influenza europea e occidentale, oggi non si può dire che ci sia la stessa cornice. Nel Mediterraneo, in Africa e nel Medio Oriente trovano maggiore presenza nuovi attori, Russia e Turchia, con una diplomazia muscolare che abbiamo visto bene in Siria, che vediamo tutt’ora in Libia e che emerge in altre aree con altri sintomi.

Ad esempio in Sahel?

Sì. Mi ha molto colpito che in questi giorni, di fronte all’annuncio di Macron sul ritiro delle truppe dal Sahel, a Bamako ci siano state manifestazioni contro i francesi e inneggianti a Putin. Fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile. Credo ci debba far riflettere come Europa, perché è evidente che, se non riusciamo a produrre uno sforzo unitario, rischiamo di essere marginalizzati. Ci deve far riflettere anche come Italia, perché sarà necessario declinare nuove forme di rapporto con quella regione, e non solo. Altrimenti correremmo il rischio di restare schiacciati dalla diplomazia muscolare che altri soggetti mettono in pratica. Abbiamo bisogno di fare passi in avanti, di declinarci diversamente nel modo di porci sullo scenario internazionale.

Ci spieghi meglio.

Credo che un Paese come il nostro non possa smettere di battersi per i diritti umani, che restano il nostro faro, ma anche che, in una fase di completo cambiamento, serva la capacità di avere rapporti e costruire dinamiche positive anche con chi non condivide i nostri stessi standard politici. Il nuovo ordine mondiale non si costruisce da solo. La storia dell’umanità non è stata la stessa per tutti. L’Occidente ha risolto secoli fa, traumaticamente, la distinzione tra potere temporale e potere spirituale. Altre zone del mondo non hanno questa distinzione, ma ciò non può impedire la costruzione di ponti volitivi per il futuro. Se ognuno resta in casa propria con le proprie certezze, non si fa alcun passo in avanti.

Sta dicendo che l’Europa deve scendere a compromessi per evitare di lasciare nord Africa e Medio Oriente all’influenza di altre potenze?

Sto dicendo che l’Europa deve riannodare le fila con l’altra sponda del Mediterraneo, senza sconti sui suoi valori, ma senza nemmeno rendere impossibile il dialogo trincerandosi dietro le proprie certezze. Altrimenti si rischia il paradosso, con il Vecchio continente fuori dalle dinamiche del futuro e altri Paesi con un’idea di democrazia molto diversa da quella occidentale a gestire i rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo.

Articolo originale pubblicato su Formiche.net

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