La crisi in Kosovo e l’intervento Nato 20 anni dopo. Una breve storia.

A 20 anni dall’intervento Nato in Kosovo, ripercorriamo brevemente le tappe essenziali, le cause scatenanti e le immediate conseguenze di un conflitto che ha chiuso le guerre balcaniche degli anni novanta del Novecento e che ha contribuito anche al processo evolutivo dell’Alleanza Atlantica

A seguito di un lungo processo di alta natalità della componente albanese e di un continuo flusso migratorio di quella serba, all’inizio degli anni ’90 la composizione etnica del Kosovo era costituita per circa il 90% da cittadini di etnia albanese. Il Kosovo rappresenta tuttavia il cuore delle radici storiche, religiose e culturali serbe: oltre ad ospitare la sede del patriarcato serbo-ortodosso, questa regione aveva costituito il primo nucleo della “Grande Serbia” medioevale e qui si era svolta la battaglia di Kosovo Polje (28 giugno 1389), mito fondante della nazione serba.

Benché godesse di significative prerogative autonomiste, durante la Repubblica Socialista di Jugoslavia al Kosovo non venne mai riconosciuto lo status di repubblica. A partire dalla morte di Tito (1980) la componente albanese aumentò le proprie rivendicazioni mentre Belgrado rimaneva intransigente. Dato il forte valore simbolico, il tema del Kosovo fu anzi strumentalizzato dal nazionalismo serbo e da Milošević in particolare, che ne fecero la propria bandiera.

Negli anni ’90 la disintegrazione della Jugoslavia federale esacerbò la rivalità tra i serbi e gli albanesi. I serbi, sconfitti in Croazia ed in Bosnia, intendevano difendere quella che consideravano una regione vitale (avevano tre l’altro ottenuto di non affrontare la questione negli accordi di Dayton), mentre gli albanesi erano incoraggiati dagli stessi precedenti. Mentre gli albanesi, guidati dal pacifista Rugova, si convincevano di dover lottare per l’indipendenza, Belgrado rispondeva con una politica sempre più repressiva e tesa alla “normalizzazione” e alla “serbizzazione” della regione.

Se da un lato la violenta repressione di Belgrado aveva avuto successo, portando di fatto alla nascita di un regime di reciproco apartheid, dall’altro aveva spinto gli albanesi ad abbandonare le ambizioni pacifiste e di mediazione internazionale di Rugova per affidarsi alla lotta armata. Dal 1997 la leadership della lotta armata degli albanesi kosovari venne assunta dall’UÇK, una organizzazione di natura marxista-enverista sostenuta dal nuovo regime di Tirana. Milošević rispose facendo largo impiego non solo delle forze di polizia, ma anche dell’esercito jugoslavo e di gruppi armati paramilitari per “bonificare” la regione.

L’escalation di violenze che aveva incendiato il Kosovo nel 1997 e nel 1998 spinse il Gruppo di Contatto e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Risoluzione 1160) a condannare parimenti “l’eccessivo uso della forza” di Belgrado e il terrorismo dell’UÇK. Mentre nell’estate 1998 gli scontri si intensificavano, le mediazioni internazionali condotte da Holbrooke non decollarono dato che Milošević aveva riconquistato il controllo della regione e la leadership di Rugova era ormai indebolita. L’obiettivo di Belgrado era di chiudere la questione con la forza evitando l’intervento della comunità internazionale, ma sulla questione kosovara, oltre all’esistenza del regime di Milošević, era in gioco la sopravvivenza stessa della popolazione albanese.

Con la Risoluzione 1199 del 23 settembre 1998 le Nazioni Unite si espressero duramente: Milošević e l’esercito jugoslavo venivano individuati come unici responsabili della catastrofe umanitaria in corso e, nel caso in cui Milošević non avesse accolto le richieste avanzate, il Consiglio si riservava di: “consider further action and additional measures to maintain or restore peace and stability in the region”. A rafforzare la decisione, il 24 settembre 1998 gli Stati Uniti e i partner occidentali approvarono nel Consiglio dell’Alleanza Atlantica l’autorizzazione al Comandante supremo della NATO Wesley Clark a lanciare l’Activation Warning.

Tali pressioni internazionali tuttavia non turbarono Milošević, che rimase convinto di poter chiudere la questione kosovara velocemente. Per tale ragione la NATO proseguì nell’opera di minaccia tramutando l’Activation Warning in Activation Order (5 del mattino del 13 ottobre 1998), consegnando così al Segretario Generale Solana il potere di decidere l’avvio di una campagna militare limitata. L’attivismo della NATO trovò pochi giorni dopo una sponda nell’azione delle Nazioni Unite. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite infatti il 24 ottobre adottò la Risoluzione 1203 con cui per la prima volta si stabiliva un collegamento ufficiale tra Nazioni Unite e NATO.

L’esito di tale situazione fu una nuova recrudescenza del conflitto, che ebbe il suo culmine il 15 gennaio 1999 a Račak, quando una ritorsione delle forze speciali serbe causata dall’assassinio di tre militari jugoslavi da parte dell’Uçk si concluse con il tragico epilogo di 45 morti: ciò che più colpì furono però i metodi brutali della rappresaglia (l’esatto svolgimento dei fatti rimane però ambiguo e molto discusso). Nonostante l’intensificarsi della guerra in Kosovo, un ultimo tentativo diplomatico venne condotto a Rambouillet, dove dopo molti rinvii e polemiche il 23 febbraio 1999 la delegazione albanese firmò il testo dell’accordo proposto dal Gruppo di contatto, mentre il rifiuto serbo rimaneva netto.

A livello interno l’azione politica e militare di Belgrado fu efficace nel compattare l’opinione pubblica, e quindi nel garantire a Milošević un saldo controllo dello Stato. A livello internazionale invece il continuo susseguirsi di notizie, fotografie e video delle violenze perpetrate dai serbi ebbe una vasta eco sull’opinione pubblica internazionale. La larga copertura data dei media portò nelle televisioni di tutto il mondo le immagini di una sanguinosa guerra condotta in Europa. Inoltre, il ricordo di quanto accaduto solo pochi anni prima in Bosnia-Erzegovina nei confronti della popolazione musulmana contribuì a rafforzare nell’opinione pubblica la volontà di fermare Milošević.     

Il 23 marzo 1999 il Segretario Generale della NATO Javier Solana dette il via all’operazione Allied Force: alle 20.00 del 24 marzo 80 velivoli NATO e le navi da guerra statunitensi e britanniche dislocate nell’Adriatico iniziarono i bombardamenti ed i lanci di missili contro la Serbia. Mentre la NATO conduceva le operazioni aeree, in Kosovo si scatenò una guerra dalla violenza senza precedenti tra le forze jugoslave e quelle albanesi. Milošević sperava di sconfiggere definitivamente e a qualsiasi prezzo la guerriglia albanese e di sfruttare le fratture presenti nella coalizione che sosteneva l’attacco della NATO per porre presto fine ai bombardamenti.

Con l’operazione Allied Force, per la prima volta nella sua storia, la NATO metteva in campo tutto il proprio potenziale bellico per intervenire in uno scenario esterno ai confini dell’alleanza. Nonostante l’impegno militare statunitense fosse il più consistente, tutti gli alleati parteciparono allo sforzo bellico. Con l’intervento in Kosovo la NATO realizzava ciò che verrà successivamente codificato con il “Nuovo concetto strategico”, cioè la trasformazione da alleanza difensiva ad organizzazione promotrice di stabilità e pace, anche nei territori esterni a quelli dei membri dell’organizzazione.

Nonostante il progressivo intensificarsi dell’offensiva NATO, Belgrado appariva lontana dalla resa.  Per questa ragione nella NATO si avviò un dibattito intorno alla possibilità di sostenere l’operazione Allied Force con un intervento di terra, ipotesi discussa anche a Washington nella conferenza concepita per celebrare i 50 anni di vita della NATO. L’escalation militare raggiunse il picco di durezza il 27 maggio quando i bombardamenti NATO arrivarono a contare 714 missioni in 24 ore. La Serbia infatti, nonostante la straordinaria capacità di resistenza fisica e psicologica dimostrata, accusava i segni dell’offensiva militare e della imminente sconfitta.

Dopo due mesi di intensi bombardamenti, Milošević dovette constatare che nonostante i numerosi contrasti nessuno dei Paesi della coalizione NATO stava prendendo in considerazione l’ipotesi di interrompere l’operazione. La strategia di Belgrado aveva evitato una resa incondizionata e salvaguardato l’esistenza del regime di Milosevic, ma la superiorità militare della NATO imponeva la ripresa delle trattative, anche se per mezzo della mediazione russa. L’occasione per elaborare una nuova strategia diplomatica fu la riunione del G8 nel castello di Petersberg, vicino a Bonn. In tale consesso sedevano sia i principali membri della NATO, sia la Russia.

Il 5 giugno, sulla base delle decisioni di Petersberg, vennero intavolate a Kumanovo le trattative fra i vertici della KFOR e quelli dell’esercito serbo che si conclusero il 9 giugno. I bombardamenti continuarono fino al 10 giugno 1999, all’inizio di giugno inoltre per la prima volta gli aerei NATO intervennero in difesa dell’Uçk sul terreno. Gli accordi di Kumanovo misero fine all’operazione Allied Force dopo 78 giorni di bombardamenti prevedendo nei successivi 11 giorni il ritiro delle forze serbe dal Kosovo e l’ingresso di forze NATO calcolate in 50.000 unità. La presenza NATO per mezzo della KFOR sarebbe stata coordinata dagli americani, ma divisa in 5 diverse zone di presenza, ognuna affidata ad uno Stato diverso (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia). Lo stesso 10 giugno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 1244 con cui si legittimava l’operazione NATO appena conclusa e si autorizzava l’invio di un contingente internazionale in Kosovo.

Valerio Cartocci ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni internazionali nel 2016 presso l’Università degli studi di Firenze. Le sue aree di ricerca sono la storia della politica estera italiana, i Balcani e la fine della Guerra fredda

Fonte immagini www.nato.int

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