Africa e Balcani, dove il jihadismo può diventare un nuovo populismo

L’intervento di Marco Di Liddo, Senior Analyst del Ce.S.I. per il convegno “Il futuro del terrorismo jihadista” a Roma

Rispetto alla domanda che mi è stata posta, cioè quella di provare a delineare degli scenari futuri nell’evoluzione del fenomeno jihadista, devo ammettere che si tratta di una domanda molto a rischio. Questo perché, quando si elaborano gli scenari si rischia di essere catastrofisti o di essere percepiti come tali. Purtroppo, nel bene o nel male, noi del Ce.S.I. siamo degli analisi, quindi dobbiamo confrontarci con il mondo reale e non con quello che vorremmo avere. Quindi, nel caso in cui trapelasse una nota negativa in quelli che sono i nostri scenari, sappiate che purtroppo non è un pessimismo di natura ma è purtroppo la constatazione di quello che osserviamo percepiamo, non soltanto attraverso lo schermo di un computer ma anche attraverso i nostri numerosi viaggi nelle aree di crisi. Ed è quello l’elemento che più di tutti, quando dobbiamo fare il nostro lavoro, tende a farci preoccupare. Perché quando ci rechiamo in Africa, quando ci rechiamo nei Balcani, e parliamo, non i con i returnee piuttosto che con il radicalizzato, ma con l’uomo della strada, lì abbiamo il metro di quanto la diffusione di determinate ideologie eversive e di quanto il rischio della radicalizzazione violenta siano alti.

Partendo appunto dai Balcani, si parla giustamente di Kosovo, un Paese che io amo, ho frequentato a lungo ma che, dobbiamo ammettere, è quello che nel contesto dei Balcani occidentali del sud si sta muovendo discretamente bene nel contenere la minaccia dei returnees. In Kosovo hanno un sistema che riesce a monitorarli, anche grazie al supporto indispensabile dei partner occidentali, in primis il nostro Paese, attivo fin dall’inizio della nascita stessa di quello Stato.

Puntiamo lo sguardo piuttosto verso altri focolai che adesso avanzano in sordina: la Macedonia, il Montenegro e soprattutto la Serbia del sud, che magari hanno in termini assoluti un numero di foreign fighters minore ma che, siccome non sono sufficientemente  attenzionati e non devono fronteggiare  forze in grado di contrastare il fenomeno, in un certo senso stanno diventando un’incubatrice di quello che potrebbe essere il prossimo problema jihadista autoctono europeo. Anche perché i Balcani sono l’area del nostro continente in cui esistono le condizioni sociali, geografiche e di carenza nel controllo del territorio migliori per far proliferare un fenomeno eversivo di questo tipo e soprattutto perché sono il ponte naturale, il connettore naturale tra Europa, Africa, Medio Oriente e Asia come lo sono sempre stati. Quindi per tradizione, mantengono questa funzione. Noi vorremmo che fosse una tradizione di condivisione culturale positiva, purtroppo però ci troviamo difronte ad una condivisione di vulnerabilità e problemi che valgono per tutti. In questo senso, gli attacchi che ci sono stati in Francia al Bataclan e tutte le attività investigative riguardo gli attentati in Belgio e altri simili casi in Europa hanno sempre dimostrato una connessione molto forte coi Balcani. Quindi i Balcani sono e resteranno nel prossimo futuro il punto di accesso per determinate problematiche continentali.

Se volgiamo lo sguardo verso l’Africa, il quadro diventa ancora più fosco. Io ho preso alcuni appunti. Mi sono piaciuti molto i concetti di virus, perché effettivamente il jihadismo, soprattutto in Africa, si comporta in questo modo e continuerà a comportarsi in questo modo: attacca una società, ne corrompe la struttura genetica e la ricodifica per sopravvivere a lungo. Potremo neutralizzare al-Baghdadi, potremo neutralizzare Belmokhtar, potremo neutralizzare tutti i maggiori leader del deserto ma se non andiamo a tagliare la radice del problema ne verranno fuori sempre di nuovi, sempre più forti e sempre più scaltri perché molte volte a differenza della società occidentale, i soggetti che si radicalizzano e che propugnano questa battaglia violenta riescono a fare maggior tesoro delle lezioni apprese, perché devono agire in un contesto di scarsità di risorse e, quindi, essere quanto più efficienti possibile.

Secondo appunto: percezione. Il jihadista si percepisce come un partigiano, questo è vero. E’ ancora più grave quando il jihadista è percepito dalla società locale come un partigiano e questo è quello che avviene in Africa, in aree sempre più numerose. Se nel nord del Mali le tribù Tuareg e Fulani hanno aperto le porte di casa ai movimenti jihadisti è perché i movimenti jihadisti sono stati più abili del governo, delle ONG occidentali, e di tutte le strutture dedicate al supporto umanitario nella regione ad offrire sostentamento ad una popolazione messa in ginocchio da povertà, cambiamento climatico e lotte tra diverse etnie per l’accesso alle risorse. Siccome il cambiamento climatico non farà altro che peggiorare le condizioni del luogo, e quindi i fattori di conflittualità, se non si interviene nel promuovere pace e dialogo e nel migliorare il rapporto tra le diverse comunità sociali, il jihadismo non farà altro che crescere.

Ultima prospettiva, ultima riflessione. Si è parlato di ideologia. Questo è il punto più dolente. Noi spesso ci concentriamo, guardando l’Africa e guardando i Balcani, sull’estremismo violento nel momento in cui questo si traduce in attacchi veri e propri, quindi attentati agli alberghi o altri luoghi sensibili, quando i nostri cittadini sono minacciati nella loro incolumità fisica, quando ci sono morti, feriti. Insomma quando sentimentalmente veniamo colpiti. Questo ci spinge a sottovalutare la minaccia politico-sociale.

Viviamo in momento in Europa in cui ci sentiamo o avvertiamo il pericolo della crescita dei populismi, di una nuova visione politica che delle volte ha l’arroganza di dare risposte facili, immediate, di pancia a problemi concreti. Il prossimo passo nell’evoluzione del jihadismo, soprattutto in Africa e in prospettiva anche nei Balcani, è che questo si trasformi in un populismo 2.0 radicale, cioè che riesca a parlare il linguaggio della gente ed essere percepito come una risposta ammissibile e concreta per le esigenze della popolazione. Questo è già in corso in alcune zone non dei Paesi africani, non del Mali, non del Niger, ma del Nord Africa. Nel sud dell’Algeria, nella zona di Ghardaia, nel profondo sud, i sindacati algerini, che erano tra i soggetti politici più forti all’interno del Paese, hanno perso tantissimo sostegno in favore di organizzazioni dalla provenienza ombrosa che non hanno fatto altro che aiutare i locali ad avere le case popolari. Quindi il sostegno è andato in quella direzione, non nel mettere una bomba contro un albergo frequentato da occidentali piuttosto che contro le Forze Armate algerine, ma nel creare una pressione quasi “mafiosa” o “criminale” per fare ottenere le case popolari alle fasce meno abbienti della popolazione.  

Questo avverrà sempre di più nel futuro. Cioè la crescita di un rapporto violento, conflittuale, non conciliatorio tra un mondo che è quello dell’ultra-conservatorismo motivato religiosamente (perché mi rifiuto di mettere l’aggettivo “islamico” a questo tipo di  militanza politica) e il mondo occidentale. Questo come si tradurrà a livello di minaccia per l’interesse nazionale? Potremmo avere classi politiche sempre meno disposte a dialogare in modo costruttivo con noi. Questa mancanza di dialogo non è solamente scortesia diplomatica nel momento in cui bisogna andare alle Nazioni Unite a discutere dei vari problemi comuni, ma può darsi che diventi un atteggiamento “chiuso” e assertivo quando bisogna concludere contratti economici, quando bisogna costruire insieme uno sviluppo condiviso, quando bisogna cedere delle quote della propria ricchezza naturale per farle sfruttare a committenti che vengono dall’estero.

I Paesi infettati dal nuovo populismo jihadista potrebbero preferire partner diversi da quelli occidentali, magari con una visione ideologica ad essi prossima. In questo senso, e concludo, bisogna anche non sottovalutare le partite politiche spesso ambigue di alcuni attori terzi che, come spesso è accaduto nella storia, utilizzano determinati movimenti radicali, sia violenti nell’azione che nell’ideologia (quindi di rapporto con il diverso), per implementare le loro agende. Per risolvere questa montagna quasi impossibile da scalare di problemi, l’unica soluzione è armarsi di pazienza e di buona volontà e cercare di costruire strategie di sviluppo e di dialogo che non abbiano noi al centro, ma che ascoltino innanzitutto le richieste, che ci piacciano o meno, di quella gente, che per prima è colpita dal fenomeno radicale.

Marco Di Liddo

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