Obiettivi e responsabilità di NATO e Italia in Afghanistan

 

Il 2018 è il diciottesimo anno di guerra in Afghanistan, il quarto anno di operatività della missione di contro-terrorismo Freedom Sentinel (erede di Enduring Freedom – Afghanistan) e della missione a guida NATO Resolute Support, succeduta a ISAF il 1° gennaio 2015. Una guerra, nella sostanza persa perché non vinta, che ha visto i due principali gruppi di opposizione armata prendere possesso di molte aree del paese, in particolare nelle province di Helmand e Kandahar, e costretto le forze afghane a indietreggiare da Kunduz, Badakhshan e Farah (quest’ultima sotto la responsabilità italiana): i talebani e l’IS-Khorasan, lo Stato Islamico “Wylayat Khorasan” (provincia del Khorasan), franchise afghano-pakistano di quello che fu lo “Stato islamico di Iraq e Siria”.

Aumenta la violenza insurrezionale e terroristica

I talebani, stimati in 35/50.000 combattenti, oggi controllano il 43% dei distretti provinciali e si sono dimostrati propensi a un accordo di pace che apra alla spartizione del potere, ma vogliono farlo da una posizione di forza. E questo spiega l’intensificazione delle azioni militari.

Forte di poche migliaia di miliziani, ma in costante crescita grazie ai molti reduci jihadisti fuggiti dai fronti siriano e iracheno, l’IS-Khorasan ambisce a contendere ai talebani la leadership del fronte insurrezionale.

Lo stato afghano, sempre più debole, è incapace di garantire il controllo del territorio oltre alle periferie urbane.

Stati Uniti e NATO, nonostante un costo totale della guerra pari a 900 miliardi di dollari, dei quali 121 destinati alla ricostruzione dello Stato, hanno mancato l’obiettivo di realizzare forze armate e di polizia afghane autonome ed efficienti. Nonostante più del 60 percento dei 121 miliardi di dollari destinati dagli Stati Uniti per la ricostruzione dello Stato afghano sia stato speso nel settore della security assistance, sul totale delle 101 unità di fanteria solo una è classificata come pienamente “pronta al combattimento”, altre 38 unità sono indicate come affette da “limiti sostanziali”(1).

La NATO e gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti hanno schierati circa 16.000 soldati (erano 100.000 nel 2011): 8400 inquadrati nella missione NATO, forte di 13.500 unità provenienti da 39 paesi, mentre gli altri operano all’interno della missione di contro-terrorismo; a questi si uniscono gli oltre 26.000 contractor che compensano la riduzione del personale militare. Lo sforzo della NATO, come annunciato dal Segretario Generale dell’Alleanza, porterà a breve al dispiegamento di ulteriori 3.000 soldati.

Per Washington, la cui presenza in Afghanistan è confermata sino a tutto il 2024 attraverso il controllo esclusivo delle basi aeree strategiche(2), ha recentemente presentato la nuova strategia “4R+S”: “regionalizzare”, “riallineare”, “rinforzare”, “riconciliazione” e “sostenibilità”. Nella sostanza è una reinterpretazione del più noto “comprehensive approach”, già adottato in Iraq e poi in Afghanistan con la dottrina contro-insurrezionale, i cui esiti auspicati non si sono concretizzati in risultati soddisfacenti.

L’obiettivo è di intensificare l’addestramento delle forze speciali afghane e il loro supporto attraverso l’incremento di azioni aeree e di artiglieria. E infatti, la significativa intensificazione di attacchi aerei statunitensi, destinati ad aumentare, indica che Washington ha optato per un ruolo di combattimento più attivo: 5.400 attacchi aerei nel 2017, con oltre 4.800 bombe sganciate. Un approccio operativo che si è concentrato in prevalenza su obiettivi riconducibili all’IS-Khorasan, nella provincia orientale di Nangarhar, e nelle zone sotto il controllo dei talebani, nella provincia meridionale di Helmand.

Il doppio fine di questo approccio va letto, in primis, nel tentativo di non commettere lo stesso errore fatto in Iraq, con un ritiro accelerato delle truppe che fu concausa del caos in cui precipitò il paese.

In secondo luogo vi è il mancato collegamento tra gli investimenti fatti e un chiaro e definito end-state per l’Afghanistan. Ora gli Stati Uniti, e la NATO, puntano alla riconciliazione con i talebani attraverso il processo negoziale.

L’impegno dell’Italia e la sua area di responsabilità

Sono 900 i militari italiani impegnati nell’area ovest del Paese, all’interno del “Train Advise Assist Command West” (TAAC W) di Herat e del comando NATO di Kabul.

La situazione nell’area di responsabilità dell’Italia, sempre più minacciata dall’espansione talebana, è estremamente critica(3): la provincia di Farah è fuori controllo(4); molta preoccupazione destano anche i distretti provinciali di Herat(5).

Il ministro della Difesa Roberta Pinotti, in vista del voto parlamentare sulla “rimodulazione” dell’impegno militare, ha affermato che l’Italia procede verso una rimodulazione in senso riduttivo: il che significa meno soldati.

Un’affermazione che, da un lato, mal si concilia con l’impegno, preso per l’Alleanza Atlantica dal Segretario Stoltenberg, di aumentare le truppe della NATO.

Dall’altro lato, una possibile riduzione delle truppe italiane non andrebbe a influire su una già minimale attività operativa, pur non escludendo conseguenze sul peso dell’Italia all’interno dell’Alleanza.

Ma, sebbene sia ormai comunemente accettato che lo strumento militare non sia risolutivo nel processo di stabilizzazione dell’Afghanistan, è però vero che è oggi l’unico supporto diretto a garanzia dello Stato afghano che non ha la forza né la capacità di sopravvivere da solo contro i talebani e lo Stato Islamico Khorasan.

 

Claudio Bertolotti è analista su terrorismo a Afghanistan per ISPI.

 

Contributo pubblicato originariamente su:

Commentary ISPI in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/obiettivi-e-responsabilita-di-nato-e-italia-afghanistan-19581

 

 

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