Nato, Stati Uniti e talebani: il compromesso per uscire dall’Afghanistan. L’analisi di Claudio Bertolotti

Se in occasione del summit di Bruxelles dell’11-12 luglio scorso, la NATO ha riaffermato l’impegno al fianco degli Stati Uniti per “garantire la sicurezza e la stabilità a lungo termine in Afghanistan”, con la riunione ministeriale del 13-14 febbraio 2019, l’Alleanza Atlantica ha dovuto prendere atto dell’annuncio del ritiro fatto dal presidente statunitense Donald J. Trump a fine dicembre.

Un impegno, quello statunitense e dell’Alleanza Atlantica sino ad ora mai venuto meno, pur a fronte di un significativo ridimensionamento in termini di truppe in una guerra che è costata agli Stati Uniti più di 900 miliardi di dollari e che, per il 2019, prevede l’impegno di ulteriori 46,3 miliardi.

Ma nonostante gli sforzi fatti, in termini di risorse e vite umane, il Pentagono stima che oggi il governo afghano sia in grado di controllare non più del 60 percento del Paese, mentre il restante territorio sarebbe conteso o sotto il controllo dei talebani. Molti analisti indipendenti ritengono invece che le percentuali vadano invertite e che l’effettivo controllo governativo non si estenderebbe oltre il 40 percento del territorio.

Oggi, con l’inizio del diciottesimo anno di guerra afghana, un compromesso oneroso ma necessario potrebbe portare verso l’uscita dalla più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti, al cui fianco c’è la Nato; una guerra iniziata il 7 ottobre di 17 anni fa con l’abbattimento del regime talebano in risposta agli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001.

COMBATTERE IL TERRORISMO E DIALOGARE CON I TALEBANI

La soluzione negoziale alla base del compromesso, a fronte del costo esorbitante di una guerra che non offre vie di uscita alternative, potrebbe dunque portare al disimpegno da un’ampia parte del paese, che de facto i talebani già controllano, e alla rinuncia da parte della Comunità internazionale e del governo afghano al contrasto al redditizio business del narcotraffico che lega indissolubilmente gruppi di opposizione armata e criminalità transnazionale. Un’opzione che svincolerebbe forze internazionali ed afghane, disperse su un territorio troppo ampio per essere tenuto sotto controllo, ma che, al contempo, non esclude la prosecuzione dei combattimenti contro quei gruppi che potrebbero farlo fallire o ridimensionarne la portata: l’Haqqani network, che condivide la leadership del movimento talebano ed è legata ad al-Qa’ida, e il franchise afghano del gruppo Stato islamico, operativo nel sub-continente indiano con il nome di Stato islamico Khorasan – in competizione con i talebani e in fase di consolidamento in Afghanistan, anche grazie all’arrivo di jihadisti reduci del fronte siriano-iracheno.

Un’ipotesi confermata dall’ex-comandante della missione NATO Resolute Support e dell’operazione Freedom’ Sentinel in Afghanistan, il generale John William Nicholson, che poco prima di cedere il comando al successore, generale Austin Scott Miller, sottolineava come l’approccio fosse basato sul “parlare e combattere”. Archiviata dunque la narrativa incentrata su un processo negoziale ad esclusiva guida e gestione afghana, Washington ha imposto un nuovo indirizzo unilaterale aprendo formalmente il canale negoziale con i talebani, come avvalorato dall’incontro di fine luglio 2018 in Qatar tra la delegazione talebana guidata dal mawlawì Sher Mohammad Abbas Stanikzai – dal 2015 capo dell’ufficio dell’Emirato islamico dell’Afghanistan a Doha dopo le dimissioni del suo predecessore seguite alla rivelazione della morte di Mullah Omar – e la delegata statunitense Alice G. Wells del South and Central Asian Affairs. Un evento analogo a quello del 2015, avvenuto in assenza di una delegazione del governo del presidente Ashraf Ghani e dal suo Chief Executive Officer Abdullah Abdullah.

Che qualcosa sui tavoli di Doha stesse cambiando lo si era capito il 25 gennaio 2019, quando il movimento talebano aveva nominato a capo dell’ufficio politico in Qatar il mullah Abdul Ghani Baradar, che già in passato aveva avuto un ruolo nel negoziato tra i talebani e il governo afghano allora guidato da Hamid Karzai e che, proprio per questo, venne catturato nel 2010 dai pachistani e dagli Stati Uniti, e da allora detenuto in Pakistan. La sua scarcerazione e questo cambio al vertice ha avuto lo scopo di lanciare un messaggio preciso: il Pakistan e gli Stati Uniti hanno preso la decisione di concludere un accordo con i talebani.

La seconda tornata di dialoghi negoziali di Doha, durata 16 giorni – dal 25 febbraio al 12 marzo 2019 – pur non avendo portato a un accordo tra le parti, ha definito i temi sui quali tale accordo dovrà essere strutturato: ritiro delle forze militari straniere secondo un calendario concordato, impegno da parte talebana ad impedire che l’Afghanistan possa ospitare gruppi terroristi – come lo Stato Islamico o al-Qa’ida –, partecipazione al negoziato del governo afghano – che i talebani considerano un “fantoccio” –, possibilità di un “cessate il fuoco”. Infine, altri due temi rilevanti affrontati sono stati lo scambio di prigionieri e la cancellazione dalle black list del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dei vertici talebani. Un ulteriore elemento rilevante emerso a seguito degli incontri di Doha è stata la rinuncia da parte talebana ad annunciare la consueta “offensiva di primavera”.

CAMBIO PRAGMATICO DI STRATEGIA: VIA LE TRUPPE

Gli Stati Uniti hanno dunque dato il via a un cambio significativo della propria strategia verso il “problema” afghano, ora improntata al pragmatico realismo di chi comprende che è tempo di giungere a una conclusione. Un mutato approccio sul piano politico-diplomatico a cui sta seguendo l’evoluzione sul piano militare e l’inizio di una nuova fase della guerra che sino ad ora ha seguito la linea tracciata dalle precedenti strategie, basate sull’aumento della pressione sui gruppi di opposizione armata sul campo di battaglia, per costringerli a negoziare e, alla fine, a riconciliarsi con il governo di Kabul: è ciò che fece prima George W. Bush e poi il suo successore Barack Obama con un surge militare che portò a schierare sul fronte afghano oltre 140.000 soldati: senza però riuscire nell’intento.

L’amministrazione del presidente Donald J. Trump ha tentato sino ad ora di riuscire nello stesso obiettivo, ma con poco meno di 20.000 soldati, dei quali un terzo non combattenti inquadrati nella missione a guida NATO, e un cospicuo numero di contractor che, ad oggi, ammonta a 20.000 soggetti e che potrebbe essere destinato ad aumentare.

Trump, che in un primo momento ha ordinato di intensificare gli attacchi aerei e le operazioni delle forze speciali contro obiettivi di alto valore – come comandanti e vertici dei talebani e dello Stato islamico-Khorasan – con l’intento di spingerli al tavolo negoziale, a fine dicembre ha annunciato di voler disimpegnare almeno metà delle 14.000 truppe statunitensi entro la primavera e procedere al ritiro completo in tempi brevi.

Nella consapevolezza dei limiti delle forze di sicurezza afghane – incapaci di condurre operazioni autonome ad ampio raggio come di mantenere il possesso degli avamposti –, la nuova strategia americana in Afghanistan apre a un consistente disimpegno delle truppe convenzionali, limitando quelle residue all’interno delle principali aree urbane con una prevalenza di unità di forze speciali, in primis Kabul e Kandahar, e di quelle basi strategiche che gli Stati Uniti hanno in gestione esclusiva, sulla base dello Strategic Partnership Agreement e del Bilateral Security Agreement, fino a tutto il 2024.

Al tempo stesso sarebbe ipotizzabile un parallelo e progressivo disimpegno delle stesse forze afghane, falcidiate da perdite in battaglia, mancati rinnovi delle ferme volontarie e diserzioni pari a un terzo delle circa 300.000 unità; disimpegno che vedrebbe un rischieramento delle stesse a difesa delle principali capitali provinciali Kandahar, Kunduz, Mazar-i-Sharif, Jalalabad e della stessa Kabul, sempre più nel mirino dell’offensiva insurrezionale e di quella terrorista. L’obiettivo è di evitare il collasso dell’esercito e della polizia afghani e la cattura, o il passaggio ai talebani, di uomini, armi ed equipaggiamenti.

Una scelta che, da un lato ha lasciato le popolazioni rurali al proprio destino e, dall’altro, sta consegnando parte del paese in mano al principale gruppo insurrezionale che, in cambio di un “equo compenso”, garantirebbe la salvaguardia (non sabotandole) delle infrastrutture strategiche, dalle comunicazioni, all’energia, al transito di idrocarburi attraverso pipeline transnazionali come il progetto TAPI – il consorzio formato da Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India.

STOLTENBERG: LA NATO SI MUOVERÀ IN MANIERA UNITARIA

Dal punto di vista dell’Alleanza Atlantica, il Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg ha ribadito il ruolo unitario degli alleati in Afghanistan; ruolo che impone di «prendere insieme le decisioni sul futuro della missione». Una dichiarazione che deve però tener conto del rapporto subordinato degli alleati nei confronti degli Stati Uniti, in attesa di capire tempi e modalità di un ritiro irreversibile dei contingenti militari. Confermando le evidenti difficoltà della missione, il Segretario generale ha voluto porre l’attenzione sull’evoluzione del cosiddetto “processo di pace” in corso e sul parallelo impegno dell’Alleanza a sostenere l’attività di formazione, assistenza e consulenza alle forze di sicurezza afghane, impegnate a combattere il terrorismo e un inarrestabile fenomeno insurrezionale parallelamente al grande sforzo per raggiungere un accordo negoziale con i talebani attraverso l’impegno e la mediazione dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Afghanistan, Zalmay Khalilzad.

Il sostegno della NATO all’Afghanistan, che si compone di formazione e addestramento, operazioni militari, prevede anche ampi finanziamenti che, come confermato con il vertice di luglio, proseguiranno sino a tutto il 2024. Se è vero come ha detto Stoltenberg che alcuni alleati hanno annunciato di essere pronti ad aumentare la loro presenza in Afghanistan, e altri hanno anche ribadito di essere pronti a rimanere lì per molto tempo, dall’altro lato abbiamo però membri dell’Alleanza che stanno riducendo il proprio contingente, in primo luogo l’Italia, e che, in anticipo rispetto alla maggioranza dell’Alleanza stessa ha dichiarato di prevedere il disimpegno, dando il via alla pianificazione del ritiro. Fatti che si sono scontrati con le parole solenni del Segretario generale, che ha strutturato il suo intervento attorno al principio della decisione condivisa: «Siamo andati in Afghanistan insieme. Prenderemo decisioni sulla nostra posizione insieme, sulla base di condizioni determinate insieme agli afghani».

La parola d’ordine è dunque diventata – o meglio è tornata ad essere – “riconciliazione”; con la fine del 2018 e l’inizio del 2019 si è dunque imposto un approccio in cui, a fronte di un passo indietro da parte degli Stati Uniti, una rimodulazione del ruolo delle truppe Nato e del governo afghano, ai talebani verrà concesso maggior margine di manovra in un processo negoziale che si mostra sempre più soddisfacente proprio per il fronte insurrezionale.

L’ITALIA ANTICIPA GLI ALLEATI: AL VIA LA PIANIFICAZIONE PER IL RITIRO

L’Italia aveva già a fine gennaio aveva dato il via a una pianificazione tecnica di disimpegno, in anticipo rispetto agli altri, che tiene in considerazione, tra le varie opzioni e i possibili scenari, un possibile ritiro del contingente da realizzare in un tempo di 18 mesi: in linea alla valutazione internazionale trattata poi con gli Alleati alla ministeriale di febbraio.

Qualche perplessità è stata manifestata da parte di alcuni Alleati forti, tra questi la stessa Germania che il 16 febbraio, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ha assunto una posizione non propriamente in aderenza a quella manifestata pochi giorni prima alla riunione ministeriale di Bruxelles; a Monaco la cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiesto «chiesto col cuore in mano» che sull’Afghanistan, dopo le minacce di ritiro da parte di Washington, «ci si parli» prima di prendere decisioni avventate. Dunque diversi punti di vista, approcci e priorità.

Sulla base di quelli che potrebbero essere gli esiti di un accordo negoziale che vede impegnati i talebani e Washington, lo scenario che si sta profilando potrebbe essere caratterizzato da un disimpegno in due fasi da parte degli Stati Uniti – la prima entro pochi mesi, la seconda in un arco temporale di 3-5 anni – che preveda il ritiro delle truppe convenzionali e di supporto e il mantenimento di un ridotto contingente di forze speciali, a fronte di una permanenza della NATO in funzione di addestramento e sostegno alle forze afghane.

Alla NATO, in relazione della riduzione di truppe statunitensi, potrebbe essere chiesto di aumentare i propri contingenti il cui ruolo sarà però circoscritto, limitato al supporto addestrativo e senza alcun impiego operativo al di fuori delle infrastrutture militari attualmente occupate. All’Italia potrebbe così essere chiesto di posticipare la riduzione del proprio contingente, che rimarrebbe confermato a 900 unità.

Alle forze afghane, a fronte di un supporto ridotto rispetto ai termini attuali, verrebbe comunque garantito il sostegno finanziario, senza il quale esercito e polizia collasserebbero immediatamente, dipendendo dall’aiuto internazionale per il 90 percento del budget totale.

Claudio Bertolotti (Ph.D), Direttore di Start InSight, analista strategico per il CeMiSS (Centro Militare di Studi Strategici), è docente e ricercatore associato ISPI (Istituto di Studi Politici Internazionali). Dal 2015 è il ricercatore senior presso la ‘5+5 Defense Iniziativedell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies(CEMRES) di Tunisi per la sicurezza del Mediterraneo.

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