L’Asia Centrale e gli effetti dell’intesa Stati Uniti – Taliban

Quali potrebbero essere gli effetti sulla regione centro asiatica dell’accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani? L’analisi di Fabio Indeo

Dopo anni di negoziati – caratterizzati da frequenti battute d’arresto –  gli Stati Uniti e la leadership dei Taliban hanno raggiunto un importante accordo di pace, “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan”, a Doha in Qatar, città che ha ospitato i numerosi incontri tra il negoziatore statunitense Zalmay Khalilzad e il rappresentante dell’ala politica dei Taliban Mullah Abdul Ghani Baradar.

Da un punto di vista teorico, la concreta implementazione dell’accordo costituirebbe una svolta epocale, destinata a porre fine a diciannove anni di guerra e al completo ritiro (entro il 2021) delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, creando i presupposti per una fase di transizione finalizzata a  garantire maggiori condizioni di sicurezza e stabilità regionale.

Nonostante permangano evidenti perplessità e dubbi sull’effettiva capacità dei Taliban di rispettare i punti più importanti dell’accordo – in primis l’apertura di un dialogo con l’attuale governo afgano e con il presidente Ghani (etichettato esplicitamente come una marionetta a servizio degli americani), ma anche la cessazione o riduzione di atti violenti contro le forze di sicurezza nazionali e le truppe statunitensi – un processo di pacificazione e maggiori condizioni di sicurezza in Afghanistan avranno un impatto positivo sull’intera regione centroasiatica.

Possiamo notare come gli orientamenti politici espressi dalla leadership Taliban nel corso degli ultimi anni appaiono rassicuranti per i presidenti centroasiatici, i quali non percepiscono più questi combattenti afghani come una minaccia al loro potere, alla stabilità interna e ai confini statuali. Infatti i Taliban hanno espressamente ribadito di voler perseguire obiettivi e finalità prettamente nazionali, ovvero la creazione di un Emirato Islamico dell’Afghanistan, e di non avere alcuna intenzione di estendere la propria influenza nelle repubbliche circostanti. Questo approccio risulta rassicurante soprattutto per i tre stati confinanti (Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) ma in modo particolare per Tagikistan e Turkmenistan: infatti, la combinazione tra pervasivo autoritarismo presidenziale, peggioramento delle condizioni economiche, debole protezione delle frontiere con Afghanistan rende queste repubbliche vulnerabili di fronte ad una minaccia esterna rappresentata da gruppi armati (non Taliban ma militanti legati al cosiddetto Stato Islamico, foreign fighters e in generale a gruppi terroristici islamico-radicali transnazionali) che potrebbero avere una funzione destabilizzante per le attuali elites al potere.

Particolare è il caso del Turkmenistan, in quanto le notizie che descrivono attività di Taliban al confine tra le due nazioni non presuppone velleità espansionistiche dei combattenti afgani, anche perché gli scontri armati con le forze regolari militari del governo di Kabul e con quelle di Ashgabat erano circoscritti a zone limitrofe al confine afgano-turkmeno.

Uno dei principali punti dell’accordo è la disponibilità dei Taliban a combattere i gruppi terroristi armati riconducibili all’Islam radicale come Al Qaeda e soprattutto la cellula di Daesh nella regione centroasiatica – Stato Islamico-Khorasan (IS-K), composta da foreign fighters centroasiatici, dissidenti Taliban e militanti provenienti da altre nazioni – sfruttando la divergenza ideologica e di finalità che contrappone i due gruppi, ovvero obiettivi nazionali versus obiettivi transnazionali finalizzati alla creazione di un califfato globale che implichi l’abbattimento dei confini nazionali esistenti, prospettiva che rappresenta una seria minaccia per il potere e la sovranità statuale delle repubbliche centroasiatiche. A dicembre 2019, il Capo dei Consiglio di Sicurezza russo Patrushev ha dichiarato che circa duemila terroristi legati allo Stato Islamico si troverebbero al confine afgano-tagico, pronti ad intraprendere incursioni destabilizzanti nella regione. In realtà questa dichiarazione va letta anche come una reazione di Mosca nei confronti della crescente cooperazione militare cinese con il Tagikistan (frequenti esercitazioni bilaterali, l’inclusione del Tagikistan nel Meccanismo Quadrilaterale di Cooperazione con Pakistan ed Afghanistan – primo blocco securitario regionale senza la partecipazione russa – la creazione di una base militare cinese nella provincia afgana del Badashkan, in prossimità del confine tagico), componente essenziale dell’architettura di sicurezza regionale promossa dalla Russia attraverso l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

Negli ultimi anni si sono intensificati gli scontri tra Taliban e i militanti IS-K, un evoluzione che potrebbe essere vantaggiosa per le repubbliche centroasiatiche con l’eliminazione della minaccia rappresentata dai militanti radicalizzati e provenienti da questi paesi. Per l’Uzbekistan si tratterebbe di una mossa significativa in quanto implicherebbe l’annientamento forse definitivo del Movimento Islamico dell’Uzbekistan, che agli inizi propugnava obiettivi nazionali – il rovesciamento del governo secolare dell’allora presidente Karimov – per poi votarsi al perseguimento di finalità transnazionali legandosi prima ad Al Qaeda – ed operando principalmente in territorio afgano – e dal 2015 prestando giuramento di fedeltà allo Stato Islamico.

Inoltre, i Taliban hanno espressamente confermato la loro intenzione di garantire la protezione delle infrastrutture di trasporto ed energetiche che dovrebbero attraversare l’Afghanistan, come il gasdotto TAPI (concepito per trasportare gas turkmeno nei mercati indiani e pachistani attraversando il territorio afgano), il progetto CASA 1000 (un sistema regionale di distribuzione dell’energia elettrica prodotta in Kirghizistan e Tagikistan verso Afghanistan e mercati dell’Asia sudorientale), i corridoi ferroviari e stradali finalizzati ad incrementare la connettività regionale, la cooperazione e l’apertura di nuovi mercati. Il concreto impegno dei Taliban su questo punto garantirebbe al Turkmenistan l’opportunità di diversificare le rotte d’esportazione energetica, al Kirghizistan e al Tagikistan l’apertura di redditizi mercati per l’esportazione di energia idroelettrica.

Dalla sua ascesa al potere nel 2016, il presidente uzbeco Mirziyoyev si è impegnato in prima persona per coinvolgere i Taliban nel processo di pace in Afghanistan (ospitando una delegazione Taliban a Tashkent nell’agosto 2018), con l’obiettivo di creare uno scenario di stabilità all’interno del quale l’Afghanistan possa svolgere il ruolo di snodo cruciale dei progetti infrastrutturali ed energetici destinati ad avere un impatto regionale. Ovviamente Tashkent mira a promuovere anche degli interessi nazionali strategici, considerato che l’Uzbekistan è l’unica nazione centroasiatica ad avere un collegamento ferroviario con l’Afghanistan (Termez-Hairaton-Mazar I Sharif) e consolidate relazioni economico-commerciali ed energetiche, esportando energia elettrica con l’ambizione di ampliare la rete di distribuzione ed approvvigionamento.

La cooperazione con l’Afghanistan sarà inoltre importante per contribuire alla risoluzione di una delle principali questioni che alimenta tensioni e conflittualità regionali, ovvero la gestione delle risorse idriche. Infatti il fiume Amu Darya – uno dei fiumi più importanti per l’approvvigionamento idrico dell’Asia Centrale – e il fiume Murghab nascono in territorio afgano, per cui nell’ipotetico nuovo clima di pace e cooperazione si dovranno definire le questioni inerenti l’utilizzo di queste acque, in quanto l’Afghanistan non è un paese propriamente agricolo, a differenza di Uzbekistan, Turkmenistan e Kazakhstan (le nazioni a valle) che necessitano di flussi regolari d’acqua per la redditizia coltivazione del cotone.

Fabio Indeo

Fonte immagine sito Nato.int


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