Russia 2036. Quali prospettive per la NATO dopo il Referendum? L’analisi di Valigi

Il punto di vista di Marco Valigi (Università di Bologna) sulla Russia del dopo Referendum e le possibili prospettive per la NATO con il prolungamento del mandato di Putin

2036 – questo l’anno nel quale dovrebbe scadere il mandato Presidenziale di Vladimir Putin, dopo il reset attuato durante la scorsa primavera. Salvo successive modificazioni, verrebbe cautamente da aggiungere. Data l’ottima salute di cui sembra godere il leader russo, la sua attitudine al wellness e la tendenza generale a un progressivo innalzamento della soglia media di mortalità non va escluso che quello di Putin si trasformi in futuro in un mandato a vita, come per gli zar, Lenin e Stalin. Del resto, la logica che ha ispirato l’azione di governo di Putin è da sempre incrementale. Uno sviluppo in chiave neozarista come quello ipotizzato, dunque, non sorprenderebbe affatto.

La ratio dell’intero processo è gattopardesca. Dopo il collasso del comunismo, l’illusione che, anche in assenza di un sostrato politico istituzionale compatibile, la liberaldemocrazia potesse attecchire nei Paesi un tempo al di là della “cortina ferro” e infine l’elaborazione del concetto di democrazia sovrana, il ciclo si è chiuso. Con lo smantellamento della diarchia imperfetta con Medvedev, infatti, la Russia ha fatto esplicitamente ritorno all’autocrazia. A suggellare la realizzazione di un modello di Stato che nella concentrazione del potere trova la sua pietra angolare sono state quindi le dimissioni di Medved e del suo governo – condizione necessaria affinché Putin potesse agire sulla carta costituzionale del Paese, piegandola definitivamente ai suoi obiettivi.

Ogni rappresentazione che si rispetti, tuttavia, va portata in scena. Questi passaggi interni, attraverso i quali Putin ha creato le condizioni normative perché l’elemento decisionale ricadesse su di lui anche in assenza di ruoli formalmente apicale, andavano in qualche modo legittimati pubblicamente attraverso il consenso – non importa se costruito – popolare. A giugno, dunque, si è svolto un referendum che ha decretato con oltre il 76% delle preferenze il passaggio al nuovo – si fa per dire – sistema. Obiettivo dichiarato, naturalmente, quello di stabilizzare l’esercizio del potere nelle Federazione russa.

Di fronte a questi dati, le conclusioni più intuitive alle quali si potrebbe legittimamente approdare sono due. La prima, che internamente Putin sarà più forte. La seconda, che sul piano internazionale Mosca risulterà un interlocutore più ostico o, eventualmente, più assertivo. Questa lettura, tuttavia, si basa in prevalenza su una considerazione formale dei fenomeni legati al potere. Muovendo da un’analisi di tipo sostantivo, invece, gli esisti di quanto accaduto in Russia potrebbero essere meno scontati.

A livello interno, l’ulteriore sforzo compiuto dal capo del Cremlino per riportare le istituzioni russe al cosiddetto statu quo ante e, in questo modo, concentrare un potere ancora maggiore nelle sue mani potrebbe in effetti celare degli oneri sommersi. Benefici o vantaggi, insomma, da erogare a favore di quei gruppi cruciali per la tenuta di quel sistema. Per Eltsin si era trattato degli oligarchi, nel caso di Putin potrebbero essere le forze armate. L’armata rossa più di ogni altra istituzione è stata delegittimata dal collasso dell’URSS e, proprio con l’auspicio di ottenere un riscatto, potrebbe avere assecondato anche in questa fase il disegno neozarista del politico di Leningrado. Ove ciò non accadesse e, di contro, quanto verificatosi negli scorsi mesi favorisse solo i già vasti interessi personali di Putin, non andrà esclusa la possibilità di un intervento da parte dell’esercito – evento affatto infrequente nella storia politica del Paese, come dimostrato dagli avvenimenti del 1905, del 1917, del 1991 e, infine, del 1993.

In questo scenario, poi, la politica estera tenderà ad assumere giocoforza il ruolo di strumento di legittimazione per Putin e di riscatto/riabilitazione per gli eredi dell’armata rossa. La logica, ancora una volta, potrebbe essere quella del ricorso al rischio calcolato – arte nella quale lo statista russo è maestro. Avendo dinnanzi a sé un orizzonte di governo assolutamente non comparabile con quello dei suoi omologhi occidentali, infatti, dopo una fase di militarizzazione iniziale, funzionale a ricompensare le gerarchie militari sul piano interno, a riaffermarne il prestigio sul piano internazionale e ad imprimere un segnale di determinazione all’azione della Russia verso l’Occidente, in un secondo momento ci potrebbe aspettare che, al pari di altri rivoluzionari conservatori come Bismark, Putin si qualifichi come abile ancorché determinato negoziatore. La forza militare e l’aumento dei bilanci, proprio come nel Judo, potrebbero rivelarsi insomma esclusivamente degli strumenti per portare al tavolo delle trattative i Paesi della NATO e giocarsi il vero asso del quale disporrebbe la Russia sotto la guida di un leader nominato a vita: il tempo. Se così fosse, la vera sfida per la NATO, come nelle prime fasi della guerra fredda, sarò dunque quella di armonizzare la strategia della deterrenza con gli strumenti della diplomazia, preparandosi controintuitivamente ad affrontare non revisionista e un conquistatore alla Bonaparte, quanto piuttosto un paziente tessitore di reti di potere e di relazioni alla Talleyrand.

Marco Valigi, EIB Research Fellow Università degli studi di Bologna
Adjunct Professor, Regional Studies (Russia), Università Cattolica del Sacro Cuore


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