Il ritiro militare degli Stati Uniti dall’Afghanistan: verso una nuova architettura di sicurezza regionale?

Come potrebbero evolvere gli scenari di sicurezza nell’Asia Centrale dopo il ritiro americano dall’Afghanistan? L’analisi di Fabio Indeo

La decisione del presidente statunitense Biden di completare il ritiro delle rimanenti truppe statunitensi (2500 effettivi) dall’Afghanistan entro la data simbolica dell’11 settembre 2021 – ritiro che con molta probabilità si concluderà a luglio, in quanto le operazioni sono cominciate il 1 maggio – e l’analoga posizione assunta dalla NATO (ovvero il definitivo ritiro dei 7500 militari della coalizione impegnati nella nazione) sono destinate a produrre profonde ripercussioni in Asia Centrale, determinando una riconfigurazione dell’architettura di sicurezza regionale. Infatti, le cinque repubbliche centroasiatiche e gli attori esterni con interessi nella regione (Russia, Cina, Iran ma anche gli stessi Stati Uniti e Turchia) esprimono preoccupazione riguardo ad un nuovo scenario di aperta conflittualità in Afghanistan – tra governo centrale e Taliban, oppure tra questi ultimi e i combattenti dello Stato Islamico, che dal 2015 hanno creato il Vilayat Khorasan, una provincia dello Stato Islamico che (nel disegno propagandistico di Daesh) comprenderebbe Asia Centrale, Iran ed Afghanistan – destinato inevitabilmente a propagarsi nell’intera regione, creando serie minacce alla stabilità interna e al perseguimento dei loro obiettivi strategici.

In realtà, Russia, Iran e Cina hanno da sempre espresso un atteggiamento ambivalente riguardo alla presenza delle truppe statunitensi e della NATO nella regione, prima percepita come espressione delle ambizioni geostrategiche dell’Alleanza Atlantica e di Washington mentre ora che hanno cominciato a ritirarsi, temono un pericoloso vacuum securitario: il profilarsi di un simile scenario implicherebbe un loro progressivo e diretto coinvolgimento per garantire la sicurezza in Afghanistan e nella regione, fronteggiando le destabilizzanti minacce.

Dal 1991 la Russia ha assunto il ruolo di garante della sicurezza nello spazio post-sovietico, attraverso la cooperazione militare bilaterale con le repubbliche centroasiatiche ed il loro coinvolgimento (eccetto il Turkmenistan e l’Uzbekistan) nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC). A differenza degli altri attori regionali, Mosca può contare sue due basi militari in Asia Centrale, quella di Kant in Kirghizistan (sotto egida OTSC) e il complesso di installazioni militari in Tagikistan che comprendono la base permanente per la 201 Motor Rifle Division composta da 7500 effettivi, la maggiore base militare russa all’estero.

Per la Cina, una condizione di instabilità rappresenta una seria minaccia ai progetti infrastrutturali di trasporto realizzati nell’ambito della Belt and Road e ai massicci investimenti effettuati nella regione: sebbene la politica estera cinese continui a fondarsi sul principio di non intervento, in realtà una seria minaccia ai suoi interessi economici, strategici e geopolitici in Asia Centrale ed Afghanistan potrebbe spingere Pechino a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Vista la sostanziale inazione del meccanismo multilaterale di sicurezza dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (a guida sino-russa, con quattro repubbliche centroasiatiche – eccetto il Turkmenistan – India e Pakistan), Pechino ha concentrato i propri sforzi nel rafforzamento della cooperazione bilaterale, mentre sul piano multilaterale ha promosso blocchi di sicurezza alternativi a quelli esistenti, come il Meccanismo Quadrilaterale di Cooperazione, che include Tagikistan, Afghanistan e Pakistan ma che esclude – per la prima volta – la Russia da un blocco securitario regionale.

Per quanto concerne l’Iran, il ministro degli esteri Javad Zarif interpreta come un passo positivo e responsabile il ritiro americano, sottolineando come la presenza di forze straniere non abbia portato pace e stabilità nella regione, ma allo stesso tempo esprime preoccupazione per l’insorgere di una nuova condizione di conflittualità, legata al possibile tentativo dei Taliban di prendere il potere: Teheran si troverebbe così a gestire un nuovo consistente flusso di rifugiati afghani che oltrepassa il confine condiviso (l’Iran già ospita 3 milioni di afghani in fuga dalla guerra civile), oltre a doversi relazionare con un governo ostile a Kabul – Taliban sunnita vs Iran sciita – che eroderebbe ogni velleità di influenzare l’Afghanistan.

Parallelamente, una condizione di instabilità potrebbe dare l’impulso a Teheran per lavorare con gli alleati regionali per promuovere la sicurezza, rafforzando la stabilità ai confini ma promuovendo anche gli interessi iraniani nella regione.[1] In quest’ottica va interpretato l’accordo con il Tagikistan (nazione centroasiatica culturalmente e linguisticamente persanofona) per la creazione di un comitato militare congiunto per la difesa, che avrà il compito di promuovere la cooperazione in ambito securitario e di supporto nelle attività antiterroristiche.

L’Iran intende inoltre beneficiare della posizione geografica strategica per lo sviluppo dei progetti infrastrutturali di trasporto incentrati sull’Afghanistan. Ad aprile infatti, Teheran e Kabul hanno inaugurato il corridoio ferroviario che collega Herat con la città iraniana di Khaf (al confine tra le due nazioni), arteria fondamentale sia per promuovere la cooperazione irano-afghana e sia per promuovere l’interconnettività regionale. Herat infatti rappresenta lo snodo cruciale sia del progetto del Corridoio Ferroviario delle Cinque Nazioni (Cina, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Iran), per il trasporto delle merci (cinesi e auspicabilmente afghane e centroasiatiche) verso la Turchia e poi in Europa, e sia del corridoio ferroviario Termez-Mazar I Sharif-Herat-Khaf, ovvero dall’Uzbekistan all’Iran, segmento infrastrutturale destinato a ricollegarsi con il corridoio ferroviario Cina-Kirghizistan-Uzbekistan (CKU) promosso in ambito BRI.

Parallelamente alle potenziali minacce provenienti dall’Afghanistan, Russia, Cina ed Iran temono che il ritiro delle truppe statunitensi non corrisponda ad un sostanziale disinteresse per le dinamiche regionali: secondo un articolo dell’Wall Street Journal[2], la  nuova amministrazione Biden sarebbe orientata a chiedere (in concessione) l’utilizzo di basi militari alle repubbliche centroasiatiche, per supportare l’azione del governo di Kabul nel mantenimento della stabilità e nel combattere Daesh e le altre fazioni legate all’islamismo radicale militante come Jamaat Ansarullah. Per la posizione geografica, in quanto nazioni confinanti con l’Afghanistan, Tagikistan ed Uzbekistan rappresentano le migliori opzioni per dislocare truppe operative sullo scenario regionale (l’altra repubblica centroasiatica confinante, il Turkmenistan, ha adottato dal 1995 una politica estera fondata sulla neutralità): a maggio, il Rappresentante Speciale statunitense per la Riconciliazione dell’ Afghanistan Zalmay Khalilzad si è recato in visita proprio in Tagikistan ed Uzbekistan, per discutere di cooperazione in ambito securitario.

In realtà, una rinnovata presenza militare di Washington in Asia Centrale appare altamente improbabile, sia per la ferma opposizione dei principali attori esterni regionali alla presenza di truppe americane in prossimità dei loro confini (condizione che determinò il mancato rinnovo della presenza militare americana nella base di Karchi Khanabad in Uzbekistan nel 2005 e dalla base di Manas in Kirghizistan nel 2013), sia per l’attuale conformazione dell’architettura di sicurezza centroasiatica.

Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan fanno parte dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, definita anche la “NATO dell’est”, che all’articolo 7 del trattato istitutivo sancisce il divieto per gli stati membri di ospitare basi militari straniere nei loro territori senza il consenso degli stati membri:[3] considerando il ruolo dominante della Russia nel blocco di sicurezza regionale, in termini militari e finanziari, e il fatto che le decisioni sono prese per consenso, Mosca può agilmente porre il veto. Pur non facendo parte dell’OTSC (Tashkent decise di uscirne per la seconda volta nel 2012), l’Uzbekistan dovrebbe modificare gli orientamenti chiave della propria politica estera, improntata sul divieto di concedere basi militari a truppe straniere e sul non allineamento a blocchi militari regionali, anche se la nazione fa però parte dell’OCS. Anche il Turkmenistan, avendo adottato il principio di neutralità permanente in politica estera, non può ospitare basi militari straniere nel proprio territorio.

Questi caveat sono gli stessi che impediscono alla Cina di ottenere delle basi militari in Asia Centrale a protezione dei propri interessi ed investimenti, se si eccettua la probabile presenza militare cinese in territorio tagiko, in una base nella regione del Gorno Badaskhan, in prossimità del confine con l’Afghanistan.

In attesa di vedere le prossime mosse dell’amministrazione Biden e di valutare il reale impatto sulla sicurezza regionale del ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica, la Russia  si è impegnata a rafforzare gli accordi di cooperazione militare con le repubbliche centroasiatiche, con l’obiettivo di prevenire nuove iniziative statunitensi nella regione e per supportare questi stati nel contrasto e contenimento delle minacce alla stabilità. A fine aprile, Russia e Tagikistan hanno intrapreso un’esercitazione militare su larga scala con oltre 50 mila soldati coinvolti, mezzi terrestri ed aerei, sul confine meridionale condiviso con Afghanistan. Le parti hanno inoltre siglato un accordo per promuovere l’integrazione di un sistema di difesa aereo regionale. Successivamente, il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu si è recato in Uzbekistan dove i ministri della difesa hanno annunciato un programma quadriennale di partnership strategica.[4]

La vera sfida per Mosca sarà quella di dimostrare agli alleati centroasiatici l’affidabilità e la reale efficacia del blocco securitario regionale, considerato che per statuto (articolo 5) le forze militari OTSC possono intervenire a difesa degli stati membri solo in presenza di un aggressione esterna, condizione che ha di fatto sempre impedito alla “NATO dell’est” di intervenire nei vari scenari di conflitto dello spazio post-sovietico, dagli scontri interetnici di Osh (2010) tra kirghisi ed Uzbeki al recente conflitto tra kirghisi e tagiki nella Valle del Ferghana sino alla guerra tra Armenia (membro OTSC) ed Azerbaigian per il Nagorno Karabakh dell’autunno 2020.

Fabio Indeo


[1]    Golnaz Esfandiari, U.S. Withdrawal From Afghanistan Could Bring Iran Opportunities, Threats, RFERL, April 21, 2021, https://www.rferl.org/a/us-afghanistan-withdrawal-iran-opportunities-threats/31215905.html

[2]    V. Salama, G.Lubold, Afghan Pullout Leaves U.S. Looking for Other Places to Station Its Troops, The Wall Street Journal, May 8, 2021, https://www.wsj.com/articles/afghan-pullout-leaves-u-s-looking-for-other-places-to-station-its-troops-11620482659

[3]    Collective Security Treaty Organization, Charter of the Collective Security Treaty Organization, dated  October 7, 2002, https://en.odkb-csto.org/documents/documents/ustav_organizatsii_dogovora_o_kollektivnoy_bezopasnosti_/

[4]    “Russia fortifies Central Asia military clout before US Afghan exit”, Nikkei, May 27, 2021, https://asia.nikkei.com/Politics/International-relations/Russia-fortifies-Central-Asia-military-clout-before-US-Afghan-exit#:~:text=MOSCOW%20%2D%2D%20Russia%20is%20increasing,troops%20from%20Afghanistan%20fast%20approaching.

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