Afghanistan: la storia dell’intervento militare, le origini del ritiro, i rischi della crisi

Perchè dopo venti anni si è arrivati al ritiro dall’Afghanistan? Quali le ragioni dell’intervento, nel 2001 e del ritiro oggi? Che errori sono stati commessi e quali rischi, oggi, emergono dalla crisi in corso? Una breve analisi.

L’attuale, drammatica, crisi afghana, su cui molto si è detto  e scritto in questi ultimi giorni, può essere oggetto di alcune riflessioni, non semplici, sulle sue prospettive e sulla sua genesi, in cui è però indispenabile tenere conto del passato. A partire dal tema attuale del ritiro dal paese, su cui non entriamo in un giudizio di merito, ma cercheremo di spiegarne le origini, tenendo appunto conto del complesso quadro storico e politico in cui si inserisce. Una premessa è indispensabile: quando si parla di Afghanistan, è sempre opportuno ricordare la storia, unica, di questo paese, posto in una posizione geograficamente strategica di incrocio tra imperi e interessi geopolitici diversi da secoli. Terra di passaggio, millennaria, di popoli e merci, e da più di duecento anni, sostanzialmente, contesa dalle potenze regionali e spesso sconvolta guerre e conflitti. Una terra divisa al suo interno in un crogiolo complesso di etnie, tribù, clan diversi, spesso in guerra tra di loro, ma anche molto abili, ogni volta nella storia si è manifestato un invasore esterno, a unirsi per combatterlo. Su tutti si ricordino i fallimentari tentativi britannici nell’ottocento, nel pieno di quello che fu chiamato “Grande gioco” e che vide proprio l’Afghanistan al centro della contesa tra l’Impero di “Sua Maestà”, che al tempo dominava tutto il Subcontinente indiano, e quello dello Zar. Nella storia tante potenze straniere hanno cercato di allungare la propria influenza sull’Afghanistan, spesso però senza riuscirvi.

L’Afghanistan è una terra senza pace non da oggi e nemmeno da quando, a metà degli anni novanta, sono apparsi i Talebani. Da oltre quaranta anni è attarversata da conflitti: prima gli scontri interni, a cui seguirono nel 1979 l’invasione sovietica e la successiva guerra di resistenza che ebbe come protagonisti i Mujaheddin afghani contro l’Armata Rossa. E si ricordi anche il clima con cui in Occidente, nel pieno della Guerra Fredda, venivano spessi descritti o rappresentati gli Afghani, nella loro lotta contro i sovietici. Nello stesso periodo però l’Afghanistan diventa anche la fucina in cui si incontrano centinaia di militanti islamisti provenienti da tutto il mondo, che diverranno i primi jihadisti e da cui, in seguito, prenderanno forma organizzazioni terroristiche come Al Qaeda. Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri erano membri della resistenza antisovietica, ma di certo non con il ruolo di personaggi come il Comandante Massoud e molti leader Pashtun che poi sarebbero confluiti tra i Talebani.

L’Afghanistan uscì da quella guerra devastato. In Occidente si può ritenere che fu allora commesso il primo vero grande errore verso quel paese: sconfitta l’Unione Sovietica che di lì a pochi mesi sarebbe implosa e nel pieno della crisi che attraversava il mondo comunista, dopo il 1989 l’Afghanistan fu lasciato sostanzialemnte a se stesso, poverissimo e cosparso di macerie, in balia dei vari signori della guerra che si spartivano nella violenza le sue terre. Nemmeno i jihadisti ebbero più interesse a restare, poichè in gran parte decisero di tornarsene a casa a combattere contro i propri regimi nazionali (in Egitto, Algeria, Siria, Giordania) o in altre guerre che vedevano i musulmani in lotta con altri eserciti di “infedeli” (come in Cecenia o nei Balcani). L’Afghanistan, tornato in un cono d’ombra, mentre nel mondo si assiteva alla fine della Guerra Fredda, fu nuovamente sconvolto dalla guerra, questa volta tra quello che retava del suo governo e le diverse fazioni di mujahddin e poi tra i mujaheddin stessi. Fino a che, sui loro pick-up, non apparvero i Talebani, provenienti dalle regioni pashtun a confine tra Pakistan e Afghanistan, spesso giovani studenti fondamentalisti delle Madrase cresciuti nei campi profughi pakistani. In poco tempo, con una ferocia che stupì il mondo, e con grande abilità militare, questi islamisti radicali, conquistarono gran parte del paese avviando la costruzione di una sorta di regime oscurantista, totalitario e repressivo. L’Afghanistan divenne a metà anni novanta anche una nuovo “safe heaven” per molti terroristi jihadisti, in fuga dai loro falliti “jihad locali” in patria, che ora potevano ritrovare in questo paese ancora devastato, l’occasione per sfuggire alla repressione e alla prigione nei propri paesi di origine. E fu proprio qui, che Al Qaeda si consolidò, e potè lanciare la sue campagne terroristiche, che culminarono negli attacchi dell’11 settembre 2001.

Senza gli attacchi dell’11 settembre 2001 e il loro impatto globale non sarebbe possibile comprendere le ragioni, politiche e militari, dell’intervento in Afghanistan che iniziò nell’ottobre del 2001 e delle successive missioni internazionli che hanno visto gli USA,  e i loro Alleati, protagonisti nel paese. Soprattutto attraverso la NATO, che prima con ISAF e poi con Resolute Support, ha messo in campo una complessa e onerosa macchina organizzativa durata venti anni che ha rappresentato molto, sul piano strategico, politico, militare per l’Alleanza e per i suoi membri. Ed è anche doveroso ricordare quanto questa missione ventennale abbia rapresentato, per tutti i paesi partecipanti, da un punto di vista di vite sacrificate e risorse spese.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno obbligato il mondo occidentale, gli USA  e i loro alleati, a intervenire contro le organizzazioni terroristiche presenti in Afghanistan e contro il regime dei Talebani che le proteggevano e si erano rifiutati di consegnare i responsabili degli attacchi. Tale intervento era inevitabile e necessario: intorno agli USA si consolidò allora un ampio fronte multilaterale che sostenne l’intervento. Esso fu necessario, e si sviluppò anche attraverso un durissima caccia ai leaders delle organizzazioni terroristiche negli anni successivi che portò al ridimensionamento di Al Qaeda e dei Talebani. Che la successiva guerra in Iraq del 2003, voluta dagli Americani anche a costo, allora, di spaccare l’ampio fronte internazionale con gli alleati europei creato dopo l’11 settembre, possa aver contribuito a rendere più difficile il proseguimento della missione in Afghansitan, distogliendo uomini e risorse dal campo, è una eventualità che, a detta di molti analisiti, ha favorito, a fronte del disimpegno dal paese, il ritorno dei Talebani, che comunque erano riusciti a mantenere il controllo di alcune zone nei territori tribali Pashtun. Di sicuro, quando la guerra si è spostata in Iraq e poi, soprattutto dopo la morte di Bin Laden e la diffusione del jihadismo in altre aree del Medio Oriente, molte condizioni che necessitavano una forte presenza americana in Afghanistan sono nel tempo venute meno. Erano cambiati nemici, necessità e scenari.

I Talebani non erano scomparsi, e dopo il 2011, mentre le attenzioni occidentali andavano soprattutto verso le crisi in Siria, Libia, Iraq, hanno progressivamente recuperato terreno. Questo è particolarmente impervio, in alcune zone inaccessibile, privo di infrastrutture, ostile. Per anni il lavoro sul territorio afghano è stato molto difficile per le forze occidentali. Per riuscire nell’opera di controllare tutto il paese, patto che fosse possibile, sarebbero stati necessari molti uomini in più, e uno sforzo economico e logistico improbabile da mettere in campo a meno di un impegno che i paesi occidentali difficilmente avrebbero potuto sostenere in casa. La coalizione occidentale, nel lavoro di stabilizzazione e di messa in sicurezza di alcune parti del paese e per garantire l’avvio di un processo di sviluppo, ha speso e investito comunque ingenti risorse, che non possono però essere considerate tutte come sprecate.

Tenendo conto dei cambiamenti in essere nel teatro, nel 2014 la NATO  è passata da una missione come ISAf, a Resolute Support, molto diversa, che aveva il compito di supportare e preparare delle forze di sicurezza afghane. La presenza americana si è nel tempo ridotta, sempre di più, anche in ragione di quei 2400 morti che pesavano sempre di più nell’opinione pubblica. Dopo il 2011 e la morte di Bin Laden, molti dei presupposti politici inziali sono di fatto iniziati a venire meno. Nello stesso periodo, sotto la presidenza Obama, ha iniziato a prendere forma il tema del confronto strategico con la Cina. La lotta al terrorismo, grande necessità che aveva spinto alla guerra in Afghanistan nel 2001, stava lentamente venendo meno. Così come, soprattutto dopo l’esperienza drammatica dell’Iraq, anche il tentativo di “esportare la democrazia” promosso dai Neocon e Bush, che aveva riguardato l’Iraq post-Saddam e, in parte, l’Afghanistan post-talebano, si era palesato come “problematico” ed è uscito di fatto dall’ordine del giorno delle priorità strategiche delle amministrazioni americane, le quali  nel frattempo si sono concentrate sul Pacifico e la Cina.

Quando poi, tra Siria e Iraq, si è manifestata la minaccia di ISIS, e le condizioni geo-strategiche sono profondamente cambiate in tutto il  Medio Oriente, gli USA hanno comunque dovuto fare i conti con il jihadismo e, anche con alcuni errori commessi in Iraq nel dopo Saddam. Ma se per molti analisti,  di destra e di sinistra, la presenza in Medio Oriente poteva essere un obiettivo strategico da perseguire per gli USA, per mantenere la propria egemonia globale e contrastare in quella regione il nuovo attivismo russo e cinese, sempre di più l’Afghanistan continuava a scivolare ai margini delle mappe e lontano dagli interessi prioritari americani. Da qui la decisione, dolorosa  e difficile, tra continuare a restare per un tempo indeterminato, quasi sul modello koreano, oppure iniziare a immaginare un possibile ritiro.

Del ritiro, va detto, da diversi anni si parlava, anche se poi, per vari motivi, non si erano mai verificate le condizioni per realizzarlo. A livello NATO si registravano posizioni diverse tra gli alleati, ma era chiaro che il ruolo americano, una volta venuto meno, sarebbe stato insostibuile, e la missione impossibile da continuare. Questo in particolare è un tema su cui, in futuro, gli Europei comunque dovranno riflettere, se vorranno assumersi qualche responsabilità in più nei quadranti più complessi del mondo e dare davvero corpo ad una effettiva autonomia strategica.

Negli ultimi anni la presenza militare in Afghansitan, negli USA, era ormai invisa a gran parte della popolazione americana, ma anche considerata poco utile da molti analisti  e politici. Nel dibattito pubblico americano, le posizioni isolazionistiche o quelle che chiedono un maggiore disimpegno del paese a livello internazionale, sono sempre più trasversali tra gli schieramenti e la percezione dei rischi e delle minacce internazionali è molto diversa anche rispetto a venti anni fa. Immigrazione, terrorismo interno, criminalità sono temi ben più forti nelle agende politiche, e di sicuro ritirare le truppe dall’Afghanistan e destinare le risorse spese in quella missione ad altre priorità era una scelta che prima o poi un presidente americano avrebbe preso. Tenuto conto sopratutto della crescente competizione con la Cina e la Russia. Non è stato un caso se proprio con una Presidenza come quella di Donald Trump, e in nome dell’America First, si sia dato avvio in tempi più rapidi al processo di ritiro. Prima con gli accordi di Doha, probabilmente condotti non con i tempi necessari, e soprattutto con l’obiettivo, anche di natura elettorale, di annunciare il ritiro entro il 2020, anno di elezioni. Biden poi, ha dovuto mettere in atto quanto già deciso, in linea e in sintonia con l’impostazione che di fatto era già stata data dai suoi predecessori, assumendosi la responsabilità di farlo, anche in vista delle prossime scadenze elettorali. Che poi adesso, sull’onda dell’emozione, possa rivelarsi un boomerang mediatico è un altro tema, ma andrà visto nel tempo che effetti reali avrà. Ma il tono con cui il ritiro è stato difeso anche negli ultimi giorni dai componenti dell’amministrazione presidenziale evidenza quanto fosse ormai forte e consolidata la volontà di completarlo.

Ovviamente il ritiro non significa che gli USA non siano attenti ancora al Medio Oriente, dove sono in atto processi di cambiamento molto rilevanti e dove, va detto, l’attuale amministrazione non è stata immobile in questi mesi. Ma le principali priorità oggi restano Cina e Russia, potenze interessate dalla vicenda afghana e che, in qualche misura, saranno chiamate in causa da essa anche nei prossimi mesi. Forse anche pensando a un diverso convolgimento cinese nell’area, con qualche responsabilità in più che riguarda anche la dimensione difficile della sua sicurezza e stabilità, che in America si sia deciso di ritirarsi. Ed è noto che in Cina, come in Russia e Iran, paesi considerati avversari negli USA, le preoccupazioni per i rischi alla stabilità derivanti da un possibile effetto domino sulla regione o dal diffondersi della minaccia terroristica sono molto elevate.

Certo, le scene drammatiche di questi giorni hanno giustamente scosso l’opinione pubblica globale e meritano attenzione. Il crollo dell’esercito afghano ha favorito la vittoria lampo dei Talebani, cogliendo tutti di sorpresa. Ma non poteva essere una sorpresa il ritiro, di fatto, già avviato e concluso da giorni: già negli ultimi mesi, prima di esso, le truppe americane presenti nel paese erano rimaste davvero molto esigue. Nonostante i Talebani abbiano subito cercato di presentarsi al mondo con un volto ben diverso da quello di venti anni fa, su di loro aleggia più di qualche dubbio visti anche i recenti fatti di violenza che stanno attraversando il paese. Ma a livello occidentale non poche critiche sono state espresse, sopratutto all’insegna degli Stati Uniti, per la scelta del ritiro e le modalità con cui è stato eseguito, ma anche per gli  errori che sarebbero stati commessi, come alcuni autorevoli commentatori sostengono, nella valutazione da parte americana dei possibili effetti immediati del ritiro e sulla capacità di resistenza delle forze afghane.  Critiche che in alcuni caso possono essere comprese, ma che in altri casi sono apparse anche strumentali o contraddittorie, non tenendo conto della storia recente, del contesto politico americano, e soprattutto della ragioni dell’intervento iniziato nel 2001 a seguito dei sanguinosi attacchi a New York e Washington.

Di sicuro la decisione del ritiro, pochi mesi fa, ha sollevato qualche critica anche tra gli alleati. Se anche non tutti erano concordi nell’effettuarlo, l’alternativa di restare per un tempo indefinito in Afghansitan poteva comunque non apparire più praticabile. Probabilmente poteva essere deciso ed eseguito diversamente e meglio, e qualche errore di valutazione è stato fatto. Ma l’esito della stessa missione, durata venti anni, che nel tempo è ampiamente mutata e ha visto cambiare obiettivi e finalità, non può rischiare oggi di essere vanificato e inficiato, da alcuni errori commessi. Su questi possibili errori va forse aperta una riflessione, a partire dal tema della preparazione dell’esercito afghano, che evidentemente non è stato all’altezza delle aspettative e degli investimenti, così come non lo sono state la istituzioni afghane che non hanno saputo difendere il paese o guidare una transizione pacifica. Per la NATO, su questi temi, sarà molto utile e opportuno riflettere, sopratutto per il futuro e in vista di altre possibili missioni simili.

Certo che il paese potesse ricadere in mano Talebana era una possibilità, data anche dal fatto che ampia parte del territorio era in loro possesso e stavano avanzando giorno dopo giorno, ma non in questi tempi.  Gli accordi di Doha avevano eletto i Talebani di fatto a controparte e il tentativo era un loro coinvolgimento per portare il paese, dopo 40 anni di guerra, verso un complesso processo di pace. Quello che oggi i Talebani sembrerebbero promettere, nonostante il paese, come è evidente, rimane diviso e potenzialemnte pronto a precipitare di nuovo nella guerra tra fazioni. Come altre volte nella sua storia.

Oggi si teme che molte delle conquiste raggiunte, almeno in alcune zone del paese e a Kabul, possano essere perdute. A partire dai diritti delle minoranze, delle donne, dei minori. Su questo, certamente la comunità internazionale dovrà vigilare nei prossimi mesi e attivarsi con il supporto delle organizzazioni internazionali e gli strumenti possibili. La società afghana però è molto più complessa e articolata di come a volte appare, e se in alcune città e province negli ultimi anni sono state raggiunte alcune importanti conquiste civili, che si teme i Talebani possano cancellare o ridimensionare, nel resto del paese non è sempre stato così. Tradizioni tribali e norme di matrice religiose sono la regola di vita in molte zone rurali del paese. Certo per i paesi alleati oggi si pone il tema di come assistere la popolazione afghana e i profughi che da quel paese potrebbero arrivare, come sostenere e aiutare coloro che in questi anni hanno aiutato le forze occidentali sul campo, le organizzazuoni non governative che assistono le popolazioni. Tutti temi su cui anche il Presidente del Consiglio Draghi si è attivato, con altri leader europei, in queste ore per promuovere un vertice speciale.

È evidente che le missioni in Afghanistan che si sono succedute non hanno dato tutti i risultati sperati. Ma è giusto ricordare da dove si partiva, venti anni fa, perchè l’intervento, inevitabile, fu realizzato in quel paese e quale è la sua storia. Una storia fatta di guerre e conflitti tribali, ma anche di interessi geopolitici che premono sui suoi confini da secoli. E che oggi, tornano a premere, con possibili evoluzioni che potrebbero, nei prossimi mesi, riguardare tutta la regione centro asiatica. Pakistan, Cina, India, Russia, Iran sono tutti direttamente interessati, e preoccupati, soprattutto in caso di una escalation violenta e in vista di una possibile crisi umanitaria. Ma anche i paesi mediorientali, dalla Turchia al Qatar all’Arabia Saudita saranno sempre di più interessati dalle evoluzioni della situazione aghana. Così l’Europa, la quale, va detto, anche prima del ritiro americano, avrebbe potuto esercitare un ruolo diverso e oggi, in questa crisi, potrebbe davvero svolgere una funzione sul piano internaizonale, verso una regione strategica per la sua sicurezza. Ma nell’analisi geopolitica, come nella politica internazionale, è sempre consigliabile adottare un atteggiamento realista e pragmatico: fare previsioni certe oggi è difficile, ma è anche sconsigliabile vedere all’orizzonte solo vincitori all’infuori dei paesi alleati e degli USA. Perchè la situazione è complicata per tutti, al momento, e l’Afghanistan potrebbe rivelarsi un territorio difficile anche per gli altri, come i Russi sanno bene. Le condizioni strategiche, politiche, militari con cui ci si deve confrontare in un teatro simile sono complesse e in continua evoluzione; inoltre fattori derivanti dalla religione, dalle divisioni tribali ed etniche, vi hanno un peso enorme nel determinare possibili scenari di conflittualità e di instabilità.

 La fluidità della situazione impone quindi  molta attenzione, anche nelle analisi, evitando facili sensazionalismi. Parlare oggi di sconfitta tout court dell’Occidente in Afghanistan, nonostante errori commessi e la tragicità della situazione, potrebbe essere un po’ eccessivo, se non prematuro: il ritiro era annunciato da molto tempo, e nel tempo molte cose, oggi confuse, si chiariranno meglio. Ferme restando la preoccupazione per i civili e le popolazioni che in Afghanistan, oggi, rischiano un serio aggravarsi delle loro condizioni di vita e verso le quali, è giusto chiederlo, l’Occidente deve impegnarsi subito. Dopo venti anni, va ricodato, le ragioni del ritiro erano note e per quanto non condivise da tutti, negli USA o in Europa e possano essere criticate, restano abbastanza chiare. Le modalità potevano essere diverse e forse anche i suoi tempi, ma deve essere chiaro, come spesso è stato ribadito anche recentemente, che l’alternativa al ritiro era una prosecuzione indefinita della missione, contro gli stessi accordi di Doha, con il rischio di una possibile nuova guerra con i Talebani o certamente un aumento della conflittualità nel paese. Questo prezzo, chiaro a Washington, che avrebbe significato più uomini e mezzi impiegati, maggiori costi, anche in termini di vite umane, sarebbe stato accettato anche dall’opinione pubblica su entrambe le sponde dell’Atlantico? In America probabilmente no, e in Europa?

Resta il tema, oltre alla geopolitica e ai suoi rischi, della minaccia potenziale rappresentata dal terrorismo. È presto per fare previsioni, e come non si può prevedere con certezza oggi come questa crisi si risolverà, è difficile sapere  come evolverà il rapporto tra i Talebani e le organizzazioni terroristiche già presenti nel paese. La domanda che molti oggi si fanno è se l’Afghanistan tornarà ad essere, come negli anni novanta, un “santuario” del jihad globale. Si tratta di un’incognita seria, da non sottovalutare, che è ben presente anche in Occidente, che però rappresenta un rischio elevato anche per gli stessi Talebani. Ma va ricordato che oggi, rispetto a venti/venticinque anni fa, sono mutati i protagonisti, e anche cambiate notevolmente le modalità organizzative dello stesso terrorismo. Di conseguneza sono cambiati anche strumenti e strategie dell’antiterrorismo,  a partire dall’impegno da parte americana dei droni. Che potrebbero diventare, nei prossimi mesi, un possibile strumento di pressione, anche sui Talebani, insieme alla pressione diplomatica, perchè rispettino gli impegni presi su questo versante e anche su altri.

Di sicuro la crisi afghana potrebbe rappresentare in questo mondo afflitto dalla pandemia un nuovo spartiacque. A conferma che quel paese, ancora oggi, a distanza di decenni, continua ad essere al centro di un “Grande Gioco” dagli esiti sempre imprevedibili.

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