La crisi in Afghanistan: incognite e problemi aperti

Breve analisi critica sulle ragioni del ritiro, su alcuni possibili errori commessi nel passato recente e sui rischi connessi alla crisi secondo il punto di vista di Sarah Ibrahimi Zijno

Dopo la rapidissima e inaspettata – perfino dai commentatori più autorevoli – “rotta” dell’esercito regolare afghano e le drammatiche immagini della fuga da Kabul che hanno rievocato altre tragiche immagini da Saigon, il Presidente Biden nella giornata del 16 agosto ha preso la parola e in un breve ma chiaro discorso ha rievocato le ragioni dell’intervento in Afghanistan che, in effetti, fin dalla decisione dell’allora presidente Bush nel 2001 erano fondate su obiettivi antiterroristici successivi agli attacchi dell’11 settembre 2001. Nello specifico interrompere il rapporto tra l’Afghanistan e Al Qaeda responsabile degli attacchi, rapporto di cui l’allora regime talebano neanche faceva mistero. In altri termini, togliere di mezzo quello che potremmo definire – senza ombra di smentita – uno “stato canaglia”: ma non per forgiare una democrazia, ha sottolineato Biden, solo salvaguardare l’interesse nazionale, missione che si poteva dire conclusa con successo.

In effetti, tale logica, la citata impostazione originaria data a suo tempo dal presidente Bush, riecheggia anche nell’accordo di Doha stipulato, molti anni dopo, dal presidente Trump: laddove si stabiliva, in pochi asciutti articoli, che in cambio del ritiro americano i talebani si impegnavano a cooperare con le forze governative per la realizzazione di un nuovo Afghanistan e a non collaborare con forze terroristiche ostili agli Stati Uniti.

Molto probabilmente, uno degli elementi della “rotta”  –  a questo punto si spiega il virgolettato utilizzato anche in apertura – dell’esercito regolare è proprio questo: che essa potesse essere già data per eventuale, senza contare che molti osservatori avevano già rilevato come la ormai diffusa corruzione fosse invisa alla popolazione, mentre i talebani potessero essere invece considerati da molti come gli “autentici” figli del popolo venuti a ristabilire la giustizia, soprattutto sotto il profilo economico: e quest’ultimo punto, andrà ben considerato ai fini delle future mosse nei confronti del paese.

I combattimenti, nel cuore della maggioranza degli afghani, erano pertanto già conclusi ben prima della trionfale marcia dei talebani che nel giro di pochi giorni, non novanta, hanno issato la loro bandiera sul palazzo presidenziale. Ma non tutto torna e non tutto si spiega. Il primo elemento stridente è la stessa lunghissima permanenza nel paese, che contraddice nei fatti quelli che erano gli obiettivi dichiarati: abbattere uno stato canaglia non è operazione che possa durare vent’anni.  Si può obiettare che comunque realizzare un regime alternativo, che non sia la mera dittatura spietata di un governo Quisling, comporta tempo e lavoro politico, ma allora ecco che si ricade proprio nell’assunto che si vuole negare, ossia la volontà di forgiare un regime democratico, operazione che a questo punto però possiamo considerare fallita.

Il secondo elemento da sottolineare, in realtà un gruppo di elementi,  risiede proprio nell’accordo di Doha. Esso potrebbe essere realmente una ammissione di sconfitta prima della sconfitta: perché, se l’intento fosse stato quello di coinvolgere i talebani in un processo costituzionale per far finire la guerra civile, qualcuno avrebbe dovuto aprire – il governo in carica –  o comunque favorire – le forze d’occupazione – un qualche “tavolo costituzionale”  tra le parti: cosa non avvenuta. E facendo grazia di una serie di particolari che potremmo definire tecnici, ma sostanziali, come l’assoluta mancanza di protocolli per la reciproca verifica incrociata degli impegni presi e delle adeguate clausole per il riconoscimento della forma di stato e di governo che ne sarebbe scaturita. E infine: nessun riferimento ai diritti umani e civili e sarebbe stato almeno opportuno stabilire dei protocolli riguardo il personale che a vario titolo aveva collaborato con il governo o le forze di occupazione.

Con questi presupposti, l’accordo di Doha si rivela per quello che è, ossia una resa preventiva perché senza contropartita, senza un dover fare della controparte, senza strumenti di verifica  ci si affida, meramente e brutalmente, alla buona volontà e condiscendenza di questa.

Tale imperfezione, tale grettezza in una faccenda diplomatica i cui esiti rischiavano di compromettere, ed hanno compromesso, venti anni di morti e di fiumi di denaro è stata percepita abbondantemente dai mezzi di informazione e dal pubblico, fino a far parlare alcuni di accordo elettorale meramente finalizzato, da parte dell’allora presidente Trump, ad allargare il proprio consenso interno sulla scia delle tendenze isolazionistiche dell’America First: trappola in cui sembra sia caduto anche il Presidente Biden con il citato discorso in cui, sostanzialmente, nega la sconfitta per ricalcare la logica dei sui predecessori, tra l’altro di opposta fazione politica. Su queste basi, ossia sul fatto che presidenti di entrambi gli schieramenti pratichino la medesima logica di disimpegno, alcuni commentatori, in forma esageratamente colorita o apocalittica, parlano di “fine dell’era americana”. Né si può dare torto a coloro che ipotizzano nuovi spazi di intervento dell’Unione Europea nella politica internazionale e questo deve averlo ben chiaro anche Mario Draghi il quale, non a caso, ha inaugurato uno stretto giro di consultazioni con i partner europei.

Il terzo ed ultimo elemento, di stampo economico, è forse il più pericoloso, ma ci fornisce anche qualche spunto che potrebbe essere utile per il dopo.   

Inutile negare che l’Afghanistan, distrutto da anni e anni di guerra civile dovrà essere ricostruito,  ed è deprecabile che in venti anni a fronte di costi enormi vi sia stato poco beneficio per la popolazione civile. Così come è accertato che il sottosuolo afghano è ricchissimo di minerali. Con questi presupposti, è pressoché inevitabile l’intervento della Cina, secondo lo schema già collaudato del prestito per la ricostruzione garantito con la ricostruzione stessa: con il quale si instaura di fatto la comproprietà di Pechino sui gangli fondamentali del paese di turno. Ma anche quando il paese è in grado di ripagare il prestito in questione, non è di solito in grado, data l’arretratezza tecnologica, di gestire il tutto. Ricordiamoci che gli istituti finanziari cinesi che operano in tal senso sono di comproprietà dello Stato e si innesca in questo modo il controllo politico di fatto. Questo schema finanziario apparentemente infallibile ha però un punto debole, ossia che per funzionare ha bisogno di imporre tassi onerosi in grado di mettere all’angolo il paese in questione: in altri termini, ha bisogno che il paese si trovi nell’impossibilità di accedere a strumenti finanziari ordinari.

Nonostante i talebani abbiano assicurato una “amnistia generale” e garantito una transizione pacifica alla comunità internazionale, quanto sta accadendo sul territorio nelle ultime ore rende difficile immaginare l’instaurarsi di rapporti diplomatici con il nuovo regime, se non addirittura sbagliata questa fretta di dialogo a fronte della guerra civile che potrebbe repentinamente delinearsi.

Sarah Ibrahimi Zijno


Immagine tratta da Pixabay.com

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