Terrorismo e Jihadismo in Asia Centrale, tra obiettivi globali e radici regionali

Presenza jihadista e conseguenze della guerra globale al terrore nella regione dell’Asia Centrale, dal 2001 a oggi. L’analisi di Fabio Indeo per “2001-2021 Vent’anni di guerra la terrore”

L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 ha rappresentato un vero e proprio spartiacque geopolitico in Asia Centrale, poiché per la prima volta nella storia le truppe degli Stati Uniti e della NATO hanno fatto la loro comparsa nello spazio post-sovietico, ottenendo in concessione dalle repubbliche centroasiatiche delle basi militari (e altre facilitazioni come il diritto di sorvolo o di rifornimento), funzionali per supportare la campagna militare in Afghanistan finalizzata ad estirpare la minaccia terroristica di Al Qaeda e a rovesciare il governo dei Taliban, che aveva offerto protezione ai jihadisti.

Questa esigenza statunitense combaciava con gli intessi strategici delle cinque repubbliche centroasiatiche: infatti, il rafforzamento della cooperazione militare (e politica) con Washington rappresentava una rilevante opzione geopolitica, che consentiva loro di bilanciare l’influenza russa e cinese, e di diversificare la loro politica estera[1]. Inoltre, gli Stati Uniti offrivano un nuovo ombrello securitario di protezione, che appariva necessario per fronteggiare la minaccia di Al Qaeda e del terrorismo internazionale jihadista, soprattutto perché fonte d’ispirazione e di supporto militare ai gruppi terroristici prettamente centroasiatici che intendevano destabilizzare la regione e che avevano trovato rifugio temporaneo in Afghanistan.

Queste preoccupazioni erano il prodotto del progressivo deterioramento dello scenario securitario centroasiatico tra la fine degli anni Novanta e il 2001: nei primi anni di indipendenza, non si percepivano nella regione serie minacce legate alla sicurezza, e la guerra civile in Tagikistan (1992-1997, anno in cui venne siglato l’accordo di pace) aveva rappresentato un unicum. Nella seconda metà degli anni Novanta, invece, l’ascesa al potere dei Taliban venne percepita come una seria minaccia alla stabilità delle leadership politiche laiche e secolari dell’Asia Centrale, considerando anche che si trattava di stati nuovi e di recente indipendenza (1991) e questioni come il consolidamento del potere e della sicurezza all’interno dei confini nazionali costituivano delle priorità per i presidenti centroasiatici[2].

Soprattutto l’Uzbekistan divenne obiettivo di diverse azioni terroristiche. Le incursioni transfrontaliere degli appartenenti al Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MIU)[3] tra il 1999 e il 2000 – che dalle loro basi nella porzione tagika della Valle del Ferghana conducevano azioni armate in Uzbekistan (e Kirghizistan) con l’obiettivo di rovesciare l’autocrazia secolare del presidente Karimov e di instaurare un governo islamico – rappresentavano una minaccia destabilizzante non solo per l’Uzbekistan ma per l’intera regione: nel 1999 un fallito attentato contro Karimov nella capitale uzbeka Tashkent (che provocò 20 vittime, e che venne attribuito al MIU), spinse il presidente uzbeko ad inasprire la repressione nei confronti dell’islamismo radicale. I combattenti del MIU – tra i quali il comandante militare Juma Namangani e l’ideologo Tahir Yuldashev – trovarono rifugio in Afghanistan, dove si legarono ad Al Qaeda e ai Taliban, supportando le loro attività. In questo frangente si delineò il mutamento ideologico del MIU, che da obiettivi nazionali (l’abbattimento del potere secolare di Karimov) iniziò a perseguire obiettivi transnazionali (sul modello di Al Qaeda e del jihadismo globale), ovvero lottare per la creazione di un califfato islamico in Asia Centrale, progetto che implicava l’abbattimento dei confini e delle frontiere statuali tra le cinque repubbliche. Oltre al MIU, il movimento panislamico Hizb ut-Tahrir al Islami (partito della liberazione islamica) rappresentava un’altra percepita minaccia all’ordine costituito: venne dichiarato fuorilegge a causa di legami (mai realmente provati) con Al Qaeda. Se da un lato, Hizb ut Tahrir (HT) non nascose mai il suo obiettivo, ovvero rovesciare i regimi autocratici centroasiatici (in primis Karimov) ed instaurare un califfato transnazionale, allo stesso tempo un elemento ideologico fondante di HT rimane l’adesione a delle forme pacifiche e non violente di lotta, ovvero rovesciare i regimi secolari con mezzi pacifici, con la conversione religiosa degli adepti e non con la forza delle armi[4].

Le preoccupazioni sulla vulnerabilità dell’assetto securitario centroasiatico, a causa delle minacce esistenti, spinsero Russia e Cina a consolidare le due organizzazioni multilaterali di sicurezza regionale, in concomitanza dell’intervento americano: nel 2001 venne istituzionalizzato il Forum di Shanghai nella forma dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (a guida sino-russa, con le quattro repubbliche centroasiatiche eccetto il Turkmenistan) per combattere i “tre diavoli” (estremismo religioso, il separatismo etnico e il terrorismo), mentre nel 2002 venne riorganizzato il trattato di Tashkent con la creazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, che include Russia, Kazakhstan, Tagikistan, Kirghizistan, Armenia e Bielorussia) le cui finalità erano la lotta contro il terrorismo e il narcotraffico[5].

La cooperazione militare con gli Stati Uniti e la NATO permise all’Uzbekistan di estirpare la minaccia del MIU, che venne da subito inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche, mentre i bombardamenti dei droni statunitensi nelle montagne tra Afghanistan e Pakistan decapitarono il movimento provocando prima la morte di Namangani (ottobre-novembre 2001) e successivamente quella di Yuldashev (nel 2009). Indubbiamente, Karimov e gli altri presidenti centroasiatici sfruttarono in maniera opportunistica il loro supporto e contributo alla lotta contro il terrorismo islamico fondamentalista, fornendo basi e cooperazione militare agli Stati Uniti e aderendo ai blocchi securitari sino-russi, condizione che legittimava la loro repressione e lotta contro l’opposizione islamica e le forze di opposizione politica al loro potere, ammantandola come lotta contro il terrorismo internazionale.

Gli attentati a Tashkent e a Buchara del 2004 – rivendicati dagli estremisti islamici dell’Islamic Jihad Union (composto da fuoriusciti del MIU) e caratterizzati da una sostanziale novità per i canoni del terrorismo centroasiatico, ovvero l’utilizzo di autobombe e di due donne kamikaze che si fecero esplodere nel bazar di Chorsu – e la rivolta nella città di Andijan[6](nella parte uzbeka della valle del Ferghana) nel 2005 evidenziavano la necessità di sicurezza della nazione centroasiatica di fronte alla minaccia islamista e l’incapacità statunitense di fornire protezione, condizioni che portarono ad un temporaneo riorientamento geopolitico verso la Russia come garante della sicurezza regionale[7].

In linea generale, possiamo osservare che in trent’anni di indipendenza, in Asia Centrale si è verificato un numero esiguo di attacchi terroristici attribuibili all’islamismo radicale, in gran parte originati dalla mancata soluzione delle problematiche economico-sociali esistenti nella regione – come la povertà, l’autoritarismo e il capillare controllo sociale, la repressione della libera manifestazione religiosa, la mancanza di forme di rappresentatività politica e sociale – e che potenzialmente possono alimentare fenomeni di reazione violenta e di adesione alla causa dell’estremismo politico-religioso[8]. Secondo uno studio condotto da Edward Lemon, nel decennio 2008-2018 ci sono stati 19 attacchi terroristici in Asia Centrale, che hanno provocato 138 vittime, la maggior parte delle quali appartenenti alle forze di sicurezza (78), seguite da terroristi (49) e civili (11): la metà di questi attacchi si è registrato in Kazakistan (la nazione economicamente più prospera in Asia Centrale, grazie alle rendite petrolifere), mentre metà delle vittime in Tagikistan[9].

Dallo studio si evince in particolare come le forze di sicurezza, esercito, polizia abbiano rappresentato i principali obiettivi degli attacchi terroristici in quanto espressione delle autocrazie al potere responsabili del pervasivo controllo sociale e della repressione del dissenso[10].

Un fattore incontrovertibile è che a partire dal 2014-2015, il ritorno in patria dei militanti centroasiatici – addestrati ed attivi militarmente nel territorio dell’autoproclamato califfato islamico tra Siria ed Iraq – ha sicuramente contribuito a rivitalizzare la minaccia del terrorismo jihadista ed ha messo seriamente in allarme i governanti dell’area, preoccupati per la potenziale destabilizzazione delle fondamenta politico-istituzionali laiche degli stati – per la paventata minaccia di instaurare un califfato islamico – oltre a mettere in discussione l’autorità delle satrapie al potere[11]. Si stima che tra il 2011 e il 2015 tra i duemila e i quattromila individui provenienti dall’Asia Centrale (con un’ampia rappresentanza di uzbeki, circa 2500) abbiano ricevuto addestramento e combattuto come foreign fighters sotto l’insegna dell’IS[12].

I foreign fighters centroasiatici reclutati dallo Stato Islamico sono andati ad ingrossare le file dei tradizionali gruppi islamico-radicali presenti nella regione affiliati ad Al Qaeda, come il gruppo kazako Jund Al-Khalifah (che rivendicò la responsabilità degli attentati terroristici nella città petrolifera di Aktobe nel 2011), i tagiki di Jamaat Ansarullah e soprattutto il MIU, che tramite il suo leader Usman Ghazi nel settembre 2014 dichiarò fedeltà ad IS[13].

La creazione del Wilāyat (provincia) del Khorasan ­– che dovrebbe includere Pakistan, Afghanistan, Asia Centrale ed Iran – e quindi il radicamento del movimento terrorista-jihadista dell’IS-K in Afghanistan ha ulteriormente complicato il quadro e il rischio di destabilizzazione dell’intera regione[14].

Nonostante la presenza di militanti centroasiatici disposti ad agire sotto la copertura ideologica e il supporto economico-militare dell’IS, in realtà non si rileva una recrudescenza di attentati nella regione, anche se risulta interessante osservare e riflettere sulle profonde implicazioni e la valenza simbolica di questi atti di terrorismo legati al radicalismo islamico.

L’esplosione all’ambasciata cinese di Bishkek (agosto 2016) rivelava un’evidente matrice transregionale, in quanto l’esplosione dell’auto condotta da un kamikaze – prima volta nella storia kirghisa – che ha provocato il ferimento di 6 persone, è stata un’azione congiunta ordita da esponenti di Kateeba Tawhid wal Jihad (un gruppo di foreign fighters kirghisi di etnia uzbeka che combatterono in Siria ed Iraq) e del Partito Islamico del Turkestan (musulmani cinesi della repubblica autonoma dello Xinjiang) organizzata e finanziata da  Al Nusra-Al Qaeda[15]. Di conseguenza, la minaccia terroristica non era limitata all’Asia Centrale o all’Afghanistan, ma poteva avere delle ripercussioni anche sulla stabilità di Pechino, Mosca o Teheran.

In Kazakistan, nel 2016 diversi attacchi terroristici ad Aktobe ed Almaty (oltre trenta vittime) rivelavano il proliferare di terroristi jihadisti locali che traevano ispirazione dallo Stato Islamico, anche se alla radicalizzazione giovanile sembrano contribuire le condizioni economico-sociali, ovvero la lenta ridistribuzione della ricchezza derivante dalle esportazioni di petrolio, in un contesto di elevata disoccupazione e mancanza di prospettive[16].

A luglio 2018, in Tagikistan 4 ciclisti stranieri (tra i quali due americani) furono investiti ed uccisi nella città meridionale di Danghara, da un’auto che pare li abbia appositamente colpiti: dopo qualche ora, alcuni dei responsabili hanno fatto circolare un video nel quale rivendicavano la loro appartenenza allo Stato Islamico. Ciononostante, le autorità tagike (prima della diffusione del video) avevano invece individuato i colpevoli in alcuni esponenti del Partito della Rinascita Islamica, formazione politica ufficialmente bandita dal settembre del 2015 con l’accusa di aver pianificato e cercato di porre in atto un tentativo (fallito) di colpo di stato. Benché minoritario nel paese, con appena due seggi in parlamento, il PRI legittimava la natura formalmente multipartitica del sistema politico tagico: il PRI ebbe un ruolo notevole di mediazione nei negoziati di pace che posero fine alla guerra civile del 1995, contribuendo al mantenimento della stabilità. Inoltre, la partecipazione di un movimento dichiaratamente islamico alla competizione politica – riconoscendo apertamente la costituzione e il carattere secolare dello stato – costituiva un teorico modello di riferimento per altre nazioni dove la combinazione tra appartenenza religiosa e partecipazione politica era ampiamente dibattuta. Con la messa al bando del PRI questa speranza è stata vanificata ed ora Rahmon è l’indiscusso deus ex machina della nazione[17].

Parallelamente, tra il 2016 e il 2017 si è rilevato un crescente coinvolgimento di militanti provenienti dalle repubbliche centroasiatiche in attentati compiuti in Europa e negli Stati Uniti: un cittadino kirghiso e un cittadino kirghiso di etnia uzbeka vennero coinvolti nell’attentato suicida alla metropolitana di San Pietroburgo, mentre erano cittadini uzbeki gli autori degli attentati ad Istanbul (all’aeroporto internazionale e al night club Reina), Stoccolma e New York (estremisti uzbeki che hanno guidato auto contro la folla), episodi che evidenziavano come la pericolosità dei jihadisti centroasiatici non poteva essere circoscritta all’ambito regionale, ma era destinata invece ad avere un impatto globale[18].

Per contenere la minaccia di attacchi terroristici e le attività di reclutamento, indottrinamento e propaganda ad opera dei foreign fighters e di militanti nazionali legati all’IS, le repubbliche centroasiatiche hanno adottato delle disposizioni e leggi sempre più rigide – punendo con il carcere chi partecipa a dei conflitti in paesi stranieri – oltre ad intervenire sul piano interno con delle disposizioni tese a consolidare la connotazione laica e secolare delle istituzioni e della società, vietando ad esempio di indossare nelle scuole – e in generale negli edifici governativi – capi d’abbigliamento legati alla religione. Inoltre, grazie ad una capillare attività di intelligence, i servizi di sicurezza nazionali avrebbero sventato alcuni attentati terroristici ed attività eversive[19].

In conclusione, la presa del potere dei Taliban in Afghanistan e la proclamazione dell’Emirato Islamico hanno rinfocolato i timori dei governanti centroasiatici, preoccupati da potenziali infiltrazioni di gruppi armati che possano condurre azioni destabilizzanti e le leadership politiche secolari attualmente al potere. Nonostante i Taliban abbiano cercato di rassicurare gli attori regionali sulle loro intenzioni ed obiettivi politici nazionali, e di non avere delle mire transnazionali, oltre al loro impegno a combattere gruppi terroristici (soprattutto IS-K) che possono rappresentare una minaccia alla sicurezza dei paesi confinanti, evitando un loro radicamento in Afghanistan, gli attentati all’aeroporto di Kabul hanno dimostrato le difficoltà dei Taliban nel contenere le fazioni jihadiste e il potenziale rischio di contagio oltre confine. A rafforzare questi timori, la presenza di militanti di etnia centroasiatica non soltanto nelle file di IS-K ma anche a supporto dei Taliban, all’interno di gruppi terroristici come il “risorto” Movimento Islamico dell’Uzbekistan e Jamaat Ansarullah, i cui militanti di etnia tagika avrebbero avuto in concessione dai Taliban il controllo delle province settentrionali al confine con il Tagikistan[20].

La lotta contro il terrorismo costituisce sicuramente una priorità di rilievo nell’agenda securitaria delle repubbliche centroasiatiche, e delle superpotenze geopolitiche regionali Russia e Cina, preoccupate sia della stabilità interna che della protezione dei propri interessi strategici nella regione (dalle infrastrutture ed investimenti in ambito BRI al ruolo di garante della sicurezza regionale e di polo d’integrazione economica intrapreso da Mosca attraverso l’OTSC e l’Unione Economica Euroasiatica): tuttavia, la strumentale enfatizzazione e manipolazione della minaccia terrorista-jihadista (non si hanno stime precise sul numero dei centroasiatici arruolatisi con IS e quelle esistenti sono divergenti) sembra rappresentare una costante dell’approccio securitario delle repubbliche centroasiatiche, efficace strumento per legittimare politiche autocratiche, soprattutto se paragonato al numero limitato degli atti terroristici e ai reali legami con la rete jihadista globale.


[1] M.R Djalili, T.Kellner, Geopolitique de la nouvelle Asie Centrale: de la fin de l’URSS a l’apres-11 septembre, Presses Universitaires de France, Paris, 2006;  J. Anderson, The international politics of Central Asia, Manchester University Press, Manchester, 1997, pp. 79-82, 122-123

[2] G. Gleason, The Central Asian States: discovering independence, Westview Press, Boulder-Oxford, 1997.

[3] Il MIU si formò a seguito della soppressione del partito islamista Adolat formatosi a Namangan nel 1993, nella porzione uzbeka della Valle del Ferghana, in quanto rappresentava una sfida diretta nei confronti dell’allora presidente Karimov auspicando la sua destituzione e la creazione di un governo basato sulla legge islamica. Tra le fila di Adolat si formarono le figure maggiormente rappresentative del MIU come Juma Namangani e Tohrir Yuldashev

[4] International Crisis Group, Radical Islam in Central Asia: Responding to Hizb ut-Tahrir, ICG Report 58, June 30, 2003, https://www.crisisgroup.org/europe-central-asia/central-asia/uzbekistan/radical-islam-central-asia-responding-hizb-ut-tahrir

[5] R. Burnashev Regional security in Central Asia: military aspect, in Rumer B. (a cura di), Central Asia: a gathering storm?, M.E. Sharpe, London, 2002, p. 134.

[6] Tra il 12 e il 13 maggio 2005 una folla di dimostranti assaltò il carcere di Andijan e liberò 23 uomini d’affari ingiustamente incarcerati con l’accusa di appartenere al movimento Akromya, ritenuto (erroneamente, in quanto prospettava la creazione di governi islamici a livello locale-nazionale e non un califfato transnazionale) una costola di Hizb ut Tahrir. Tuttavia, furono liberati pure centinaia di persone accusate dalle autorità uzbeke di wahhabismo, ed anche semplici oppositori politici. Successivamente, una folla di dimostranti (composta sia da sostenitori dell’islamismo radicale e da cittadini esasperati) si riversò nelle strade chiedendo le dimissioni di Karimov, una maggiore rappresentatività politica, riforme economiche e sociali. Le forze di sicurezza uzbeke cinsero d’assedio la città, reprimendo duramente la rivolta (che causò 200 vittime secondo le fonti uzbeke, mentre per alcune fonti indipendenti come Human Right Watch il numero delle vittime fù di gran lunga più elevato) etichettata come espressione del terrorismo jihadista (J.W. Hartman, The May 2005 Andijan Uprising: What We Know, Silk Road Paper, Central Asia Caucasus Insitute-Silk Road Studies Program, May 2016; M. Brill Olcott, M. Barnett, The Andijan Uprising, Akramiya and Akram Yuldashev, Carnegie Endowment, June 26, 2006, https://carnegieendowment.org/2006/06/22/andijan-uprising-akramiya-and-akram-yuldashev-pub-18453)

[7] R. Weitz, “Terrorism in Uzbekistan: the IMU remains alive but not well”, in Central Asia and Caucasus Analyst Institute, May 5, 2004, https://www.cacianalyst.org/publications/analytical-articles/item/8975-analytical-articles-caci-analyst-2004-5-5-art-8975.html

[8] J. Heathershaw, D.W. Montgomery, The Myth of Post-Soviet Muslim Radicalization in the Central Asian Republics, CHATAM House, November 2014, pp. 7-9; D.Klimmage, Security Challenges in Central Asia: Implications for the EU’s Engagement Strategy, in Melvin N.J. (a cura di), Engaging Central Asia, the European Union’s new strategy in the heart of Eurasia, Centre for European Policy Studies, Brussels, 2008, pp. 11-15

[9] E. Lemon, Talking Up Terrorism in Central Asia, Kennan Cable,Wilson Center, No.38, December 2018, https://www.wilsoncenter.org/sites/default/files/media/documents/publication/kennan_cable_38.pdf

[10] Ibidem

[11] F. Indeo, L’ombra del “califfato”sull’Asia Centrale, in “LIMES, rivista italiana di geopolitica”, No.5, 2015

[12] INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Syria Calling: Radicalization in Central Asia, ICG Europe and Central Asia Briefing, no. 62, 20/01/2015

[13] In ragione di questo tradimento, dopo qualche mese Ghazi venne ucciso dai Taliban (luglio 2015) assieme ad altri dodici militanti del MIU.

[14] “The Islamic State Reaches Into Afghanistan and Pakistan”, Stratfor, 16/01/2015, https://www.stratfor.com/analysis/islamic-state-reaches-afghanistan-and-pakistan

[15] N. Soliev, “CENTRAL ASIA.” Counter Terrorist Trends and Analyses, vol. 9, no. 1, International Centre for Political Violence and Terrorism Research, 2017, pp. 61–66, http://www.jstor.org/stable/26351487.

[16] Ibidem

[17] F. Indeo, “Il Tagikistan di fronte alle minacce d’instabilità regionale”, in Eurasia Business Dispatch, Luglio 2018, http://www.eurasianbusinnessdispatch.com/ita/archivio/Il-Tagikistan-di-fronte-alle-minacce-d-instabilita-regionale-di-Fabio-Indeo-560-ITA.asp

[18] J. Ioffe, “Why Does Uzbekistan Export So Many Terrorists?”, The Atlantic, November 1, 2017, https://www.theatlantic.com/international/archive/2017/11/uzbekistan-terrorism-new-york-sayfullo-saipov/544649/

[19] N. Soliev, “CENTRAL ASIA.” Counter Terrorist Trends and Analyses,

[20] “Exclusive: Taliban Puts Tajik Militants Partially In Charge Of Afghanistan’s Northern Border”, Radio Free Europe/Radio Liberty, July 27, 2021, https://gandhara.rferl.org/a/taliban-tajik-militants-border/31380098.html

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