Guerra economica e Indo-Pacific Strategy: la strategia di Trump per arginare la Cina

Lontani ormai i tempi della diplomazia del ping pong, i rapporti tra Stati Uniti e Cina sembrano essere giunti, se non ad un punto di rottura, quanto meno ad una aperta opposizione. Dopo le strette di mano e i toni cordiali degli incontri a Mar-a-Lago con il Presidente Xi Jinping, infatti, il pragmatismo che aveva caratterizzato la politica di Trump nei confronti del gigante cinese, nelle prime battute del suo mandato, ha lasciato ora il posto ad una decisa strategia di contenimento, che ha raccolto l’eredità del così detto “pivot to Asia” obamiano e ne ha enfatizzato la dialettica di antagonismo all’interno dello scenario globale.

Questa competizione si sta giocando, in primis, in ambito commerciale. La così detta guerra economica lanciata dal Presidente Trump è stato il primo palese tentativo degli Stati Uniti di fiaccare la forza propulsiva del gigante asiatico, cercando di rallentare non solo i  ritmi di crescita, ma soprattutto l’attuazione di quel processo trasformativo interno su cui la Cina punta per rendere il proprio sistema sempre più stabile. La rapida crescita economica registrata dal Paese nel corso dell’ultimo decennio, infatti, ha innescato una serie di cambiamenti sociali (quali l’innalzamento della qualità e dell’aspettativa di vita, un ripensamento al rialzo della qualità dei consumi, l’allargamento della classe media) e di aspettative da parte della popolazione a cui il governo si trova ora a dover rispondere.

Se ufficialmente l’inasprimento delle condizioni tariffarie da parte statunitense è stato finalizzato a riequilibrare il rapporto commerciale bilaterale e preservare la proprietà intellettuale delle aziende statunitensi, il vero agnello sacrificale sull’altare della guerra economica sembrerebbe in realtà essere il programma “Made in China 2025”, la strategia di medio termine lanciata dal governo cinese nel 2015 per un rilancio qualitativo del sistema industriale nazionale che dovrebbe fare da volano non solo alla crescita economica del Paese, ma anche all’accreditamento della Cina come nuova superpotenza manifatturiera e tecnologica nel corso del prossimo quinquennio. In questo senso, la scelta di includere nelle nuove barriere tariffarie soprattutto il secondario e settori ad alto valore d’innovazione (quali la robotica, l’aeronautica e aerospazio, i macchinari industriali, l’automotive), lascia trasparire la consapevolezza di provare a minare alla base non tanto la forza di un rivale commerciale quanto un processo che potrebbe rafforzare ulteriormente la posizione della Cina a livello internazionale. Per quanto i recenti negoziati bilaterali abbiano segnato una tregua in quello che era ormai diventato un botta e risposta a colpi di dazi e misure protezionistiche, la competizione tra le due potenze sembra ben lontana dall’esaurirsi e, al contrario, sembra sempre più destinata a giocarsi su un terreno tanto strategico quanto la corsa per il primato nell’ ambito di nuove tecnologie.

La vicenda legata al colosso tecnologico Huawei e le forti perplessità sollevate dagli Stati Uniti sull’indipendenza dell’azienda cinese dalle autorità di Pechino lasciano trasparire come la competizione tra i due Paesi sia focalizzata sulle tecnologie di nuova generazione, in particolare sul 5G. In un momento in cui molti Stati sono in fase di apertura degli appalti per l’assegnazione degli incarichi per la costruzione delle reti informatiche di nuova generazione, la strategia di isolamento attuata da Washington nei confronti di Huawei punta a togliere terreno alle ambizioni della Cina di diventare, a tutti gli effetti, un punto di riferimento nel settore delle telecomunicazioni.

La strategia di competizione economica e tecnologica va di pari passo con un maggior presenzialismo all’interno delle acque dell’Pacifico e, in particolare del Mar Cinese Meridionale, scacchiere in cui il governo cinese sta cercando di affermare il proprio controllo a discapito delle rivendicazioni dei più piccoli Stati rivieraschi del Sud est Asiatico. La Cina, che avanza diritti di sfruttamento delle risorse e controllo di transito su circa il 90% delle acque, considera quest’area un proprio giardino di casa, fondamentale per assicurarsi degli avamposti strategici grazie ai quali aumentare la propria capacità di proiezione di influenza e, di conseguenza, scongiurare un confinamento del proprio raggio d’azione al di qua di quella strozzatura naturale che è lo Stretto di Malacca. Il recente passaggio del cacciatorpediniere USS Decatur all’interno delle 12 miglia nautiche dell’arcipelago delle Spratly, su cui Pechino rivendica la propria sovranità, è stato solo l’ultimo episodio della nuova assertività con cui gli Stati Uniti hanno intenzione di ribadire la libertà di navigazione di questo tratto di oceano e, soprattutto, di lanciare un chiaro segnale agli attori nella regione, per ritrovare una nuova sinergia con la quale provare a contenere l’espansionismo del gigante cinese. E’ in questa direzione che l’Amministrazione Trump ha lanciato, la scorsa estate, una nuova strategia per l’area, denominata Indo-Pacific Strategy, che richiama una continuità concettuale e pragmatica tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico e, di fatto, ne mette in correlazione le dinamiche politiche e di sicurezza. Ciò permette a Washington di chiamare in causa i propri alleati in entrambi gli scacchieri e di contare su India, Giappone, Australia ed, eventualmente, i più zelanti tra gli Stati rivieraschi del Sudest asiatico per creare un’alleanza dall’architettura variabile, ma i cui componenti siano accumunati dallo stesso interesse strategico: contrastare l’affermazione della Cina come nuove polo di potere globale. In un momento in cui il governo di Pechino ha modificato la natura stessa della propria strategia politica e militare, spostando l’attenzione dal rafforzamento interno alla proiezione verso l’esterno (la così detta Open up diplomacy), il progetto cinese di costituire un nuovo ordine internazionale alternativo a quello Stati Uniti-centrico sembra apparire agli occhi della Casa Bianca una minaccia al proprio status di superpotenza da affrontare con improrogabile urgenza.

Francesca Manenti, laureata nel 2012 in Politiche Europee e Internazionali presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito un master in Sicurezza economica, Geopolitica e Intelligence presso la SIOI (Società Italiana per le Organizzazioni Internazionali) a Roma. Ha iniziato a collaborare con il Ce.S.I. in qualità di stagista e ha proseguito poi la sua esperienza come junior fellow presso lo stesso. Attualmente è Analista del desk Asia e Pacifico dell’Istituto e autrice di pubblicazioni e analisi in materia di politica internazionale e di sicurezza per le aree di sua competenza. Ha insegnato alla Scuola Ufficiali dei Carabinieri alla Scuola Addestramento di Specializzazione della Guardia di Finanza e al Corso di Analisi, Geopolitica e Sicurezza organizzato dal Ce.S.I – Centro Studi Internazionali. E’ stata intervistata come esperta da programmi di Radio e TV nazionali.

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