Le proteste di Hong Kong e il peso della democrazia

Le recenti proteste della città di Hong Kong possono rappresentare un problema per il governo cinese? Quanto pesano il tema della democrazia e dell’autonomia nel rapporto tra Hong Kong e Cina? Una breve analisi.

Quale sarà l’esito delle proteste in corso ad Hong Kong ormai da diversi mesi non è dato saperlo, per ora quello che sembra certo è che nonostante il trascorrere delle settimane non sono calate. Le evoluzioni possibili di questa crisi potrebbero essere molto repentine e molto diverse: certamente le autorità cittadine appaiono in grande difficoltà nel gestire la crisi che è andata progressivamente aggravandosi, si sono già prodotte ripercussioni di tipo economico-finanziario, ma potrebbero esservi conseguenze non solo nel breve periodo, ma anche nel medio termine, soprattutto nel rapporto con la Cina.

Per ora il governo centrale cinese, nel rispetto dell’autonomia di Hong Kong, non è intervenuto direttamente nella vicenda, ma insofferenza e tensione sembrano crescere anche dalle parti di Pechino. Per il momento Hong Kong e le sue proteste rimangono comunque una’isola, non solo in senso geografico, rispetto alla Cina continentale: nel resto della repubblica popolare notizie e informazioni a proposito di quanto accade nella città sono rigidamente controllate. Ma il controllo dei media non è certo sufficiente a garantire che le proteste non possano nel tempo diventare un rischio serio per la stabilità interna cinese, in un momento complicato per l’economia cinese, e con altre potenziali situazioni di tensione nel paese.

Quanto la Cina potrà tollerare questa situazione? Gli accordi che regolano le relazioni tra Hong Kong e il governo cinese impediscono ad esso, a meno che non venga direttamente chiamato in causa dalla autorità cittadine, di intervenire. Ma negli ultimi periodi, nel crescendo di disordini, i toni si sono fatti da tutte le parti più forti, minacce velate, per mezzo stampa, sono circolate, e truppe paramilitari sono state ammassate a Shenzhen. La tensione, quindi, sta crescendo, e anche se queste minacce potrebbero essere semplicemente strumenti di pressione, il contesto rimane sempre più teso.

In molti autorevoli analisti e intellettuali, in queste settimane, hanno scomodato non pochi confronti con il passato e con le repressioni delle proteste in Cina, a partire da quella più celebre di piazza Tienanmen, nel 1989. A parte le minacce e per quanto la situazione possa essere grave, francamente al momento è difficile che il governo centrale cinese, in questa fase storica, possa permettersi di fronte al resto del mondo una repressione come fu quella di piazza Tienanmen. Ancora oggi gli accordi formali che regolano il rapporto con Hong Kong vietano un intervento cinese diretto, a meno che non siano da Hong Kong a chiedere aiuto. Un’ipotesi al momento difficile, anche se ormai vi è chi definisce le proteste una “rivolta” e gli scontri, per esempio durante l’occupazione del parlamento cittadino, sono stati anche violenti.

Hong Kong, nonostante la sua autonomia e l’autogoverno, svolge già oggi, sul piano economico e finanziario, un ruolo molto importante per la Cina.  Per questo la Cina continentale ha sempre maggiore interesse a poter incidere sulle scelte interne di Hong Kong. Il complesso rapporto tra l’ex-colonia britannica e il governo cinese e la sua evoluzione, in vista del passaggio definitivo di Hong Kong sotto la Cina “continentale” e la fine della sua autonomia, sono forse il vero oggetto della protesta. Hong Kong è una piazza economica globale troppo importante per l’economia cinese, e comunque troppo visibile, troppo esposta sotto i riflettori del mondo. La sua popolazione, una parte almeno, come rappresentano bene le manifestazioni di massa degli ultimi weekend, non solo mal digerisce le ingerenze politiche del governo centrale cinese, ma in cuor suo coltiva, probabilmente, l’idea e l’aspirazione al mantenimento di quell’autonomia politica, fino ad oggi goduta, anche in futuro.

Il governo centrale cinese è visto con sospetto o timore, e i cittadini di Hong Kong che hanno mantenuto ampia autonomia e molti diritti dopo il 1997, temono per la perdita del sistema ampiamente democratico in cui hanno potuto vivere per molto tempo. Non a caso le proteste sono iniziate proprio contro una proposta di legge che sembrava incidere sulla sfera delle garanzie e dei diritti degli abitanti della città. E non è la prima volta che a Hong Kong si protesta, poiché già nel 2014, e anche negli ani successivi, la città era stata attraversata da manifestazioni analoghe.

Per cui da un lato la Cina non può fare a meno di Hong Kong e non può sottovalutare le proteste, dall’altro è complesso intervenire, date le regole e il contesto politico/sociale della città e la sua collocazione internazionale. Non si tratta di un rebus banale, Hong Kong non è una qualsiasi città della Cina continentale, per quanto oggi isolata, non è detto che rimanga tale  a lungo.

Nel resto del paese infatti, al netto della censura e del controllo ferreo dei mezzi di informazione che vige in tutta la Cina, il governo cinese e i suoi leaders, godono nel grande corpo della repubblica popolare comunque di un consenso e di un sostegno molto esteso. Merito, indubbiamente, del fatto che negli ultimi trenta anni la Cina è tornata ad essere la grande potenza economica, politica e diplomatica (e anche militare) che era stata per larga parte della storia dell’uomo. E sopratutto, è cresciuta tanto, economicamente, la sua popolazione si è largamente arricchita, tanti di coloro che nelle foto di trenta o quaranta anni fa correvano sulla sella di una bicicletta davanti al mausoleo di Mao adesso sfrecciano sulle autostrade cinesi su una macchina, e la classe media cinese si è enormemente espansa e fatta ambiziosa.  Il misto di confucianesimo, nazionalismo e comunismo che oggi costituisce l’ideologia al potere in Cina, e che è centro del sistema di governo che garantisce e rappresenta bene le aspirazioni a ordine e stabilità di molta parte della popolazione cinese e del sistema economico cinese. Ma questo consenso quanto ancora sarà così alto? Se l’economia dovesse arrestarsi cosa potrebbe accadere? cosa potrebbe accadere nelle aree interne dove comunque nel tempo proteste e tensioni non sono mancate, soprattutto nelle regioni periferiche ( si pensi al Tibet o lo Xinjiang). Potrebbe avere effetti, la protesta di Hong Kong, se dovesse proseguire ancora a lungo, su queste?

La Cina oggi, a differenza del 1989, non è un paese in via di sviluppo che cercava di affrancarsi dalla povertà del proprio passato recente e non poteva permettersi il dissenso al centro del suo cuore, a Pechino, davanti ai simboli del potere del partito unico. Quel dissenso era percepito come una grave minaccia alla stabilità del potere di Deng Xiaoping, allora guida del paese. Stabilità e sicurezza di un sistema politico accentrato, come quello cinese, sono il cuore della sua forza e, agli occhi di coloro che lo detengono, vanno difese. Nel 1989 la Cina comunista represse violentemente le proteste di piazza per evitare che potessero rappresentare un rischio alla sua sopravvivenza, nello stesso anno in cui il mondo sovietico iniziava ad esser scosso da moti di cambiamento che pochi mesi dopo avrebbero portato al crollo del muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda. Deng sconfisse con la mano di ferro dell’esercito le proteste di piazza e proseguì sulla strada da lui avviata di riforme economiche e apertura della Cina all’economia globale, sotto un rigido sistema di governo autoritario guidato dal PCC. Dieci anni dopo le repressioni di piazza la Cina entrava nel WTO e in pochi anni diventava la seconda potenza economica mondiale.

Adesso, Dopo 30 anni, la Cina è diventata una potenza globale, non solo sul piano economico, così lontana e diversa dal paese che era nel 1989, proiettata all’esterno verso il resto dell’Asia, l’Africa, l’Europa con una grande iniziativa globale come la Nuova via della Seta. Oggi si muove consapevole della sua forza, rivaleggiando con gli Stati Uniti, investendo ed esportando in tutto il mondo, e sforzandosi, attraverso le leve del Soft power, di dare di se un’immagine ben diversa da quella del suo passato. Ma, sopratutto, è anche nel mezzo di una “guerra commerciale” non voluta con gli Stati Uniti: un confronto complicato, rischioso, i cui esiti potrebbero avere effetti indesiderati in Cina, e non solo, e spaventano molto i suoi leaders.

Per questi motivi, per quanto Hong Kong sia importante, e per quanto i timori suscitati dalle sue proteste possano intimorire la guida cinese, è difficile immaginare che la Cina di oggi, nel contesto globale politico ed economico attuale, possa permettersi, come nel 1989, una nuova repressione di massa senza conseguenze sulla sua immagine internazionale, sulle sue esportazioni, sui suoi capitali.

Certo, la storia ci insegna che non solo il calcolo economico e strategico guidano le scelte dei governanti. Se la situazione nel tempo dovesse degenerare, coinvolgendo altre forze o estendendosi in altre zone del paese, allora le dinamiche potrebbero cambiare o svoltare repentinamente. Potrebbero entrare in campo altre logiche, e il rischio che la stabilità interna possa essere minacciata potrebbe spingere verso altre scelte, più radicali, rispetto alle sole minacce.

Attualmente però una repressione violenta sarebbe un regalo troppo grosso per la retorica anti-cinese. Alle motivazioni commerciali ed economiche utilizzate per giustificare i dazi, che stanno notevolmente impaurendo i mercati mondiali e soprattutto minacciano considerevolmente l’economia cinese, si aggiungerebbero argomenti di tipo politico e ideologico. Un richiamo a cui molti altri paesi non potrebbero non rispondere.

Ecco perché i governanti cinesi, pur lanciando accuse agli Stati Uniti di ingerenze e interferenze nelle vicende di Hong Kong e facendo trapelare, attraverso i media, la minaccia velata dell’uso della forza, al momento paiono tutt’altro che interessati ad impiegarla.

Ma oltre alla geopolitica e alle dispute “interne” che riguardano il futuro dell’autonomia e dell’auotogoverno di Hong Kong, questa vicenda riporta all’ordine del giorno anche in Occidente il tema della democrazia. Hong Kong è un territorio abituato ad essere aperto al mondo, modernissmo, una piccola enclave del mondo globale in terra cinese, abituato ad essere ricco quando ancora il resto della Cina non lo era, e la cui popolazione gode e ha goduto di forme di libertà e diritti sconosciuti in larga parte dell’Asia. I cittadini di Hong Kong  manifestano non solo contro il famoso emendamento alla legge sulle estradizioni, ma più in generale per difendere la propria autonomia e il proprio autogoverno verso il quale non vorrebbero ingerenze.

Il rapporto complesso tra la loro città e il resto della Cina passerà, nei prossimi anni, anche da come questo tema verrà reciprocamente gestito e di come la legittima aspirazione democratica di Hong Kong potrà sopravvivere nella Cina del futuro. Non è una questione banale, potrà avere molte più conseguenze di quanto si immagina, sia per Hong Kong, dove già oggi si sono manifestate anche posizioni contrarie alle proteste, ma anche per la Cina continentale, e non solo sul piano interno. Perché la soluzione dell’annosa questione di Taiwan oppure il rapporto con il resto del mondo occidentale o, infine, l’aspirazione della Cina ad essere guida del resto dell’Asia e non solo, potrebbe subire conseguenze da come evolverà nel tempo la situazione a Hong Kong. In questo il tema della democrazia, con tutto il suo peso, potrebbe avere un certo rilievo sia in senso positivo che negativo anche nei prossimi anni, tanto più ci avvicineremo alla fine del periodo di transizione successivo al 1997.

Enrico Casini è Direttore di Europa Atlantica

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