Macro shot of Iraq on a map.

Il ritorno dello Stato islamico? Iraq a rischio

 

Il 31 agosto 2010 l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama dichiarava la fine della missione di combattimento in Iraq, chiudendo il capitolo della guerra americana iniziato nel 2003 con l’invasione statunitense a cui è seguita la caduta di Saddam Hussein e il periodo di violenza ininterrotta che ne è derivato. La sconfitta dello Stato islamico nella sua natura territoriale e statuale annunciata nel dicembre del 2017 ha indotto l’opinione pubblica internazionale a considerare chiusa la partita con quello che viene considerato il principale gruppo terrorista jihadista contemporaneo.  Nel 2018 gli attacchi violenti portati recentemente a termine dallo Stato islamico nella provincia di Anbar e a Kirkuk, e la stessa permanenza di gruppi affiliati allo Stato islamico in Siria, mostrano quanto sia difficile e ancora lontana la stabilizzazione regionale. Il problema è che la stessa esistenza e la presenza residuale dello Stato islamico rendono e renderanno impossibile stabilizzare le aree centrali, settentrionali e occidentali dell’Iraq se non verranno adottate soluzioni politiche volte a coinvolgere le comunità locali consentendo loro di accedere a forme di potere e rappresentanza.

Un recente report pubblicato a fine luglio dall’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team dell’ONU, riporta la presenza di circa 20-30.000 miliziani dello Stato islamico tra Siria e Iraq. Notizia che ha allarmato molti e attirato l’attenzione mediatica su un fenomeno in fase di ridimensionamento ma ancora molto pericoloso.

Una prima considerazione: i numeri sembrano alti, ma è praticamente impossibile poter verificare la corrispondenza dei dati riportati con la situazione sul terreno. Una conferma in questo senso proviene dal 14° report del Lead Inspector General al Congresso degli Stati Uniti sull’Operazione militare anti-ISIS Inherent Resolve (OIR). Attenendoci a questi dati, 15/17.000 soggetti affiliati allo Stato islamico sarebbero in Iraq, altri 14.000 in Siria. Numeri verosimili in linea con i 100.000 combattenti stimati totali dello Stato islamico nel suo momento di maggior espansione nel 2015-16, dei quali 30.000 stranieri.

È però necessario partire da un punto cardine, che spesso passa in secondo piano nelle analisi generaliste: la natura sociale dello Stato islamico, che nasce nella seconda metà degli anni Duemila alimentato dalla marginalizzazione delle comunità sunnite irachene, in particolare quelle periferiche, attuata dal governo centrale a prevalenza sciita. Proprio dalla reazione di quelle comunità è nata prima la resistenza, poi l’opposizione armata insurrezionale e infine il proto-stato islamico di cui Abu-Bakr al-Baghdadi si è proclamato califfo nel 2014.

Quando noi oggi parliamo di 30.000 soggetti, è a quella tipologia di individui che rivolgiamo le nostre attenzioni, non una massa combattente, un’armata strutturata e monolitica. Ma individui e gruppi, più o meno organizzati, di cui una componente in aderenza agli ordini dei vertici dello Stato islamico, che fanno parte o che combattono anche per la difesa dei propri villaggi e delle proprie comunità e che, con entusiasmo o meno, hanno aderito al primo modello di opposizione armata. E non è un caso che lo Stato islamico, che oggi ha perso mordente tra le popolazioni irachene stia procedendo a eliminare le autorità tribali che si oppongono al progetto del califfato dove le forze regolari irachene non sono in grado di garantire la sicurezza, come testimoniano le poco meno di duecento uccisioni registrate negli ultimi sei mesi nelle aree periferiche dell’Iraq.

Una massa eterogenea, di cui fanno parti correnti qaediste e dello Stato islamico – teoricamente in competizione tra di loro – che è composta da una parte di soggetti oggi priva di una guida militare, politica, ideologica strutturata e unitaria ma che è in grado di operare in cellule e nuclei in linea con la strategia jihadista. Questo potrebbe fare la differenza, poiché la debolezza di singoli gruppi, o soggetti isolati, potrebbe trasformarsi in punto di forza qualora si creassero le giuste condizioni: la prima è una guida autorevole, la seconda è il favore delle popolazioni locali.

Per la prima, è una questione di tempo, e al-Baghdadi, o il suo successore, potrebbero occupare il vertice di una nuova organizzazione armata. La seconda dipende invece da come il governo iracheno, più che quello siriano, saprà coinvolgere tutte le componenti sociali del paese senza correre il rischio di emarginare, o escludere da forme di potere, la forte componente sunnita che ha sostenuto l’emergere dello Stato islamico.

Inoltre va considerata la massa della componente autoctona, locale, al fianco della residua componente straniera, quella dei foreign fighters, che in parte è rientrata nei paesi di origine, alcuni anche europei, in parte è invece emigrata in altre aree di crisi, come l’Asia meridionale e in particolare l’Afghanistan.

Lo Stato islamico, di necessità virtù, ha fatto un passo indietro – ridimensione territoriale a cui non poteva opporsi – per farne due in avanti: espansione ideologica e presenza puntiforme in tutto l’arco grande mediorientale e dell’est asiatico.

Una nuova fase dunque: sul piano operativo e organizzativo le capacità dello Stato islamico sono ridimensionate ma comunque funzionali, la logistica è in grado di svolgere il proprio compito, la capacità comunicativa non è stata intaccata. Anche la capacità finanziaria ha mantenuto livelli significativi.

Lo Stato islamico si è così ridimensionato nei numeri ma non nelle capacità in proporzione a quei numeri e si sta così riorganizzando in senso insurrezionale, in maniera analoga allo Stato islamico d’Iraq del periodo 2006/2013.

Oggi però si impone la crescente presenza di un nuovo fronte, che potrebbe unire parte delle diverse correnti dell’insurrezione armata jihadista che ha combattuto in Siria e Iraq: dallo Stato islamico propriamente detto, agli jihadisti dell’ex Jabat al-Nusrah, all’Hay’at Tahir al Sham, ai gruppi turcofoni del Fursan al-Imam e del Turkestan Islamic Party, ad Ansar al Islam.

Insomma una galassia jihadista, di cui fa parte, in cerca di un nuovo obiettivo comune e pronta a radicarsi su quello stesso terreno fertile in cui il fenomeno post-Stato islamico ha le sue radici più profonde.

Claudio Bertolotti (Ph.D), Direttore di Start InSight, analista strategico per il CeMiSS (Centro Militare di Studi Strategici), è docente e ricercatore associato ISPI (Istituto di Studi Politici Internazionali). Dal 2015 è il ricercatore senior presso la ‘5+5 Defense Iniziative’ dell’Euro-Maghreb Centre for Research and Strategic Studies (CEMRES) di Tunisi per la sicurezza del Mediterraneo.

Contributo  pubblicato originariamente su:

Commentary ISPI in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-ritorno-dell-stato-islamico-iraq-rischio-21192

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