Perchè Isis è una minaccia ancora molto seria. L’analisi di Matteo Colombo (Ispi)

Dopo la sconfitta territoriale in Siria, Isis rimane comunque una minaccia molto seria, sia in Medio Oriente che in Occidente. L’intervista con Matteo Colombo (Ispi) sull’evoluzione recente di Isis e del jihadismo, soprattutto attraverso i canali della comunicazione

Con l’autoproclamazione del Califfato e la nascita del sedicente Stato Islamico, nell’estate 2014 l’organizzazione terroristica conosciuta come Isis (IS) ha fatto un evidente salto di livello rispetto al passato: nessun gruppo terroristico aveva mai tentato di dare vita ad una entità statuale né aveva proclamato il ritorno del Califfato. Questo ha permesso indubbiamente di raggiungere un livello organizzativo e una capacità comunicativa mai vista prima nel panorama del jihadismo globale. Infatti, nel giro di pochi mesi, è riuscita ad “invadere” lo spazio mediatico di tutto il mondo.

Isis oggi si può considerare un vero e proprio international brand, con il suo logo (la bandiera nera) e, soprattutto, con un’ampia platea di suoi followers. Dai magazine online alla radio ai filmati caricati in rete e poi fatti circolare dai social network, Isis seleziona attentamente le immagini e i contenuti più efficaci per la sua propaganda. Su questi temi abbiamo rivolto alcune domande a Matteo Colombo, ricercatore presso l’ISPI su Medio Oriente e Nord Africa e dottorando presso il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano, al momento impegnato in un progetto di ricerca sulla comunicazione e i social media dello Stato Islamico dal titolo Twitting the Caliphate. The Ideology of IS in Arab Social Media Discourse.

EA: Quali sono gli elementi cardine della comunicazione e dell’attività propagandistica di IS?

Matteo Colombo: Gli elementi cardine sono sostanzialmente tre. Isis punta a presentarsi prima di tutto come uno Stato e questo è stato un elemento molto importante fino a quando ha avuto un territorio da controllare e amministrare. Sul piano della comunicazione, per dare questa immagine, l’organizzazione era solita mostrare il suo operato in termini di aiuti alla popolazione e di efficienza nella gestione quotidiana dell’amministrazione.

Allo stesso tempo IS si è occupata di reclutare volontari, convincendoli che è dovere di qualsiasi musulmano entrare a far parte dell’organizzazione.

Quest’ultimo obiettivo è stato perseguito principalmente in due modi: diffondere le testimonianze di combattenti che raccontavano la loro esperienza quotidiana; offrire una dimensione più teologica al tema, sostenendo che qualsiasi buon musulmano sarebbe stato tale solo unendosi allo Stato Islamico.

Il terzo elemento è rivolto ai nemici, cioè a tutti coloro che non possono essere redenti. In questo caso la strategia adottata è stata quella del terrore, scatenando il panico al fine di avvantaggiarsi strategicamente.

Sostanzialmente la comunicazione ha dunque assunto due dimensioni: una locale, propositiva che punta a dimostrare le capacità dello Stato Islamico e a coinvolgere a livello emozionale le persone rivolta soprattutto ai possibili simpatizzanti, cioè a tutti quei musulmani sunniti che IS vuole convincere a unirsi a loro; l’altra globale, rivolta ai nemici, che rappresenta soltanto un terzo della comunicazione messa in campo e che mira a diffondere paura nel mondo occidentale. Alcuni studi quantificano quest’ultima attorno al 10-20%.

EA: Qual è il cambiamento rispetto alla comunicazione che avviene nel 2014 con la proclamazione della nascita del Califfato?

M. Colombo: La comunicazione precedente alla proclamazione della nascita del Califfato era perlopiù la comunicazione di combattenti che offrivano la loro testimonianza. Si ricorderanno, facendo un collegamento con Al Qaeda, da cui Isis deriva almeno in parte, i video molto lunghi di Osama Bin Laden, il quale faceva dei riferimenti alla tradizione islamica per giustificare quelle che erano le sue azioni. Nel 2014 con l’Isis prevale l’idea della statualità, della ricerca di dimostrare che Isis è uno Stato e come tale va riconosciuto. In particolare emerge un aspetto che non si era mai riscontrato in nessun gruppo jihadista, ossia quello cioè di porsi in modo netto “o con noi o contro di noi”, che tradotto presenta lo Stato Islamico come la massima autorità per tutti i musulmani e chi non si unisce ad esso non fa più parte della comunità islamica.

Un’altra significativa differenza è che con la proclamazione del Califfato, Is ha inevitabilmente più fondi e più possibilità, il che comporta un salto di qualità della comunicazione dal punto di vista tecnico. Inoltre, si crea una vera e propria organizzazione interna allo Stato Islamico per gestire quella che è la strategia di comunicazione, cosa questa che rappresenta una vera e propria novità. Esso non si limita a reagire a ciò che gli altri dicono rispetto al gruppo ma punta anche ad imporre la sua agenda, a dire: noi vogliamo comunicare questi aspetti e lo facciamo in modo diversi per target diversi, proprio come una vera azienda di marketing.

EA: Come funziona lo strumento della “controinformazione”? Può essere considerato uno strumento violento?

M. Colombo: Avere una strategia di comunicazione significa anche cercare di fare una controinformazione, ossia di insinuare nel dibattito, soprattutto all’interno di comunità che possono guardare con una certa simpatia allo Stato Islamico, il dubbio. Isis lo fa sostanzialmente utilizzando due canali: il primo è la comunicazione diretta dei sostenitori e dei combattenti, cioè persone che ti dicono sì sui giornali dicono questo, la comunicazione mainstream usa questo tipo di temi, ma noi ti facciamo vedere che in realtà non è così.

L’altra modalità utilizzata è quella di creare dei video che smentiscono ciò che i giornali riportano. Isis si rende perfettamente conto che le persone sono consapevoli che si tratta di video di propaganda, tuttavia il produrli li mette sullo stesso piano dell’informazione diffusa dei media. E’ come se dicesse: facciamo propaganda ma anche gli altri la fanno e quindi crea un’equivalenza rispetto alle informazioni, che è l’obiettivo della controinformazione di Isis. Questo, in “senso lato”, è uno strumento violento, nel senso che pone sullo stesso piano la propaganda di un gruppo terrorista a quella dell’informazione più generale, con la differenza che nello Stato Islamico nessuno può verificare in modo indipendente le informazioni fatte circolare. La propaganda di tutti i regimi totalitari da un certo punto di vista si assomiglia perché ha come obiettivo quello di dire tutto va bene, noi siamo perfetti, facciamo tutto in modo assolutamente egregio nonostante le testimonianze sul campo dicano esattamente il contrario.

EA: Qual è stata invece l’evoluzione della comunicazione jihadista dopo la sconfitta territoriale di IS?

M. Colombo: Qui secondo me ci sono due aspetti interessanti: il primo è che, dato che la sconfitta è innegabile, IS ha necessità di giustificarla in qualche modo. Se la sua comunicazione era molto basata sull’idea “Noi siamo forti, sconfiggiamo i nemici in battaglia, controlliamo il territorio, ecc.”, nel momento in cui questo viene meno bisogna trovare un “escamotage” comunicativo. Come si fa? Quello che fa Isis è sostenere che si è persa una battaglia ma non si sta perdendo la guerra, e per guerra s’intende, dal punto di vista dello Stato Islamico, proprio la guerra millenaria dell’Islam nei confronti degli infedeli.

L’obiettivo dunque è quello di considerare la sconfitta come momentanea, certi che, come promesso da Dio, alla fine si uscirà vittoriosi. Quando Isis deve fare un video sul fatto che a Mosul, che era una delle due capitali non ufficiali con Raqqa, ha perso, all’inizio del video mostra delle scene epiche di battaglie del passato, proprio per sottolineare questo aspetto: si è persa la battaglia ma la guerra si combatte su secoli e quindi inevitabilmente vinceremo.

L’altro aspetto da sottolineare è che dopo la sconfitta territoriale dell’Isis, altri gruppi, a cominciare da Al Qaeda, hanno cercato di trarre vantaggio da questa situazione per accreditarsi come i nuovi protagonisti nella battaglia contro i nemici dell’Islam. E lo fanno con video dalla struttura narrativa abbastanza simile.

EA: Secondo lei quali sono le contromisure reali che l’Europa dovrebbe mettere in atto per far fronte alla minaccia jihadista anche a livello propagandistico per evitare che continui a reclutare nuovi adepti?

M. Colombo: Anche qui possiamo individuare due temi: in primo luogo, ci sono delle misure di prevenzione sulle quali si deve fare un lavoro molto serio per incentivare la de-radicalizzazione. Uno dei luoghi in cui è maggiore il rischio di radicalizzazione è il carcere. Questo per motivi facilmente comprensibili: le persone in carcere provengono spesso da situazioni problematiche, hanno commesso dei crimini e vivono una condizione, quella detentiva, oggettivamente difficile. Fragili ed esposti ad una forma di emarginazione e isolamento rappresentano una “facile preda” della propaganda jihadista.

A loro il jihadismo offre una redenzione totale. L’idea che viene trasmessa è quella del “se ti unisci alla nostra battaglia tutte le tue colpe verranno perdonate” e questa ha molta presa sulle persone che si trovano in una situazione di difficoltà.

Va detto che in Italia abbiamo una legislazione sul terrorismo che ci aiuta sulla questione dell’isolamento, a differenza di altri Paesi europei.

Inoltre, il fenomeno della radicalizzazione va controllato anche nel momento in cui queste persone usciranno dal carcere. Sono necessarie delle garanzie per evitare che una volta uscite, queste persone possano radicalizzarne altre.

L’altro tema che a mio avviso è importante sottolineare è che molto spesso si tende a fare confusione tra sconfitta dell’organizzazione e sconfitta dell’ideologia.

Il fatto che si parli ancora di IS è indicativo di una cosa, e cioè che a fronte di una sconfitta dell’organizzazione sul piano militare, l’ideologia persiste ancora. Per questo è importante combattere l’ideologia più che l’organizzazione.

E questo obiettivo può essere perseguito in diversi modi: demitizzarla attraverso le testimonianze di persone che hanno vissuto sotto lo Stato Islamico e che possano far capire, attraverso il racconto della propria esperienza, quale sia l’effettiva realtà. In secondo luogo, mettere in campo degli strumenti, come quelli dei social media, per portare avanti discorsi che puntino a contrastare quanto viene diffuso da IS, individuando i segnali della radicalizzazione e intervenendo per bloccarli.

EA: Se dovesse tracciare un quadro futuro evidenziando i principali cambiamenti dell’IS e il ruolo che giocherà in Europa, quali aspetti metterebbe in luce?

M. Colombo: Sottolineo che è ancora l’ideologia l’aspetto da analizzare con attenzione. Il ruolo che IS giocherà in Europa sarà quello di cercare di mostrare sempre più che, nonostante tutto, continua ad esistere. Anche se operativamente non sarà in grado di organizzare grossi attentati come ci auguriamo tutti, è possibile che proverà a pianificarne di meno complessi per dimostrare di rappresentare ancora la principale minaccia all’interno della galassia jihadista.

Le organizzazioni iniziano e finiscono ma i vari gruppi che si ispirano ad una certa ideologia possono resistere e questo a mio avviso potrebbe essere il futuro per una parte del mondo jihadista presente in Europa.

EA: Crede che bastino le vittorie militari dell’Occidente per cancellare lo Stato Islamico?

M. Colombo: La mia risposta è no. Il fatto che ci sia stata una sconfitta territoriale non significa che ci sia una scomparsa di Isis come organizzazione poiché molto spesso le idee sopravvivono alla concretezza storica. Basti pensare ai gruppi di estrema destra che si richiamano ad esperienze come il nazismo e il fascismo, la cui ideologia sopravvive nonostante la loro scomparsa risalga a sessanta, settant’anni fa. Molto spesso infatti, le ideologie sopravvivono e tendono a mitizzare un passato che in realtà è ben lontano dall’essere così idilliaco come viene descritto. Quindi bisogna essere consapevoli del fatto che l’ideologia permarrà e che ci sarà un richiamo sempre più forte allo Stato Islamico.

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