La minaccia terroristica jihadista nella penisola araba: il caso AQAP

AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) è una delle organizzazioni terroristiche legate al network di Al Qaeda più longeva e pericolosa, non solo in Medio Oriente. Questo approfondimento di Francecso Conti aiuta a conoscerne meglio storia e caratteristiche, anche in relazione al conflitto in Yemen

Il nuovo decennio non è iniziato positivamente per al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP): l’organizzazione terroristica ha infatti perso il proprio numero uno, Qasim al-Raymi, ucciso a fine gennaio da un drone strike della CIA.[1] Così come l’organizzazione centrale, dislocata nelle regioni tribali fra Afghanistan e Pakistan, anche il gruppo affiliato che opera in Yemen ha subito importanti perdite ad opera dei targeted killings statunitensi, in attuazione di una strategia antiterrorismo di “leadership decapitation”. A fine 2017 AQAP ha infatti dovuto fare i conti con la perdita di Ibrahim al-Asiri, considerato uno dei più grandi esperti di esplosivi della galassia jihadista. Nel 2015 un targeted killing aveva eliminato Ibrahim al-Rubaish, uno dei loro ideologi più influenti,[2] mentre nello stesso anno il già citato al-Raymi aveva rimpiazzato Nasir al-Wuahishi, anch’esso perito per mano di un drone americano. A succedere ufficialmente alla guida dell’organizzazione terroristica come emiro, è stato, nello scorso 23 febbraio, Khalid Saeed Batarfi, veterano di AQAP dalla sua fondazione. Anch’egli, come i suoi due predecessori, può vantare una carriera di lungo corso, avendo frequentato, alla fine degli anni novanta, il campo di addestramento jihadista di al-Farouq in Afghanistan (dal quale passarono diversi attentatori dell’undici settembre), dove poi partecipò, a fianco del regime dei talebani, ai combattimenti contro le truppe americane.[3] Così come al-Wuhayshi, anche Batarfi passò un periodo di detenzione in Iran dopo il ritiro dei qaedisti dall’Afghanistan a seguito dell’Operazione Enduring Freedom. Tale episodio della carriera di Batarfi non andrebbe sottovalutato poiché anche alti dirigenti del gruppo terroristico come Abu Muhammad al-Masri e Saif al-Adel sono stati imprigionati per diverso tempo nella Repubblica Islamica dell’Iran e Batarfi avrebbe potuto facilmente predisporre strategie d’azione con i due leader, nonostante la sorveglianza dell’intelligence iraniana.[4] Secondo il Dipartimento di Stato USA, al-Masri e al-Adel sarebbero stati rilasciati nel 2015, in cambio di un diplomatico iraniano rapito proprio in Yemen. Batarfi però, a differenza dei suoi due predecessori, non è nativo del paese, ma è bensì di cittadinanza saudita, anche se di origine yemenita. Tale punto potrebbe essere importante per il futuro dell’organizzazione terroristica in un paese dove le dinamiche tribali sono ancora importantissime, essendo la chiave per ottenere influenza politica.

L’organizzazione terroristica è lontana dai fasti del decennio scorso, quando era considerata dagli Stati Uniti come il branch di al-Qaeda più pericoloso al mondo. AQAP poteva vantare operazioni tali da far tremare le agenzie di antiterrorismo più preparate del globo: dagli attentati contro le compagnie aeree statunitensi (sia passeggeri che cargo) del natale 2009 e dell’ottobre 2010,[5] fortunatamente sventati ma che scossero l’apparato della sicurezza dell’amministrazione Obama; fino al tentato omicidio del principe saudita Mohammed bin Nayef, al tempo dell’attentato (novembre 2009) vice ministro dell’interno e responsabile generale dell’antiterrorismo saudita, per poco scampato ad un attentato suicida ad opera di Abdullah al Asiri, il fratello maggiore del già menzionato Ibrahim al Asiri. AQAP era considerata anche una destinazione attrattiva per aspiranti foreign fighters, nonché una fonte primaria di radicalizzazione, anche in Occidente, grazie a due principali fattori: il primo, la rivista online Inspire, famosa per i suoi articoli in lingua inglese dal linguaggio moderno e dalla grafica accattivante.[6] Come dice anche il nome, Inspire fu letteralmente fonte di ispirazione anche alle successive pubblicazioni ufficiali dello Stato Islamico, come Dabiq e Rumiyah, similmente rivolte ad un pubblico prettamente esterno (cioè al di fuori dei territori siro-iracheni controllati dal califfato durante il suo apice). Secondo fattore era la molto efficace propaganda online di Anwar al Awlaki, ex imam con passaporto americano divenuto poi guida spirituale del gruppo, non a caso apostrofato da molti come il “bin Laden dell’internet” per i suoi sermoni carichi di odio con cui esortava a colpire l’Occidente. Al-Awlaki perse la vita in un targeted killing statunitense nel giugno del 2011, dopo una lunga caccia all’uomo.[7] La morte di Anwar al-Awlaki, seppur perdita pesante per l’organizzazione terroristica, non ha comunque fatto cessare la minaccia di AQAP. Al-Awlaki ha infatti continuato ad ispirare jihadisti anche dopo la sua eliminazione; il suo nome è stato legato ad esempio all’attacco contro la redazione di Charlie Hebdo del gennaio 2015, rivendicato ufficialmente dall’organizzazione terroristica in Yemen. Inoltre, il più recente attentato dello scorso dicembre contro la base della marina militare americana di Pensacola, che ha causato la morte di tre militari sembra essere stato, come minimo, ispirato da AQAP (le indagini dell’FBI sono ancora in corso). Questi due ultimi attacchi, che a differenza dei precedenti attentati (sventati) contro l’Occidente hanno utilizzato armi da fuoco anziché esplosivi possono però essere visti anche come una prova della più recente debolezza di al-Qaeda nella Penisola Arabica a porsi come attore jihadista credibile ed efficace contro il “Nemico Lontano” (al-adou al-ba’eed).[8] La difficoltà nell’istituire campi di addestramento, bersagli facili per i droni americani, ha portato AQAP a puntare di più su attentati meno sofisticati che utilizzano armi da fuoco leggere. Addestrare un attentatore all’uso di esplosivi, dal più grande potere distruttivo, può richiedere anche settimane, tempo che un’organizzazione terroristica sotto lo spettro dei missili Hellfire statunitensi non si può permettere. A riprova di ciò, prima dell’inizio della campagna di targeted killings contro al-Qaeda nel teatro afghano-pakistano, futuri attentatori venivano addestrati nei vari aspetti del terrorismo per circa un mese, mentre negli anni più recenti tale periodo “formativo” si è drasticamente ridotto, con ovvie ricadute sull’efficacia operativa dei terroristi.[9] Mohammed Merah, l’autore degli attentati di Tolosa e Montauban del 2012, venne addestrato da al-Qaeda per soli due giorni; similmente, Faisal Shazad, l’attentatore di Times Square del 2010, solamente per cinque da parte dei Talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan). Il primo riuscì ad uccidere sette persone, ( il risultato avrebbe probabilmente potuto essere molto più grave se avesse usato ordigni esplosivi anziché armi da fuoco); il secondo, invece non riuscì nemmeno ad assemblare una bomba correttamente funzionante.[10] La stessa parabola calante dell’organizzazione terroristica è descritta anche dai dati della più recente versione del Global Terrorism Index. Infatti, nel 2018, le morti per attacchi terroristici in Yemen sono diminuite del 20% rispetto all’anno precedente, con un trend generale in calo consolidato da quattro anni.[11]

Anche dal punto di vista territoriale al-Qaeda nella Penisola Araba risulta ridimensionata rispetto al passato, quando poteva contare sul controllo della città di Mukalla e di altre località portuali, principalmente nel governatorato meridionale di Abyan. Nonostante la più debole presa sulla popolazione, che si traduce in minori introiti per l’organizzazione terroristica, AQAP rimane comunque attiva in diverse zone rurali dello Yemen meridionale e centro-orientale (le aree a maggioranza sunnite), secondo un report delle Nazioni Unite del luglio dello scorso anno.[12] Inoltre, dal novembre del 2014, l’organizzazione fedele ad Ayman al-Zawahiri, deve anche fare i conti con la concorrenza della provincia locale dello Stato Islamico (wilayat al-Yaman), che si è insediata soprattutto nella zona di al-Bayda’, ottenendo tuttavia un controllo geograficamente circoscritto.  L’organizzazione facente capo allo Stato Islamico aveva stabilito anche due campi di addestramento nella provincia; ma, come spiegato in precedenza, essi sono bersagli facili per una potenza come l’America, che li ha infatti distrutti nell’ottobre 2017. L’intransigente applicazione della shari’a e le più brutali politiche locali dello Stato Islamico rendono anche più difficile ottenere il consenso locale, a differenza di AQAP, che sembra aver capito da diverso tempo l’importanza di tale fattore. Sebbene l’organizzazione terroristica facente capo all’autoproclamato Califfo sia vis-à-vis più debole di Al-Qaeda nella Penisola Arabica, successi militari e/o conquiste territoriali degli Houti potrebbero però giocare più a favore dello Stato Islamico, che ha sempre puntato sulla violenza jihadista in chiave settaria. In questo caso, infatti, la sua provincia locale potrebbe ottenere nuove reclute da cittadini yemeniti disillusi dalla lotta ai ribelli Houti, dipinti come apostati (murtaddin).[13] Nello specifico, la maggioranza di essi sono di confessione zaidita, una branca dello sciismo, anche se con diverse similitudini con la giurisprudenza sunnita (di scuola shafi’ita). Altro fattore settario è legato alle ostilità alle ingerenze (sia reali che presunte) della Repubblica Islamica dell’Iran nel paese. La provincia locale dello Stato Islamico rimane comunque, allo stato attuale, più debole di AQAP anche sul piano operativo/militare. Quest’ultima dispone infatti anche di armi pesanti, incluse piattaforme lanciarazzi multiple montate su autocarri (come il sovietico Grad-21), lanciamissili anticarro e anti terra-aria,[14] questi ultimi potenzialmente utilizzabili per compiere attentati contro l’aviazione civile, soprattutto in fase di atterraggio o decollo (nel 2002 al-Qaeda tentò di abbattere un aereo di linea israeliano in Kenya con un lanciamissili antiaereo SA-7, lo stesso nelle disponibilità di AQAP).

Lo Yemen ha un problema endemico con il jihadismo ben prima della comparsa sulla scena di al Qaeda nella Penisola Arabica nel 2009. Un nutrito contingente di combattenti partì infatti dal paese negli anni ottanta per partecipare al jihad contro l’Unione Sovietica in Afghanistan. Inoltre, jihadisti di ritorno dal fronte afgano parteciparono anche alla guerra civile del 1994 fra la Repubblica dello Yemen e la Repubblica Democratica dello Yemen, a fianco della prima e contro la seconda, di ideologia socialista-comunista. La precedente incarnazione della Repubblica Democratica, la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen era stata infatti supportata dall’URSS, il primo grande nemico del mondo jihadista. Un atteggiamento ambiguo del governo nei confronti dei jihadisti sembrerebbe infatti una costante dello scenario yemenita e nello specifico della lunga presidenza di Ali Abdullah Saleh (dimessosi nel 2012 e ucciso durante uno scontro armato nella capitale nel dicembre 2017), in cui si sarebbero alternati atteggiamenti repressivi a periodi di relativa tolleranza.[15] 

Il paese saltò alla ribalta dell’attenzione internazionale, e soprattutto dell’antiterrorismo americano, con l’attacco suicida al cacciatorpediniere USS Cole della US Navy dell’ottobre 2000, che uccise diciassette marinai. Ben otto anni prima di tale attentato, lo Yemen fu anche teatro di un episodio “storico”: il primo attacco di al-Qaeda contro gli Stati Uniti d’America, quando l’organizzazione prese di mira (in questo caso senza successo) militari americani di stanza nel paese,[16] facenti parte dell’operazione Restore Hope, la missione ONU a guida statunitense che aveva lo scopo di stabilizzare la Somalia, in preda al caos politico e al disastro umanitario.

L’importanza dello Yemen sullo scacchiere dell’antiterrorismo, e quindi della pericolosità di AQAP, venne anche corroborata dal fatto che la prima operazione cinetica approvata dalla presidenza Trump fu proprio nel teatro yemenita, con un raid nel villaggio di Yakla nel gennaio 2017. In quel caso il target della missione, l’emiro Qasim al-Raymi, riuscì a sfuggire agli operatori del Joint Special Operations Command, vera e propria punta di diamante delle operazioni antiterrorismo delle forze armate americane. Inoltre, secondo i dati del Long War Journal, nel primo anno di presidenza Trump vi furono ben 125 attacchi aerei USA nel teatro yemenita, mentre negli otto anni della presidenza Obama erano stati complessivamente 174, con un picco nel 2016, dove ne vennero registrati 44. Solamente una piccola minoranza degli attacchi ha colpito le unità locali dello Stato Islamico, essendo stati attuati in funzione prettamente anti-AQAP.[17] Si calcola, infatti, che la campagna area statunitense abbia causato ingenti perdite all’organizzazione terroristica, stimate in più di mille militanti uccisi dal 2009 al 2017.

L’attuale difficile situazione politica del paese, in preda alla guerra civile, potrebbe però favorire l’organizzazione terroristica, soprattutto sul profilo del reclutamento. Gli attacchi militari potrebbero facilmente provocare voglia di rivalsa e senso di vendetta, arrivando fino a generare nuove potenziali reclute per AQAP, che potrebbe facilmente promettere di colmare tali desideri, dando ai giovani yemeniti un kalashnikov ed uno stipendio. Dal punto di vista dell’antiterrorismo, invece, la guerra civile sembrerebbe essere ancora di ostacolo agli Stati Uniti, in quanto impedisce loro di porre in essere una strategia di contrasto al jihadismo sul medio-lungo periodo, che vada quindi al di là di mere operazioni cinetiche. Data la fragilità del paese dal punto di vista securitario è anche difficile il rimpatrio dei detenuti yemeniti che restano a Guantanamo, fra cui vi è pure Ali al-Raymi, il fratello dell’ex emiro di AQAP.[18] Il centro di detenzione, infatti, subordina il ritorno dei jihadisti in Yemen alla stabilizzazione politica del paese o, almeno, all’esistenza di un solido programma di deradicalizzazione. Alternativamente, alcuni di essi sono stati rimpatriati in paesi terzi (come Emirati Arabi Uniti e Oman), ma tale situazione sembra più un ripiego a breve termine; anzi, potrebbe pure avere risvolti dannosi nel lungo periodo, potendo causare disagio sociale e anche provocare risentimento nei jihadisti yemeniti, alimentandone la probabilità di recidivismo.[19] Invece, il programma di deradicalizzazione yemenita non è più in funzione da diversi anni, essendo stato smantellato per i scarsi risultati ottenuti. Oltre che sul piano strategico, già menzionato, dal punto di vista tattico-operativo la frammentazione politica e la violenta guerra civile rendono anche più ostica la raccolta di intelligence in materia di antiterrorismo, fattore che può facilmente pregiudicare la riuscita delle operazioni contro al-Qaeda nella Penisola Arabica, similmente a quanto è accaduto a Yakla nel gennaio del 2017. In aggiunta, la guerra civile rende molto difficile anche la lotta al contrabbando, ulteriore importante problematica del paese. Secondo multipli rapporti delle Nazioni Unite, imbarcazioni yemenite vengono perfino utilizzate per trasportare armi ed equipaggiamenti, inclusi componenti per fabbricare ordigni esplosivi improvvisati, al gruppo terroristico somalo al-Shabaab,[20] altro affiliato di al-Qaeda e anch’esso in controllo di porti che si affacciano sull’Oceano Indiano. Inoltre, AQAP utilizza poi i proventi del contrabbando per finanziare opere pubbliche (che vanno dalla semplice manutenzione di strade ed edifici fino a lavori sulla rete fognaria ed elettrica ed alla costruzione di pozzi) ed ottenere consenso popolare.[21] Nel frattempo, il paese, in cima alla classifica 2019 del Fragile State Index per le sue criticità legate alla guerra civile, alla carestia e all’epidemia di colera, ha ora anche a che fare con l’emergenza legata al coronavirus.[22] I primi casi yemeniti si sono verificati nel governorato di Hadramawt, dove è più forte la presenza di al-Qaeda nella Penisola Arabica, sempre pronta ad approfittare di vuoti di potere e caos sociale per avanzare la propria causa. Infatti, secondo un comunicato pubblicato dalla leadership centrale di al-Qaeda a fine marzo, questo sarebbe il momento giusto per “chiamare la gente alla jihad sul sentiero di Allah (jihad fi sabil Allah) e alla rivolta contro l’oppressione e gli oppressori (zaalimun)”[23]

Francesco Conti


[1]Qasim al-Raymi”, Global Extremism Project”, disponibile su https://www.counterextremism.com/extremists/qasim-al-raymi

[2] Grossman Nicholas, “Drones and Terrorism: Asymmetric Warfare and the Threat to Global Security”, I.B. Tauris, 2018, p. 83

[3] Department of State – Reward for Justice, “Khalid Saeed al-Batarfi”, disponibile su https://rewardsforjustice.net/english/khalid_al_batarfi.html

[4] Soufan Ali, “Next in Line to Lead al-Qa`ida: A Profile of Abu Muhammad al-Masri”, CTC Sentinel, Novembre 2019, p. 6

[5] Sageman Marc, “Misunderstanding Terrorism”, University of Pennsylvania Press, 2017, p. 45

[6] Byman Daniel, “Al Qaeda, The Islamic State, And the Global Jihadist Movement: What Everyone Needs to Know”, Oxford University Press, 2015, p. 143

[7] L’uccisione di Anwar al-Awlaki tramite un drone strike generò un profondo dibattito in seno alla società statunitense, fra coloro che consideravano incostituzionale privare della vita un cittadino americano senza previo processo e coloro che invece vedevano la sicurezza nazionale come priorità assoluta. Invero, Anwar al-Awlaki non è stato il primo cittadino statunitense ad essere ucciso da un targeted killing: nel 2002, sempre in Yemen, venne eliminato Abu Ali al-Arithi, considerato uno dei responsabili dell’attentato alla USS Cole.

[8] Gerges Fawaz A., “The Far Enemy: Why Jihad Went Global”, Cambridge University Press, 2005, p. 21

[9] Jordan Javier, “The Effectiveness of the Drone Campaign against Al Qaeda Central: A Case Study”, Journal of Strategic Studies, 37:1, 2014, p. 21

[10] Ibid, p. 22

[11] Institute for Economics & Peace, “Global Terrorism Index 2019: Measuring the Impact of Terrorism”, novembre 2019, p. 26

[12] United Nations Security Council, S/2019/570, 15 luglio 2019, p. 8

[13] Kendall Elizabeth, “The Failing Islamic State Within The Failed State of Yemen”, Perspectives on Terrorism, vol.13, issue 1, 2019, p. 78

[14] United Nations Security Council, S/2018/705, 27 luglio 2018, p. 10

[15] Virginie Collombier & Roy Oliver (ed.), “Tribes and Global Jihadism”, Oxford University Press, 2017, p. 110-111

[16] Byman Daniel, “Yemen’s Disastrous War”, Survival, 60:5, 2018, p. 144

[17] Long War Journal, “US airstrikes in the Long War”, disponibile su https://www.longwarjournal.org/us-airstrikes-in-the-long-war

[18] Johnsen Gregory D. & Boucek Christopher, “The Dilemma of the Yemeni Detainees at Guantanamo Bay”, CTC Sentinel, gennaio 2010, p. 27

[19] Berger Charles E., “Countering Terrorism: An Institution-Building Approach for Yemen”, Council on Foreign Relations, 19 febbraio 2014, p. 1

[20] United Nations Security Council, S/2014/726, 13 ottobre 2014, p. 259; United Nations Security Council, S/2018/1002, 9 novembre 2018, p. 19

[21] Kendall Elizabeth, “Contemporary Jihadi Militancy in Yemen: How is the Threat Evolving?”, Middle East Institute, luglio 2018, p. 8

[22] Debanne Maurizio, “Yemen. Primo caso di Covid-19. MSF chiede l’ingresso urgente di forniture mediche e personale per rispondere all’epidemia”, Notizie Geopolitiche, 10 aprile 2020, disponibile su https://www.notiziegeopolitiche.net/yemen-primo-caso-di-covid-19-msf-chiede-lingresso-urgente-di-forniture-mediche-e-personale-per-rispondere-allepidemia/

[23] Al-Qa’idah Central Command, “The Way Forward: A Word of Advice on the Coronavirus Pandemic”, marzo 2020, p. 3


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