Le sfide del nuovo governo israeliano

Quali sono le principali sfide strategiche all’orizzonte del nuovo governo di unità nazionale israeliano.

In questi giorni il “blocco del cambiamento” ha debuttato a livello governativo, dopo un lungo e complesso processo politico innescato dalle ultime elezioni in cui Netanyahu si è visto progressivamente sfilare la sedia da sotto.

Tale blocco, e il governo nascente, è capeggiato da Bennett, politico poco noto all’estero ma molto noto in patria per aver lungamente militato in varie formazioni a destra del Likud ed essere poi uscito dal governo in dissidio con Netanyahu, contro il quale ha guidato tutta la campagna elettorale 2021, fino a raccogliere una vasta coalizione  che mette insieme un gruppo di partiti che va dall’estrema destra alla sinistra e pezzi del mondo arabo. Sarà in grado questa variopinta coalizione di portare avanti una politica coerente e, soprattutto, proficua per il paese?

Esistono una serie di questioni in cui Israele ha espresso posizioni non negoziabili, legate sostanzialmente alla propria sicurezza, di cui la più importante  è la non disponibilità israeliana a permettere lo sviluppo di armi nucleari da parte dell’Iran: in questo, i governi presieduti da Netanyahu erano del tutto lineari, risoluti ed espliciti: esiste una linea rossa, oltre la quale sarebbero scattati i raid diretti alla distruzione dei siti nucleari iraniani.

Tale impostazione era tuttavia confacente ad una situazione internazionale e del rapporto con gli Stati Uniti, a sua volta molto più lineare: se gli accordi JCPOA con l’Iran erano comunque insufficienti, comunque potevano costituire una base da cui ripartire. Il “reset” introdotto da Trump azzerava tutto questo lasciando sostanzialmente le mani libere all’Iran e poco ha cambiato la situazione strategica, se non in peggio, l’appoggio statunitense alle politiche israeliane, pressoché incondizionato in quel periodo a partire dallo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme fino all’elaborazione di piani di pace pesantemente disuguali. Secondo molti commentatori, tale atteggiamento rispondeva molto semplicemente a questioni di consenso interno del presidente americano; a questo proposito è lecito sospettare che si trattasse di tirare la corda per poi tendere la mano, in altri termini recitare la parte nei confronti del mondo arabo e musulmano del poliziotto cattivo per poi entrare in quella del poliziotto buono, in cui tra l’altro il vecchio uomo d’affari è sempre stato particolarmente abile ed anzi lo ha apertamente teorizzato nel suo libro. 

C’è da dire tuttavia che l’amministrazione Trump ha semplicemente portato all’estremo un modo di interpretare il ruolo che ha sempre connotato le amministrazioni americane, in cui l’esibizione dei muscoli è sempre stato un preliminare ed indispensabile corollario dell’azione politica e diplomatica. 

Situazione lineare, si diceva: rinuncia all’accordo con l’Iran e parallelo appoggio ad Israele, in attesa del secondo tempo del film, che però non è mai arrivato ed ora i protagonisti della vicenda si trovano in un teatro di gran lunga più complesso ed insidioso, con i ruoli tutti da ricostruire e senza una sceneggiatura di supporto a parte l’ovvia, e blanda, constatazione che l’”ostacolo” Netanyahu, ed i suoi cattivi rapporti con Joe Biden dei tempi dell’Amministrazione Obama, è stato accantonato. Ma non può essere certo questa una base politica.

I dossier sul tappeto sono tanti e tali ed è sostanzialmente inutile enumerarli, in quanto tutti dipendono da poche chiare domande a cui il governo israeliano e l’amministrazione Biden dovranno fornire una risposta: quale potrebbe essere la base diplomatica da cui ripartire con le trattative con l’Iran, che per inciso è anche un Iran molto più vicino ai suoi obiettivi nucleari, molto più vicino alla sponda del Mediterraneo tramite la sua estensione Hezbollah e molto piò vicino alla Cina tramite un accordo economico – omnibus di cui non si conoscono i contenuti se non in termini generici, ma che sembrerebbe avere anche contenuti nucleari? Cosa succederà se e quando l’Iran dovesse oltrepassare quella “linea rossa” a suo tempo tracciata da Netanyahu? L’amministrazione Biden sarà in grado di evitare di cadere nelle sue stesse, per il momento potenziali, contraddizioni dal momento che non vuole recedere dalle concessioni fatte ad Israele dall’Amministrazione Trump, ma  vuole parallelamente rilanciare l’assistenza ai palestinesi?

In questo coacervo di input politici e strategici contrapposti la palla è senza dubbio nelle mani del costituendo governo israeliano: perché solo questo è in grado di dare input politici in termini di sviluppo degli accordi di Abramo, questione palestinese, annosa questione del ruolo di Hamas e soprattutto questione iraniana.

Sarà in grado il governo che si sta costituendo di dare risposte efficaci e che siano in grado di influenzare alleati e non senza farsi scavalcare dagli eventi a favore di altri registi? Netanyahu ha già tuonato contro il nuovo governo, e per farlo ha usato l’argomento  della sicurezza:  non a caso, dato che tutti i succitati temi ne sono legati e non a caso dato che è proprio sulla sicurezza internazionale, aggrovigliata nel ginepraio e nelle incertezze che abbiamo segnalato, che Israele rischia seriamente di vedersi scivolare il mazzo dalle mani. 

Sarah Ibrahimi Zijno


Immagini tratte da Pixabay.com

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