Iraq: crescono le tensioni e i rischi di crisi

La strategia di al-Sadr, le tensioni in aumento nel paese, le ingerenze dei paesi stranieri. Tutti i rischi dell’instabilità in Iraq.

Dalle elezioni legislative dell’ottobre 2021, l’Iraq vive una fase di incertezza politica e perdurante vacuum istituzionale: a quasi un anno da quelle elezioni, infatti, le forze partitiche irachene non sono state in grado di accordarsi per arrivare alla nomina delle principali figure di riferimento del Paese, il Presidente e il Primo Ministro. All’instabilità politica si aggiunge un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita della popolazione: già provata da una grave crisi economico-sociale, la popolazione irachena subisce le conseguenze locali dell’incapacità, che si aggrava in ogni periodo estivo, di fornire i servizi di base, in particolare acqua ed elettricità, nonché quelle globali derivanti dalla pandemia Covid-19 e dalla crisi Ucraina-Russia.

Alle elezioni del 2021 è emerso vincitore il partito del leader sciita Moqtada al-Sadr che, con il suo Movimento sadrista, ha guadagnato 73 seggi dei 329 di cui si compone il Parlamento iracheno. Tuttavia, né il risultato del solo blocco sadrista, né la formazione, nel marzo del 2022, della coalizione Saving the Homeland Alliance (SHA), tra i sadristi, il Kurdistan Democratic Party (KDP) di Massoud Barzani, e la Sunni Sovereignty Alliance (nota anche come al-Siyada Alliance) guidata da Mohammad al-Halbousi e Khamis al-Khanjar, sono serviti a garantire la formazione del nuovo esecutivo e la nomina del Presidente. Il complesso sistema iracheno, noto come muhasasa (محاصصة, “ripartizione” o “quote”) prevede, infatti, un meccanismo di condivisione del potere su base etno-confessionale tra i diversi e principali gruppi che compongono la popolazione irachena, cioè sciiti, sunniti e curdi; proprio tale meccanismo, sebbene tuteli le diverse componenti del Paese, evitando che una di loro possa concentrare il potere nelle proprie mani, costringe tutte le forze partitiche a compromessi e rinunce, pena l’ingovernabilità e/o il vuoto istituzionale. E infatti nei mesi successivi alle elezioni di ottobre 2021, le forze sadriste prima e quelle della coalizione SHA poi, non sono riuscite a raggiungere un accordo valido per la gestione del potere con le forze di opposizione, integrate nel Coordination Framework (CF). Quest’ultimo comprende forze sciite tendenzialmente vicine all’Iran, ma soprattutto anti-sadriste, tra cui in particolare la coalizione State of Law dell’ex Primo Ministro, Nuri al-Maliki, e la Fatah Alliance, braccio politico del gruppo paramilitare Hashed al-Shaabi, guidata da Hadi al-Amiri.

La crisi politica si è acuita il 12 giugno 2022, quando i 73 parlamentari del Movimento sadrista, su richiesta del loro stesso leader, hanno dato le dimissioni in segno di protesta contro l’inerzia politica e nel tentativo dichiarato di sbloccare la situazione di stallo creatasi. Così facendo, la composizione del parlamento iracheno ha visto una totale inversione, poiché a seguito delle dimissioni dei sadristi il CF ha ottenuto 64 seggi in più, raggiungendo la maggioranza parlamentare relativa, pari a 122. La mossa giocata da al-Sadr il 12 giugno è stata probabilmente pensata con l’obiettivo di costringere il CF a confrontarsi con il dilemma, a tratti irrisolvibile, di detenere ora la maggioranza del parlamento senza però avere la legittimità derivante dalle urne, la quale resta invece in mano al Movimento sadrista; al contempo, la decisione rimette in capo al CF la responsabilità, davanti all’opinione pubblica, di trovare una soluzione alla situazione di stallo creatasi. Una simile strategia politica, oltre a mettere in difficoltà il CF, risponde contestualmente all’esigenza di al-Sadr di giocare la partita anche dai banchi della “opposizione”, pur avendo ottenuto la maggioranza alle elezioni del 2021. Il leader sciita iracheno, infatti, pur consapevole di essere diventato una pedina fondamentale degli equilibri partitici iracheni e pur mirando, probabilmente, a una leadership politica assoluta nel Paese (che le elezioni del 2021 non hanno garantito, nonostante il risultato migliore rispetto alle precedenti elezioni del 2018), non può dimenticare che gran parte del suo potere deriva dal supporto delle piazze. Come emerso anche da altre esperienze nazionali (si pensi ad esempio alla parziale perdita di consensi dell’Hezbollah libanese o alla sorte di Ennahda in Tunisia), il supporto derivante dalle piazze potrebbe venire meno in seguito ad aumenti della criminalizzazione da parte della stessa popolazione nei confronti di quei movimenti che, pur essendo nati con una forte vocazione popolare, si trovano poi imbrigliati nelle dinamiche del potere non riuscendo tuttavia a governarle e anzi lasciando che siano esse a governare le sorti del partito. In questo senso, dunque, soprattutto in caso di perdurante e prolungato stallo politico, il movimento sadrista sarebbe potuto progressivamente diventare oggetto di recriminazioni da parte delle piazze e bersaglio diretto del malcontento popolare dovuto al protrarsi della crisi. Con la decisione di ritirare i propri parlamentari, al-Sadr potrebbe pertanto riuscire nell’intento di beneficiare sia del potere della “maggioranza”, in ragione dell’autorevolezza guadagnata tramite le urne con la quale può condizionare le dinamiche irachene a prescindere dalla presenza del suo blocco in parlamento, sia di quello della “opposizione”, derivante dal suo essere fuoriuscito de facto dalle dinamiche parlamentari irachene. Del resto, tale atteggiamento non fa altro che seguire una impostazione strategica già emersa in passato: al-Sadr non ha mai cercato posizioni ufficiali nel sistema statale iracheno per sé stesso, e anche i suoi uomini più fedeli non sono mai stati messi in posizioni eccessivamente esposte nei confronti dell’opinione pubblica. La stessa decisione di ritirarsi ha poi rafforzato, trasversalmente e dunque non solo all’interno della comunità sciita sadrista, l’immagine di al-Sadr poiché ha dato lui modo di apparire come un attore disinteressato ai benefici della leadership; contestualmente ha poi indebolito quella degli altri attori politici che, al contrario di al-Sadr, appaiono sempre più indissolubilmente legati alle proprie posizioni di potere e che si trovano ora a dover affrontare l’arduo compito di portare l’Iraq fuori dall’impasse senza averne, tuttavia, la forza politica.

Questa delicata strategia politica, ovviamente, si basa in larga parte sull’utilizzo dell’arma più potente che al-Sadr ha in mano e che è riuscito abilmente a sfruttare in diverse occasioni nel recente passato: il sostegno popolare. La potenza di tale arma è emersa il 15 luglio quando, senza parteciparvi di persona, il leader sciita è riuscito a mobilitare centinaia di migliaia di iracheni a Baghdad per una preghiera collettiva. Al-Sadr, del resto, riesce a mobilitare seguaci anche fuori dalle maglie del solo movimento sadrista, ciò sia perché il movimento ha un’esperienza di mobilitazione acquisita negli ultimi dieci anni estremamente importante, sia in ragione del fatto che il movimento ha una diffusione capillare nel Paese e ciò consente non solo una organizzazione migliore rispetto ad altri movimenti ma anche una conoscenza più profonda del territorio, delle esigenze e degli umori della popolazione. Invitando la popolazione a scendere in piazza per la preghiera, al-Sadr ha ricordato al CF, a Teheran ma anche a Washington (la linea politica disegnata da al-Sadr, infatti, sembra voler prendere le distanze dall’Iran tanto quando dal blocco occidentale), che anche se il suo movimento non siede più in Parlamento, è ancora oggi la sola forza capace di mobilitare le piazze e di godere della fiducia e del sostegno del popolo. Proprio tornando al concetto di “autorevolezza”, la mobilitazione per la preghiera del 15 luglio è diventata un messaggio, inviato a tutti gli attori interni, inteso a ricordare che nessun governo iracheno potrà vedere la luce senza tener conto delle esigenze e delle posizioni del movimento sadrista.

Ottenuta la maggioranza in seguito alle dimissioni dei deputati sadristi, il CF ha avviato il processo per l’elezione del Presidente e la nomina del Primo Ministro, tramite consultazione con le altre forze partitiche ma compiendo anche presunti atti di pressione sulle forze non sadriste della SHA. Proprio il leader sciita al-Sadr, infatti, ha denunciato nei giorni successivi alle dimissioni dei suoi parlamentari, crescenti pressioni sul KDP e sulla al-Siyada Alliance per la formazione di un nuovo governo definito dal CF “services government”. Alle difficoltà di gestione del rapporto tra il CF e le altre forze partitiche irachene, si aggiungono potenziali difficoltà provocate da presunti disaccordi all’interno dei ranghi del CF sulla strada da seguire nel breve periodo. Da un lato, sembra infatti esservi una fazione più “diplomatica”, propensa cioè a non sfidare il blocco sadrista con atti di forza o decisioni ricattatorie; dall’altro, invece, vi sarebbe una fazione maggiormente intransigente e integralista che potrebbe propendere finanche per uno scontro aperto con la fazione sadrista. Ovviamente l’impostazione del CF in larga parte dipenderà dal posizionamento e dalle decisioni strategiche di Teheran, la quale sembra, al momento, propendere per il compromesso. L’Iran si trova, infatti, davanti a un evidente dilemma politico: un governo formato escludendo i sadristi provocherebbe molto probabilmente una nuova ondata di proteste, probabilmente anche più violenta e ampia di quella del 2019-2020 e potenzialmente anche una escalation delle violenze armate; viceversa, un governo a maggioranza sadrista non darebbe le garanzie di potere e controllo necessarie a Teheran e ai suoi proxy iracheni. L’esigenza e la volontà di giungere a un compromesso da parte della Repubblica Islamica d’Iran sembrerebbe essere stato confermato da alcune notizie, diffuse prima delle dimissioni del 12 giugno, secondo le quali l’Iran avrebbe illo tempore accettato la proposta di un governo a maggioranza sadrista, chiedendo tuttavia in cambio garanzie rispetto allo smantellamento delle Popular Mobilization Forces (PMF) e alla tutela di figure come quella dell’ex Primo Ministro Nuri al-Maliki. Deve infatti precisarsi che, sebbene al-Sadr non sia certamente il partner iracheno preferito da Teheran e per quanto dal 2018 i rapporti siano stati sempre più tesi, la relazione tra al-Sadr e il regime iraniano è molto più fluida e soprattutto pragmatica di quello che spesso si tende a credere. Una delle principali esigenze di Teheran, infatti, è che il fronte dei partiti sciiti in Iraq rimanga unito e che il Paese non finisca nel baratro del caos; ragioni, queste, per cui il compromesso, soprattutto con al-Sadr, in quanto protagonista indiscusso della vita irachena, potrebbe essere ragionevolmente la migliore carta da giocare in mano a Teheran.

Un nuovo segnale a favore dell’adozione di una strategia da parte di Teheran maggiormente propensa al compromesso sarebbe derivato anche dalla decisione del CF di presentare come nuovo Primo Ministro Muhammad Shiaa al-Sudani anziché al-Maliki; proprio quest’ultimo, infatti, risulta essere ormai da un decennio il principale avversario di al-Sadr. Il leader sciita ha comunque immediatamente rifiutato la nomina di al-Sudani sostenendo che quest’ultimo altro non sarebbe che un premier di facciata e una pedina nelle mani proprio di al-Maliki. La nomina di al-Sudani, avvenuta tra le altre cose pochi giorni dopo che una fuga di notizie aveva fatto trapelare la presunta volontà di al-Maliki di assassinare al-Sadr, ha scatenato un violento moto di insorgenza da parte dei sadristi; questi ultimi hanno assaltato per ben due volte in pochi giorni, il 27 e il 30 luglio, il Council of Representatives (il Parlamento iracheno), innalzando le foto del loro leader, al-Sadr, e di suo padre, l’Ayatollah Mohammad Sadeq al-Sadr, ucciso nel 1999 sotto il regime di Saddam Hussein, e invocando un cambiamento dell’intero sistema politico iracheno. Dopo la preghiera del 15 luglio, gli eventi di fine luglio nella Green Zone hanno evidenziato quanto sia forte il potere di mobilitazione delle masse di cui gode al-Sadr e hanno confermato, almeno in parte, l’efficacia della strategia comunicativa seguita dal leader sciita con le dimissioni dei suoi parlamentari. Esattamente come immaginato, infatti, al-Sadr non ha avuto bisogno di grandi atti politici per dimostrare la propria “autorevolezza”; le piazze hanno evidenziato per lui quale sia il potere di cui gode in Iraq e quanto non sia in alcun modo immaginabile procedere alla formazione di un governo senza il nulla osta politico di al-Sadr.

I fatti del 27 e del 30 luglio hanno anche evidenziato, però, il concreto rischio di un aumento delle tensioni all’interno della comunità sciita irachena. Il 1° agosto, infatti, il CF, in risposta ai fatti di fine luglio, ha chiesto contro-proteste da parte dei suoi sostenitori, facendo temere escalation incontrollate delle violenze tra le due fazioni sciite e finanche una guerra civile intra-sciita. La situazione è soltanto parzialmente rientrata, nelle settimane successive, soprattutto grazie alle diverse richieste di descalation inoltrate da molti degli attori politici iracheni. I principali leader del Paese si sono dunque radunati, subito dopo i fatti di fine luglio, intorno alla proposta dell’attuale Primo Ministro uscente, Mustafa al-Kadhimi, di dare il via a un dialogo nazionale affinché si possano ridurre le tensioni e si possa delineare un percorso per uscire dall’impasse politica. Questo dialogo, tuttavia, resta preda non solo delle difficoltà di raggiungere una posizione condivisa, ma anche dei possibili sviluppi violenti che potrebbero verosimilmente ripetersi sempre più frequentemente e portare ad escalation anche improvvise. La tensione esistente tra le diverse anime della società irachena e tra i partiti e movimenti che la rappresentano è emersa emblematicamente a fine agosto 2022, quando a Baghdad e in diverse città del sud (Bassora, Nassiriyah e al-Diwaniyah; l’area meridionale irachena, a maggioranza sciita, è anche il centro della produzione petrolifera del paese. Tramite un aumento dei disordini nel sud, dunque, i sadristi potrebbero voler dimostrare la loro reale capacità di incidere sull’economica irachena) si sono registrati ampi e violenti scontri tra le milizie sciite vicine all’Iran e quelle sadriste, riproponendo ancora una volta il pericolo che l’impasse politico in corso possa sfociare in un vero e proprio confitto intra-sciita e far sprofondare nuovamente l’Iraq nel conflitto civile.

Sebbene sia difficile al momento immaginare quale direzione possano prendere gli eventi politici in Iraq, è evidente che l’attuale stallo politico abbia messo in luce le fragilità del sistema politico iracheno disegnato nel post-2003. Al momento, lo scenario forse più credibile potrebbe essere la permanenza al potere del governo di al-Kadhimi fino a prossime elezioni anticipate; su tale decisione di principio sembrano, del resto, convergere gran parte delle forze partitiche irachene, sebbene contrasti, anche gravi, permangano sui meccanismi che dovranno guidare questa nuova eventuale tornate elettorale (e in realtà anche sullo stesso governo che dovrà gestire le elezioni anticipate). Nuove elezioni, tuttavia, soprattutto se svolte con la medesima legge elettorale in vigore, introdurrebbero poche novità rispetto allo scenario attuale, salvo l’ipotesi in cui il movimento sadrista riuscisse a ottenere la maggioranza dei 2/3 del parlamento o quantomeno quella assoluta. In seguito a una seconda tornata elettorale con una maggioranza relativa ma senza la maggioranza assoluta e quella per il quorum dei 2/3 necessario per l’elezione del Presidente, del resto, al-Sadr vedrebbe ridursi ancor di più i margini di manovra politica, mentre contestualmente si rafforzerebbe il suo dilemma strategico: finirebbe cioè per essere bloccato tra l’impossibilità di avere un governo di maggioranza che possa scardinare i presupposti del concetto di muhasasa e quella di ritornare, dopo aver provato a ribaltarlo, al concetto di un governo di consenso. Se già negli ultimi anni una larga fetta della popolazione irachena è scesa in piazza chiedendo l’abolizione del sistema delle quote, la formazione di un governo di consenso è diventata un vero e proprio tabù proprio in ragione della strategia seguita da al-Sadr negli ultimi mesi e della sua totale opposizione a ogni forma di governo condiviso. Questa dicotomia tra l’istituzione e il volere delle piazze potrebbe progressivamente portare a una ulteriore crescita della tensione politico-sociale: se molti dei manifestanti scesi in piazza anche al fianco del movimento sciita intendono rovesciare l’intero sistema politico iracheno, l’obiettivo dei sadristi appare essere più quello di monopolizzare le istituzioni irachene, limitando il potere dei rivali politici, piuttosto che di riformare l’intero apparato iracheno e i suoi meccanismi corruttivi. Proprio l’emergere di questa dicotomia tra le diverse anime della società e tra i molteplici e contrapposti obiettivi sociali potrebbe diventare la principale sfida per al-Sadr, il quale, dopo aver scatenato le piazze, potrebbe finire per diventarne esso stesso vittima. Se dunque al momento al-Sadr non sembra aver commesso alcun errore di giudizio nella valutazione del supporto di cui gode tra la popolazione, è pur vero che qualora le piazze dovessero diventare più impazienti di risultati concreti, le soluzioni strategiche nelle mani di al-Sadr potrebbero ridursi a una sola alternativa, cioè riprendere le armi gettando nuovamente il Paese nel caos. Per quanto nessuno degli attori sembri al momento interessato a uno scontro armato aperto, soprattutto in ragione della sostanziale parità di forze che non consente di identificare una parte potenzialmente vincitrice, l’ipotesti di una escalation armata potrebbe verosimilmente diventare l’unica via percorribile per non perdere legittimità e autorità acquisite; tale possibilità resta poi tanto più concreta se si considera la presenza in Iraq di numerose milizie armate e di tradizionali dissidi tra le diverse anime confessionali, nonché all’interno delle medesime confessioni.

A. Roberta La Fortezza


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