L’oceano e il mare/2

L’investimento delle forze integrate nel Mediterraneo vede l’Italia impegnata ben oltre la collocazione geografica del Paese, con lo sviluppo di una politica a tutto campo verso il confronto bipolare.

Il rapporto del Consiglio Atlantico sui compiti futuri dell’alleanza, presentato nel 1967 dal ministro degli Esteri belga Pierre Harmel, aprì un inedito processo di trasformazione della NATO.  Proprio nei suoi risvolti militari, il rapporto esaminò le “exposed areas” cruciali per la NATO, e la prima fra queste era il Mediterraneo. Effettivamente una rinnovata assertività sovietica stava spostando ingenti forze del Mar Nero oltre gli Stretti: da 1964 al 1970 il transito del naviglio sovietico triplicò, e dal 1965 la Flotta del Mar Nero schierò la sua Quinta “Eskadra” nel Mediterraneo, chiamata SOVMEDRON (Soviet Mediterranean Squadron) dalla NATO. Essa doveva bilanciare il potere della Sesta Flotta statunitense, tentando di orientare secondo gli schemi della guerra fredda i conflitti esistenti fra i Paesi rivieraschi come parte della strategia da anni avviata di costruzione di un campo “antimperialista” dei paesi extraeuropei. Di fronte alla SOVMEDRON la posizione turca era sì di prima linea, ma vincolata ai trattati di libera navigazione dagli stretti; la Grecia ancor più indebolita dal regime dei colonnelli, instaurato nel 1967; Francia e Gran Bretagna in ripiegamento per i motivi citati: l’Italia divenne fra gli stati rivieraschi l’alleato NATO politicamente di primo piano in Mediterraneo. Questo rafforzò la dimensione marittima dell’intervento delle superpotenze nel conflitto arabo-israeliano, infatti l’Unione Sovietica ampliava il sostegno al campo arabo, intensificando in particolare la cooperazione militare con l’Egitto tramite lo spazio marittimo. Se la guerra arabo-israeliana del 1967 fu influenzata dalla presenza russa, in termini tuttora dibattuti dalla storiografia, è invece fuori discussione il fatto che il naviglio sovietico alla rada ad Alessandria e Porto Said abbia dissuaso gli israeliani dal bombardare tali porti. Fra una guerra e l’altra, la presenza sovietica in Egitto compì la sua parabola, dacché alla vigilia della guerra del 1973 il presidente egiziano Anwar al Sadat espulse i consiglieri militari sovietici dal Paese. Nel corso delle trattative di pace, l’Egitto si avvicinò all’occidente e alla NATO, mentre i sovietici tennero saldamente i porti siriani.

Le radici del presente

Nel 1969 in Libia un colpo di stato rivoluzionario instaurò la repubblica e aprì la lunga stagione dominata dalla figura di Muhammad Gheddafi, che si proclamava erede del panarabismo nasseriano. Questo rivolgimento dinamizzò ulteriormente la situazione, iniziando a costituire un’area di crisi nel mediterraneo che chiamava in causa gli italiani e la loro storia recente. In Italia nel corso degli anni Settanta, per un complesso di motivi non confinabile unicamente alla realtà interna, la causa palestinese raccolse inedite simpatie, e d’altronde le relazioni italiane con i Paesi arabi, Libia inclusa, si svilupparono ben oltre il sempre strategico orizzonte degli idrocarburi. Tuttavia sul piano strategico la rilevanza dell’isola di Malta si accrebbe proprio in relazione al nuovo regime libico, e furono gli italiani a condurre la politica verso l’isola nell’ambito degli alleati atlantici. Nel Mediterraneo orientale greci e turchi erano avvolti nelle spire della questione cipriota che impantanava gli stessi britannici, detentori sull’isola della strategica base di Akrotiri, dunque gli italiani erano effettivamente gli alleati NATO maggiormente disponibili a cogliere gli spazi politici che si aprivano nelle relazioni con i paesi rivieraschi.

Quando, su invito del presidente americano Jimmy Carter, il governo italiano fu coinvolto nel sostegno al processo di pace, con lo specifico obiettivo di agire sugli egiziani, l’intesa fra Italia e Stati Uniti in ambito mediterraneo fu ulteriormente rafforzata. Parallelamente gli italiani riuscirono ad inserirsi nella politica di neutralità maltese, ottenendo un accordo di tutela italo-maltese che di fatto escludeva non solo le aspirazioni sovietiche, ma soprattutto gli aggressivi interessi libici sullo spazio marittimo dell’isola. Così, nel corso degli anni Ottanta, le strutture NATO nel Mediterraneo furono sempre più chiamate in causa da crisi e interventi solo tenuemente legati alla difesa dall’espansionismo sovietico, vero o percepito che fosse, ma sempre più legati alla questione del terrorismo di matrice mediorientale quale minaccia alla sicurezza mondiale o più in generale a quelle aree di instabilità esterne al confronto bipolare, quale il golfo persico dopo la rivoluzione iraniana del 1979. La missioni delle forze multinazionali – a geometria variabile di Paesi partecipanti – videro l’Italia inviare dei contingenti militari per la prima volta dalla guerra di Corea, ma con la sostanziale differenza di un consenso interno mai tributato precedentemente. Valga ricordare il caso della forza multinazionale in Libano che, sebbene sotto egida ONU, impiegò le basi NATO italiane per una missione che permise l’evacuazione dei miliziani dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) da Beirut assediata delle forze israeliane.

I frutti di questa politica non tardarono, dacché nel corso degli anni Ottanta l’Egitto iniziò una collaborazione con la stessa NATO, ospitando e partecipando alle esercitazioni congiunte dal nome in codice “Operazione Bright Star”, ripetute su base tendenzialmente biennale fino ad oggi. Un avvicinamento notevole, che portò ancor di più la NATO nel gioco politico dei paesi MENA (Middle East and North Africa), con un’inevitabile esposizione delle strutture e del personale stesso. Valga qui richiamare un paio di episodi occorsi nel 1985-86, come il bombardamento israeliano del quartier generale dell’OLP, stabilitosi a Tunisi, che portò alcuni osservatori arabi a sospettare un supporto logistico NATO ai bombardieri israeliani; oppure la crisi diplomatica fra Italia e Stati Uniti attorno alla base di Sigonella, in Sicilia, derivata dal dirottamento della nave da crociera italiana “Achille Lauro”. Di altro tenore furono i raid statunitensi in risposta alle provocazioni libiche sul Golfo della Sirte, poiché essi segnarono una distanza del governo italiano da quello statunitense rispetto alla gestione delle mire di Gheddafi. Questo nonostante in Italia vi fosse allora uno dei governi più atlantisti della repubblica, presieduto dal socialista Bettino Craxi che aveva condotto il suo partito a promuovere lo schieramento dei missili BMG-109 Tomahawk e MGM-31 Pershing, i cosiddetti euromissili.

Nel 1989, l’avvio del collasso del sistema sovietico parve aumentare, se possibile, gli spazi per la politica italiana nel Mediterraneo e quindi gli spazi dell’Italia nella NATO, ma la crisi politica apertasi in Italia nel 1992 certamente ne ridimensionò le aspirazioni, senza eclissare del tutto le posizioni acquisite nell’ambito dell’alleanza. Su questo piano la stagione della Seconda Repubblica fu segnata dall’intervento nei Balcani, prima in Bosnia-Erzegovina e poi in Kossovo, dove l’Italia fu in prima linea verso un fronte fluido di allargamento della NATO ai paesi dell’Europa orientale. Ma l’Italia fu anche in prima linea nel ricercare un intesa NATO-Russia, che nel tramonto della Prima Repubblica fu vista come cardine d’azione. Il turbine della storia non ha permesso lo sviluppo di questa ipotesi, oggi ai minimi termini. Maggior fortuna ebbe il Mediterranean dialogue, promosso nel gennaio 1994 dal governo Ciampi, anche perché fu un’iniziativa di diverso carattere. Il Mediterranean dialogue ha creato un partenariato bilaterale dei paesi NATO con i paesi della sponda sud del mare, promuovendo la cooperazione, lo scambio di informazioni e in generale la concezione di sicurezza. Questo approccio ha incrementato senz’altro la qualità della public diplomacy, ma attraverso i programmi di partenariato ha reso possibili cooperazioni mirate, per esempio, al contrasto al terrorismo. Nel 2004 una ristrutturazione dei comandi crea l’Allied Joint Force Command (JFC)-Naples dal precedente AFSOUTH, prima nel quartiere di Bagnoli e poi dal 2012 a Lago Patria. All’interno del JFC è stata costituita, nel 2017, la NATO Strategic Direction South – Hub, che dallo spirito del Mediterranean Dialogue traduce linee operative verso i Paesi della sponda meridionale del mare. In mezzo sono avvenute le cosiddette primavere arabe, che hanno cambiato il panorama politico dei Paesi coinvolti nel Mediterranean Dialogue. Quando francesi e britannici sono intervenuti nell’insurrezione libica contro Gheddafi, il quadro politico italiano era fragile e frammentato. Non di meno, gli italiani sono riusciti a riportare l’intervento in un ambito NATO, evitando così un’azione meramente unilaterale che richiamava il pericoloso precedente del 1956. Si è trattato però di un contenimento delle forze centrifughe, essendo ancor oggi la Libia in balia delle milizie e priva di un vero stato nazionale. Ma se la politica estera italiana avrà la possibilità di intervenire nella conclusione della virulenta crisi libica, per essere efficace essa dovrà verosimilmente contare su una nuova azione concertata in ambito NATO.

Matteo Gerlini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *